Che cos'è la verità? Quid est veritas?

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QUID EST VERITAS?
La domanda di Pilato è destinata a restare senza risposta?

I - II

Mathias Stomer, Cristo davanti a Pilato

"Che cos'è la verità?", chiese il cinico Pilato in un improbabile dialogo con un messia che nello stesso vangelo di Giovanni, autodefinendosi "figlio di dio", non aveva difficoltà ad affermare ch'era proprio lui la "verità".

Se si dovessero prendere alla lettera i vangeli (canonici o apocrifi non importa), la comprensione della verità sarebbe al di là di qualunque capacità umana. Il fatto tuttavia che Gesù pretendesse d'essere considerato un dio, non ha impedito alla gente di crederci e di farlo da ben duemila anni.

Dunque a chi dare ragione? Agli ebrei che, sentendo un leader politico qualificarsi come "figlio di dio" e vedendo che aveva molto seguito, lo uccisero perché temevano che avrebbe scardinato le loro verità (la prima delle quali era appunto che nessuno poteva fregiarsi di un titolo divino), oppure ai cristiani che hanno odiato gli ebrei proprio per aver ucciso il figlio unigenito di dio-padre?

I vangeli ci hanno costretti a ragionare in termini a dir poco assurdi, quando essi stessi sono stati un'opera di mistificazione. Come possiamo trovare la verità se sono false o malposte persino le domande di partenza?

Sarà mai possibile trovare una verità sulla vicenda dell'uomo-Gesù quando gli unici testi che ce lo presentano ne fanno una sorta di extraterrestre? quando cioè il genere letterario in cui collocare quelle fonti più che "storico" è "fantastico"?

Come si può parlare di "verità storica" quando chi doveva trasmettercela, ha manipolato così abilmente tutte le fonti da impedirci di fare un minimo di chiarezza? Per settecento anni s'è creduta vera la Donazione di Costantino, e sulla base di essa il papato ha potuto legittimare la propria aspirazione al potere temporale. E quando finalmente si è arrivati a capirlo, era già troppo tardi. Da tempo quel falso aveva raggiunto il suo obiettivo.

Che fare di fronte a situazioni del genere? La storia non ha un tribunale come quello di Norimberga: il massimo che si può fare è affidarsi alla libertà di coscienza.

Tra tanti falsi documentali l'unica verità sembra appunto essere quella relativa al loro carattere tendenzioso, apologetico, ideologico. Siamo persuasi ch'esiste una "verità" proprio perché s'è fatto di tutto per negarla. Al momento non possiamo fare affermazioni in positivo, ma solo in negativo, mettendo in dubbio le pretese certezze.

Vien da chiedersi cosa succederà alla chiesa quando le masse saranno sufficientemente persuase che Cristo si equiparava a dio non per affermare una propria esclusiva divinità, ma, al contrario, per affermare la divinità dell'uomo in quanto tale. Cioè l'identificazione non era per sostenere un'entità separata dall'essenza umana, ma proprio per negarla!

Sicché i titoli "figlio dell'uomo" e "figlio di dio" sarebbero in realtà equivalenti, estensibili a ogni essere umano (ammesso e non concesso che Cristo abbia mai usato un titolo così "religioso" come "figlio di dio", che gli stessi imperatori romani usavano, passando per blasfemi agli occhi degli ebrei).

Da due secoli e mezzo, a partire cioè da Reimarus, si va dicendo che il Cristo era un politico che voleva cacciare i Romani dalla Palestina, quindi tutt'altro che un pacifico predicatore di un regno ultraterreno di verità e giustizia.

Ovviamente la chiesa ha sempre ritenuto falsa questa tesi, nonostante la fondatezza di molte sue argomentazioni. E probabilmente non esiterebbe, ancora oggi, a lanciare scomuniche e anatemi contro quanti volessero sostenerla.

Questo però è un segno che alla comprensione adeguata della verità ci si sta progressivamente avvicinando. Cristo non solo era un politico rivoluzionario, ma, fondamentalmente, era anche ateo.

PENSIERO E REALTA'

Il pensiero stanca, soprattutto quando approfondisce troppo le cose. Se la prassi è il criterio della verità, un pensiero non corrispondente alla realtà mente sempre, proprio perché, oggettivamente, non è in grado di avvicinarsi alla verità. Nel migliore dei casi sa dire quel che non si dovrebbe fare, ma resta povero nell'aspetto propositivo.

Il pensiero più ricco è quello che riflette adeguatamente la realtà, o almeno si sforza di farlo: è quello che sa individuarne i limiti e indicare soluzioni per superarli (o comunque per gestirli al meglio, senza ch'essi provochino pericolosi traumi alla collettività). Un pensiero che non parte dalla realtà e che non torna alla realtà, non vale nulla.

E se parte dalla realtà è ricco anche quando è concettualmente povero, poco elaborato. La vera ricchezza è data dalla sostanza, che non è misurabile o quantificabile: non esiste neppure un criterio preciso per identificarla.

La sostanza pone sempre questioni di coscienza, non di scienza. Se ci si attenesse a queste regole elementari, noi dovremmo mandare al macero i 4/5 della nostra produzione intellettuale. Questo poi senza considerare che la realtà muta di continuo, per cui un pensiero, utile per una determinata realtà, diventa del tutto inutile per un'altra, sicché, alla fine, se non scrivessimo nulla sarebbe quasi meglio: eviteremmo quanto meno d'illuderci che le cose messe per iscritto abbiano più importanza di quelle dette a voce.

L'unica cosa che davvero conta è il metodo con cui si affrontano le cose, e quello più sbagliato lo si vede quando si vuole applicare meccanicamente alla realtà, per pigrizia o per presunzione, una determinata teoria.

La teoria serve per affrontare le contraddizioni insostenibili, invivibili, ma è nella realtà stessa, nelle sue dinamiche sociali che vanno cercate le soluzioni. Non serve a nulla astrarsi dalla realtà, pensando in tal modo di non venire condizionati dalle sue antinomie: son proprio queste che danno senso o scopo ai nostri pensieri. La purezza esiste solo nei neonati, il cui pensiero è prossimo allo zero.

La cosa più stupida che si possa fare è quella di rivedere parzialmente le proprie teorie, cercando di adeguarle alle circostanze che cambiano. Uno si deve spogliare di tutto per affrontare adeguatamente i nuovi problemi che la realtà, ogni volta, gli sottopone.

ELOGIO DELL'AMBIGUITA'

Non c'è nulla che non possa essere interpretato in maniera ambivalente: né una parola, né un'immagine o un suono, neppure il silenzio o il vuoto. Tutto è soggetto ad ambiguità, anche perché è proprio questa incertezza che indica la presenza nell'essere umano della libertà di coscienza, che stimola la mente ad aprirsi, che misura la virtù.

Per cui pensare che i sensi siano più sicuri dell'intelletto è pura follia, come d'altra parte lo è il contrario, in quanto proprio l'attaccamento pervicace a determinate idee ha provocato disastri incalcolabili; così come le strategie basate sulla manipolazione degli istinti. I sensi senza l'intelletto sono ciechi, e l'intelletto senza i sensi è sordo.

Non c'è nulla di definito o di definibile, se non appunto il concetto di "relatività" o, se si preferisce, di "dialettica", che è lo strumento che tiene uniti gli opposti. Nulla può esistere di indipendente dalla volontà, dalla facoltà di scelta, dal libero arbitrio dell'uomo; nulla che possa imporsi da sé, come un'evidenza certa, indiscutibile, automatica. Nessun dio può vantare d'essere più grande dell'uomo. L'unico essere è "umano", che non sopporta alcun altro "essere" privo di umanità, unica vera fonte della libertà.

La stessa natura, che pur ci è data come un'evidenza esterna, non ha leggi superiori a quelle che possono regolamentare in maniera equilibrata l'esistenza umana. Anzi gli uomini rappresentano il grado supremo dell'autoconsapevolezza dell'universo.

Chi pensa il contrario è un fanatico, un illuso o una persona limitata, con poche idee nella testa. Non abbiamo alcuna possibilità di dire "ciò che è", ma solo "ciò che non è", con tutta l'umiltà possibile, ma anche con tutta l'onestà, la sincerità e la convinzione di dire la sacrosanta verità.

Possiamo parlare solo al negativo, possiamo soltanto usare espressioni come "forse", "dipende", "può darsi", "per il momento", "stante le cose in questi termini", "posti questi presupposti", e così via.

Possiamo soltanto essere apofatici, cioè indiretti, possibilisti, simbolici, allegorici; non possiamo essere categorici, apodittici, esclusivisti. La vita è soltanto una metafora, che richiede una continua metanoia.

Quando diciamo che non esiste alcun dio al di fuori dell'uomo, lo diciamo proprio per assicurare all'uomo la sua umanità e quindi la sua libertà di scelta, di essere per la scelta e non per il dover essere.

Un qualunque dio sarebbe una non-scelta, un'imposizione intollerabile, un giudizio insopportabile. L'a-teismo non è la semplice negazione del dogmatico teismo, non è il rovescio della medaglia, ma la pre-condizione minima per iniziare ad essere se stessi. L'a-teismo non indica all'esistere la strada dell'essere, ma permette di cercarla liberamente, lontani dai condizionamenti della religione, che, per forza di cose, sono alienanti, in quanto separano l'umano dalla libertà.

La fede religiosa impedisce la ricerca, l'auto-esame, la disponibilità al mutamento; favorisce solo la rassegnazione, la passività di chi si affida ad altri, a un dio ritenuto infinitamente migliore di sé (che poi, nel concreto, vuol dire affidarsi ai suoi rappresentanti, che speculano sulle debolezze altrui).

La fede è soltanto la giustificazione del vittimismo, l'idea illusoria che il vittimismo possa essere un valore. Tutte le religioni indicano che nel passato più remoto è esistita un'età dell'oro, ma nessuna ha mai avuto la forza per farci ritornare a quell'età.

E' POSSIBILE UNA VERITA' STORICA?

La storia non può finire con l'esperienza terrena, poiché in questa dimensione la verità, nel senso pieno della parola, è impossibile. Finché esistono civiltà antagonistiche, i cui poteri dominanti decidono l'ideologia ufficiale, avendo il monopolio dei mezzi comunicativi, nessuna verità è possibile. Al massimo sono possibili delle "mezze verità" o delle critiche alle verità ufficiali del governo, delle istituzioni, ma la vera verità, quella che una volta si definiva "pura", è fuori della nostra portata.

Possiamo soltanto avvicinarci ad essa, in maniera approssimativa, facendoci aiutare da chi ha una visione opposta a quella dei poteri dominanti, a quella di chi non tiene in alcun conto le classi marginali; ma dobbiamo farlo senza credervi ciecamente, poiché non c'è nulla che indichi la verità come un'evidenza. Infatti dobbiamo accontentarci di un'approssimazione per difetto. L'insieme sfugge alla nostra comprensione, anche se un lavoro d'équipe è certamente più significativo di quello del singolo, per quanto intelligente sia.

Il nostro giudizio è condizionato soprattutto da due fattori. Il primo è che quando gli aspetti privati confliggono con quelli pubblici, diventiamo cinici se preferiamo quelli pubblici (quanti grandi personaggi sono stati fatti fuori dalla cosiddetta "ragion di stato"? Socrate, Cristo, Tommaso Moro, sino al deputato Aldo Moro). Se invece preferiamo quelli privati diventiamo sentimentali, troppo condiscendenti.

I conflitti sociali di queste civiltà inducono a dare più importanza alla politica che alla morale, anche quando non si è politicamente impegnati; sicché la morale si guasta, subisce dei condizionamenti che le fanno perdere lo spessore umano. Chi fa politica per mera esigenza di potere fa diventare cinico anche chi non la fa, cioè anche chi preferisce dedicarsi agli affetti familiari, agli amici, ai propri hobby.

"Il potere logora chi non ce l'ha" - questa tristissima massima di uno dei principali protagonisti del delitto Moro, in fondo pesca nel vero, poiché nell'antagonismo sociale l'emarginato s'incattivisce, si disumanizza, perde la faccia di bronzo che caratterizza chi sta al potere, per il quale l'assenza di morale va vissuta con assoluta indifferenza.

Chi invece pensa che gli aspetti etici siano da coltivare molto di più di quelli politici, finisce col diventare ingenuo, col non capire fin dove si può spingere il cinismo della politica, dove la regola è quella di dire sempre il contrario di ciò che si pensa.

Il secondo fattore da considerare, che ci impedisce di avere una visione obiettiva delle cose, è il fatto che tendiamo a dare ragione a chi soffre, tendiamo a giustificarlo, anche quando sappiamo che politicamente ha torto. Gli aspetti umani ci commuovono, ci mettono in confusione e offuscano l'interpretazione obiettiva della realtà, quella che deve tener conto dei conflitti di classe, dei rapporti di proprietà. Quanti militari tedeschi sopravvissuti alla battaglia di Stalingrado hanno pianto i loro compagni perduti, senza rendersi conto del genocidio che stavano compiendo ai danni dei russi?

Ecco perché non siamo capaci di vera verità. Il fatto è purtroppo che non siamo automi, in grado di accontentarci di verità evidenti, di tipo matematico. E' un bisogno della natura umana quello di conoscere il senso delle cose, quello profondo o "ultimo". E sappiamo bene che se non riusciamo a soddisfarlo, meno ancora vi riusciranno le generazioni future, per quanto a volte la lontananza dagli interessi in gioco possa aiutare nella ricerca nella verità.

Noi rischiamo continuamente di compiere azioni di cui non saremo noi a vergognarci, ma le generazioni future, le quali, se e quando prenderanno consapevolezza dei nostri errori, non avranno modo di rinfacciarceli. Già faranno una fatica immane a scoprire le nostre falsificazioni, in quanto noi avremo lasciato loro un'interpretazione dei fatti del tutto edulcorata. Ma anche quando vi riuscissero, con chi se la prenderanno? Non è forse un'ingiustizia che una generazione compia impunemente degli abusi e ne scarichi le conseguenze sulle generazioni successive?

Questa mancanza di senso della storia non ci permetterà mai di raggiungere la verità. Ecco perché abbiamo bisogno di un'altra dimensione per chiarirci definitivamente, e chissà fino a che punto sarà possibile farlo a mente fredda: le cose a volte s'interiorizzano così tanto che neppure a grande distanza di tempo si riesce a metabolizzarle. Quando i sopravvissuti dei lager ricordano quello che hanno passato si commuovono ancora, come se fosse successo ieri, e si commuovono persino i loro figli, quanto i genitori sono morti già da tempo.

L'importante, sin da adesso, è non acquisire la psicologia della vittima innocente, quella di chi vuole reagire a tutti questi soprusi con spirito vendicativo. Noi non possiamo rischiare di comportarci peggio delle precedenti generazioni, anche se è nostro compito smascherare chi sostiene d'essersi comportato in una certa maniera per assicurarci un'esistenza dignitosa.

La sofferenza va relativizzata: di per sé essa non rende più vera la verità; anzi, il più delle volte la falsifica, poiché uno pensa che in nome del proprio dolore tutto gli sia lecito. Quando Dante incontrò Brunetto Latini e lo sentii inveire pesantemente contro i fiorentini, lui che, in fondo, da loro aveva ottenuto un danno alquanto modesto, così gli rispose: "Son pronto ad affrontare la sorte, qualunque cosa essa mi riservi, purché la mia coscienza non mi rimproveri" (Inferno, XV, 91-93).


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018