ARCIPELAGO ISLAM

RELIGIONE E NO
Letture sul tema della religione e della laicità


9 - ARCIPELAGO ISLAM

Ho più volte detto di essere convinto che non esiste una uniformità dell'islam, contro le letture unidimensionali spesso adottate da commentatori e ideologi occidentali. Ora, la lettura di un libro sull’estrema complessità dell’islam di Massimo Campanini e Karim Mezran, ci fornisce un panorama abbastanza dettagliato della storia più recente e dei diversificati movimenti esistenti in ambito islamico. (120)

Si tratta di un testo che non fa suo un punto di vista di critico nei confronti della religione e che per questa ragione presenta, a mio avviso, qualche astrattezza in alcune definizioni preliminari - come ho già scritto nel caso del solo Campanini, a proposito di democrazia e islam. Per esempio, gli autori definiscono l'islam come espansione nella sfera del sociale "non necessariamente nella sfera del politico", che è una distinzione utile dal punto di vista analitico, ma scarsamente consistente dal punto di vista di un giudizio d'assieme, a meno che non si abbia una nozione residuale, assai ristretta, di ciò che è il politico. Così come è molto problematico che si possa parlare dell'ideologia islamica come ideologia in senso buono, "cioè di una concezione onnicomprensiva della realtà che guida la prassi storica e sociale degli uomini", senza mettere in evidenza l'effetto di schiacciamento che proprio questa onnicomprensività opera sulla pluralità delle identità e dei ruoli umani.

Poiché nel libro viene poi sviluppato il tema della religione che da "scienza astratta di un Dio la cui essenza rimane inconoscibile", si trasforma in antropologia, ossia in "scienza concreta dell'uomo che lotta per i propri diritti", con una valorizzazione assai interessante che gli autori fanno di questo filone religioso-culturale esistente nell'ambito dell'islam, mi chiedo di nuovo come si possa pretendere di tenere separata questa antropologia dalla politica. Infine, mi sembra piuttosto temeraria e poco credibile l'affermazione che "religione e politica non sono state mai (o pressoché mai) mescolate nella pratica della gestione degli stati islamici".

Ciò detto, vanno segnalate alcune fondamentali distinzioni che gli autori introducono nel paragonare l'islam a altre religioni, come il cristianesimo e, in particolare, il cattolicesimo. L'islam non ha una ortodossia (almeno non nel caso della maggioranza sunnita) e, quindi un dogmatismo identificabile con una dimensione sacerdotale. Da questo punto di vista, piuttosto che un'ortodossia, nell'islam esiste una ortoprassi, ossia quello che si fa nella concretezza della vita quotidiana importa di più di quello che si crede. Il che lascerebbe ampi spazi alla libertà di interpretazione religiosa e poco spazio al comportamento incoerente del credente rispetto a ciò che crede. Si tratterebbe perciò di una religione con una scarsa tolleranza per le doppie morali, così in uso nell'ambito cattolico. Per quanto, la cronaca contraddica ampiamente il fatto che tale indirizzo sia rispettato, per lo meno a livello di gruppi dirigenti. Insomma, l'islam sarebbe una religione teocentrista e non teocratica, persino nel caso degli sciiti, la cui credenza sarebbe meglio definita come ierocratica, ossia "un sistema in cui gli esperti di scienze religiose godono di particolare autorità".

L'ingombrante, pervasiva e soffocante presenza della divinità, che innerva le società islamiche, teocrazia o teocentrismo che siano, è comunque confermata. Tanto più se, come ci ricordano gli autori, "per il concetto islamico hanno maggior valore il gruppo e la Comunità dell'individuo" e se si considera che, "in linea di principio, non esiste diritto naturale nell'islam, poiché l'origine del diritto è rivelata"; così da non giustificare, certo, ma da dare una spiegazione alla lapidazione, che d'altra parte non è pena coranica, mentre lo è la fustigazione. Confesso che non per questo tiro un sospiro di sollievo.

Tutto è cominciato, per così dire, con la crisi dell'islam e con il sorpasso dell'Europa tra XVI e XVI secolo. Gli autori elencano i vari fenomeni che accompagnarono la decadenza islamica, ma non si soffermano a cercarne una spiegazione, forse anche perché ciò li avrebbe portati un po' troppo lontano dagli obbiettivi del libro. Tuttavia, la mancanza di questo tassello fondamentale, se nulla toglie alla perspicuità delle pagine successive, mantiene per forza di cose l'analisi in un ambito descrittivo al termine del quale il lettore – questa è la mia impressione – non disporrà ancora di una chiave interpretativa esauriente. (121) Sta di fatto che tra XIX e XX secolo "l'Europa sfidava la tradizione islamica proponendo le nuove categorie di nazione, popolo, libertà, democrazia e secolarismo". La forza politica, economica e militare, nonché il fascino esercitato da queste idee, promossero un riformismo islamico, che non si propose tanto di modernizzare l'islam, quanto di "islamizzare la modernità". Un tentativo che in qualche modo continua a riproporsi ancora oggi, come abbiamo visto nel caso Tariq Ramadan e come vedremo tra poco nella rassegna dei movimenti islamici fatta da Campanini e Mezran.

Qui c'è uno snodo fondamentale della questione su cui interrogarsi e anche una riflessione da fare nel confronto tra cristianesimo e islam. Voglio dire che una delle idee fondamentali del Corano è che Dio avrebbe inviato altri profeti all'umanità, prima di Maometto (Mosé, Gesù), ma che le successive interpretazioni e deviazioni degli uomini avrebbero tradito la verità originaria. Per cui Allah avrebbe ritenuto necessaria una nuova e definitiva profezia, ordinando l'assoluta intangibilità della nuova Parola e fondando su ciò l'identità del musulmano. Perciò, qualsiasi novità che si presenta nella storia deve essere interpretata solo alla luce del libro sacro. Il cristianesimo (specialmente il cattolicesimo) non nega un approccio simile, ma ha avuto la flessibilità o l'accortezza di rendere indivisibili la sacralità, la verità della Parola originaria e il magistero successivo della Chiesa, come crescita legittima della fede. Per cui l'interpretazione del Vangelo ha assunto uno statuto diverso, fondato su un sia pur tenue approccio evolutivo. Questo, mi pare, manca del tutto nell'islam.

Tanto è vero che il movimento salafita iniziato alla fine dell'800 (da salaf, antenati) e che è oggi largamente maggioritario, per modernizzare si rivolse al passato, invitando a tornare alle fonti della purezza originaria, a quelle fonti che si presumeva avessero a suo tempo fatto grande l'islam e che avrebbero contenuto tutta la razionalità e la modernità di cui i musulmani avevano bisogno. Come se, ricollegandosi al periodo della nascita e della prima espansione dell'islam e accantonando tutte le tradizioni e le prescrizioni successive che ne avevano sfiancato l'efficacia, come per incanto l'islam potesse risorgere a nuova vita e riacquistare l'antico predominio.

Generalizzando molto, questa a me pare la scelta dominante in tutti i riformismi islamici, anche successivi, moderati o radicali, i quali hanno tentato e tentano di conquistare il futuro con la testa voltata all'indietro.

L'antica grandezza esercita un'attrazione ipnotica irresistibile, oltre ad essere una torsione intellettuale obbligata, che i religiosi strumentalizzano e da cui gli intellettuali non riescono a liberarsi, salvo alcuni casi assolutamente minoritari. Inoltre, è proprio questo ossessionante principio di autosufficienza, così caratteristico dell'islam, che rischia di sbarrare la strada al dialogo, alla reciproca fertilizzazione delle idee e a una evoluzione globale positiva.

Sta di fatto che, con il tempo, l'attrazione iniziale dei paesi musulmani nei confronti dell'Occidente si mutò in diffidenza e anche in un atteggiamento conflittuale. Per i nostri autori, le cause principali di questo mutamento sono state due: "in primo luogo, la percezione che l'Europa non era solo fonte di progresso e di scienza, ma anche di sfruttamento coloniale e di imperialismo culturale; in secondo lungo, il timore che appunto, l'imperialismo politico e culturale europeo avrebbero sradicato i musulmani dalle loro radici civili, religiose e sociali". La storia dei rapporti che nel Novecento hanno segnato il binomio Islam-Occidente è peraltro magistralmente descritta nel libro o di Robert Fisk, Cronache mediorientali, che davvero consiglio nuovamente di leggere, se si vuole avere un’idea meno approssimativa delle ragioni storico-politiche che rendono così difficile il rapporto con il mondo islamico. (122)

Molto interessante e illuminante, tornando ai nostri due autori, è la storia della cosiddetta seconda ondata del riformismo islamico, che parte all'incirca dagli anni Trenta del secolo scorso, incentrata soprattutto sui Fratelli musulmani egiziani e sulle loro diramazioni in altri paesi. Un movimento il cui successo è dovuto in gran parte alla "rigida ed efficiente organizzazione gerarchica" e al "loro radicamento sociale". In effetti, oltre ai motivi religiosi di fondo del movimento (i Fratelli musulmani erano convinti "del valore politico della religione e anzi affermavano che l'Islam non conosce potere spirituale che viene riassorbito dal politico"), la loro ideologia "si muoveva di fatto verso un socialismo islamico che non era dissonante dal socialismo arabo nasseriano." Secondo Sayyd Qutb, (123) un intellettuale inizialmente laico, tuttora molto letto e seguito, condannato a morte nel 1966, l'Islam è, tra l'altro, "la religione dell'unificazione tra tutte le forze dell'essere; non per nulla è la religione della Unicità (tawhid): unicità di Dio, unificazione di tutte le religioni nella religione di Dio, uniformità del messaggio trasmesso da tutti i profeti dall'alba della vita [...] L'Islam è la religione che unifica l'atto del culto e l'atto sociale, il dogma e la Legge, lo spirito e la materia, i valori economici e quelli essenziali, l'aldilà e l'al di qua, la Terra e il cielo".

Insomma, è una religione o ideologia totalitaria che è, contemporaneamente un'arma di lotta contro l'Occidente, inteso anche razzialmente. Altrove, Qutb, esponente di spicco dei Fratelli musulmani, piegatosi progressivamente verso un radicalismo sempre più acceso a causa delle delusioni politiche e delle sconfitte subite dal nasserismo, ha infatti scritto che "l'uomo bianco è il nostro primo nemico, sia che egli si trovi in Europa, sia che si trovi in America. [...] Ciò richiede che noi teniamo conto di noi stessi e che ci poniamo come pietra angolare nella nostra politica estera e anche in quella interna. È necessario che i nostri figli nelle scuole accrescano i loro sensi e aprano le loro menti agli oltraggi dell'uomo bianco e al suo progresso e alla sua cupidigia. È necessario che il traguardo della nostra educazione sia l'emancipazione dall'influenza dell'uomo bianco. Non soltanto politicamente o economicamente, ma socialmente, sentimentalmente, intellettualmente”. (124)

Qutb viene considerato come una delle fonti intellettuali di Osama bin Laden ed era, ci ricordano gli autori, "fortemente avverso all'idea di progresso che, a suo avviso, domina la civiltà occidentale". Del resto, secondo Qutb, l'obbedienza ai governi sarebbe dovuta fintantoché "il governante riconosce che il governo appartiene a Dio soltanto e quindi applica la Legge di Dio", tanto da essere all'origine, a quanto sembra, della prima teorizzazione moderna del martirio per cause politiche come via d'accesso al paradiso. Quello che potremmo chiamare una specie di rigorismo calvinista di Qutb, basato sull'assoluta prevalenza della comunità, attaccava i fondamenti stessi e le origini del pensiero occidentale, a cominciare dalla civiltà greca e fino alla condanna di Darwin, il quale avrebbe "trascurato che l'ordinamento del mondo dipende da una volontà trascendente e che nessuna cosa opera disordinatamente e a caso". Ancora un esempio di assoluta incomprensione religiosa dell'evoluzionismo, che non opera affatto a caso né tanto meno disordinatamente, come abbiamo visto. La creazione sarebbe invece "ininterrotta, continuamente rinnovata e inesausta".

L'ispirazione a Qutb e a altri pensatori o teologi medievali (ancora il Medioevo!) produsse la radicalizzazione dell'islamismo degli ultimi decenni del Novecento – scrivono Campanini e Mezran – con una moltiplicazione di tendenze il cui segno unificante risiedeva in un rovesciamento dell'originaria ispirazione dei Fratelli musulmani, secondo i quali l'islamizzazione della società doveva procedere dal basso. I nuovi movimenti teorizzavano invece l'islamizzazione "dall'alto, imposta con la violenza, a prescindere dall'assenso o meno di chi la subiva". Gli autori passano così in rassegna quasi tutto lo scacchiere geopolitico musulmano esaminando le tendenze e i caratteri dei più noti movimenti e degli esponenti di maggiore spicco, che sarebbe troppo lungo tentare di riassumere qui.

Certamente, le politiche neoliberiste e di aggiustamento strutturale imposte dalla autorità monetarie internazionali in quegli anni, costringendo gli Stati a abbandonare le già limitate politiche di welfare esistenti, hanno favorito l'affermarsi di un "vasto network di associazioni caritatevoli, scuole ed enti di beneficenza" gestiti dai movimenti islamici di varia tendenza. Le politiche estere e economiche occidentali hanno poi spesso spianato la strada al radicamento del terrorismo. Non è qui il caso di ripercorrere i casi dell'Afganistan, della Palestina, del Libano e, più recentemente, dell'Iraq. Ma, avvertono gli autori, guai a confondere tra loro i diversi movimenti esistenti. Il radicamento sociale di Hamas o di Hizballah ha molto poco a che fare con un'avanguardia sradicata come Al-Qa‘ida.

Gli autori prendono poi in esame le nuove tendenze esistenti, cominciando dagli islamisti moderati, che non sono pochi né privi di influenza. Moderati nel senso che rifiutano la violenza come metodo, ma anche nel senso che, pur ponendosi l'obbiettivo dello Stato islamico, tuttavia stabiliscono un rapporto positivo con la democrazia e con la scienza, tentando un'attualizzazione dei valori dell'islam.

Molto interessante anche il capitolo sugli esponenti della teologia islamica della liberazione, presenti sia nel sunnismo che nello sciismo. Essi sostengono il carattere rivoluzionario dell'islam e per questa ragione potrebbero essere considerati come costituenti una sinistra islamica. In questi pensatori (uno per tutti l'egiziano Hasan Hanafi (125) che punta alla trasformazione della teologia in antropologia) "gli uomini sono di fronte a Dio in orizzontale, su un piano di parità, senza subordinazione verticale del povero al ricco, del nero al bianco, del debole al potente" e la trasformazione della teologia in antropologia significa che "non tanto importa sapere chi è Dio, quanto importa liberare la creatività umana per costruire una teologia della terra, una teologia della liberazione". Insomma, "Dio diviene il progresso realizzato nella storia o lo sviluppo della Comunità. Perciò ogni teologia che ammette una concezione gerarchica del mondo è conservatrice e di destra”.

Va detto che, in genere, questi nuovi teologi di sinistra non sono meno antioccidentali degli altri, ma hanno una scarsa influenza popolare.

Infine Campanini e Mezran esaminano il femminismo islamico. Anche in questo caso "l'obbiettivo del pensiero islamico femminista è quello di conciliare l'Islam e il rispetto dei diritti delle donne musulmane, attraverso il recupero dei valori originari della religione”. La rilettura del Corano (qualche accenno lo abbiamo visto con Fatema Mernissi) si sforza di distinguere i valori senza tempo dei principi etici e sociali del Libro da ciò che invece "va contestualizzato in risposta a precise circostanze storiche". Condivido l'osservazione degli autori sull'importanza di questo filone, perché esso "è potenzialmente capace di modificare il rapporto del fedele con la religione laddove suggerisce una lettura alternativa al testo sacro, che deriva dall'assunzione di una responsabilità critica autonoma." Si tratterebbe di un bel passo in avanti per uscire dall'ipnosi religiosa in cui si aggirano quasi tutti gli altri islamisti.

Le brevi biografie delle femministe musulmane più importanti tracciano un panorama discretamente completo di questi movimenti, come quella dell'afroamericana Amina Wadud che nel 2005 ha condotto la preghiera del venerdì senza velo (ma a New York); come quella di Nadia Yasin, marocchina; come quella della libanese Afaf Hakim.

In conclusione, gli autori suggeriscono alcune linee guida utili per evitare che le organizzazioni terroriste, largamente minoritarie e marginali nell'insieme del mondo musulmano, possano avere qualche possibilità di successo grazie agli errori dell'Occidente. Intanto, occorre evitare l'identificazione infondata e automatica tra gli islamisti, tradizionalisti o meno, con il terrorismo. In secondo luogo, non si può pretendere di scegliere chi sono i musulmani buoni e chi i cattivi "a seconda di quelli che sono gli interessi dell'Occidente”. “Ciò – aggiungono – porta in primo piano il problema della democrazia", circa la quale esprimono l'opinione "che si debba favorire una via islamica alla democrazia, che potrà non corrispondere pienamente con i criteri della democrazia occidentale”.

E qui mi permetto qualche perplessità, perché vorrei che venisse chiarito, piuttosto in dettaglio, che cosa della democrazia verrebbe considerato occidentale e perciò non acquisibile. Un accenno degli autori al fatto che nell'islam i diritti universali sono da porsi "più sul piano della comunità che su quello dell'individuo" mi mette immediatamente in allarme. L'affermazione di Campanini e Mezran non è giustificabile con il fatto che "il liberalismo, in Islam, non vuol dire liberismo – la categoria che oggidì più riscuote successo in Occidente”. Una parte dell'Occidente sa bene questo e non si può fare finta (anche tra gli islamici) che non esista una lotta politica in corso proprio su questo punto. Ma tutto ciò non autorizza a dire che combattere il liberismo significa sposare giocoforza un comunitarismo governato dalla religione, come vedremo più avanti.

Prima di lasciare il tema specifico dell’islam è però bene dare un’occhiata a un altro dei componenti di quell’arcipelago islam di cui si è parlato. Sadik J. Al-Azm è un siriano, storico della filosofia europea moderna, un occidentalista, che sarebbe il corrispettivo degli orientalisti occidentali. Al-Azm sostiene, in buona sostanza, la tesi che se l’evoluzione dell’islam sarà lasciata alla religione, allora non ci sarà nessuna evoluzione; mentre se potranno agire liberamente i processi storici, allora anche l’islam avrà la sua rivoluzione liberale e democratica. (126)

Traspongo queste affermazioni sia dalle sue dichiarazioni molto dure nei confronti dell’islamismo, sia dal libro in questione. (127) L’autore ritiene in primo luogo di aver presto compreso “che è impossibile capire la storia araba moderna, cioè la nostra storia moderna, senza una piena consapevolezza di quanto è accaduto e accade in Europa”. Mi sembra che ci sia qui una conferma dell’opinione che, per converso, per capire una parte almeno dell’islamismo, agli europei sia necessario guardare davvero dentro la loro storia, esercizio che i commentatori e i politici occidentali tendono in genere a evitare accuratamente. Non è tanto una questione di reciprocità intellettuale, quanto di rintracciare i fili causali di molti fenomeni che attraversano l’islam contemporaneo: l’aver attinto alle stesse antiche fonti del sapere, in particolare a quella greca; l’interdipendenza che da sempre regola i rapporti, persino quelli conflittuali, tra islam mediterraneo in senso lato e Europa; l’avere i musulmani largamente attinto agli ismi creati in Occidente (fondamentalismo, revisionismo, integralismo e così via).

Tutto ciò fa apparire i teorici del fondamentalismo cattolico, protestante, giudaico e islamico come gente che attinge “allo stesso pozzo di concetti ed emozioni, emergendone con dottrine, insegnamenti, ideologie, esigenze, programmi e soluzioni straordinariamente simili, ma ciascuno assolutizzando la propria versione della religione e della religiosità”. Però, secondo l’autore, gli islamismi “comprendono bene (meglio, sembra, di molti esperti e specialisti occidentali), che ciò che è accaduto ai loro paesi e alle loro società è un’estensione di ciò che è già accaduto alle società europee e all’Occidente capitalista e comunista […]”. Tanto è vero che alcune delle loro richieste somigliano in modo straordinario al Sillabo a suo tempo emanato da Pio IX, di cui riparlerò.

L’analisi che Sadik J.Al-Azm compie del radicalismo islamico è severa e senza appello, tanto più in quanto è condotta attraverso la comparazione con gli speculari fenomeni occidentali. Così come il giudizio sulla vicenda Salman Rushdie chiarisce, da una lettura del documento originale che l’autore ha fatto, che non si è trattato di una fatwa (ossia di un parere avente la forza della religione) come in Occidente si è subito detto e tutti hanno ripetuto, ma di una “sentenza di morte senza processo, senza interrogatorio, senza avvocati, senza una corte e senza una difesa”.

Naturalmente è il processo di secolarizzazione delle società quello che preoccupa i fondamentalisti e molti ambienti religiosi, che vi si oppongono anche attraverso l’argomentazione che esso “è iniziato in Europa in reazione alla Chiesa e poiché nell’islam non esiste una simile istituzione, allora non c’è bisogno di secolarizzare le società e i paesi musulmani, né di separare Stato e Moschea”. Ma interpretare la storia alla luce delle vicende religiose è una forzatura che maschera ciò che è davvero avvenuto. Per l’autore la secolarizzazione sarebbe avvenuta anche se Gesù o Maometto avessero detto “l’esatto opposto di ciò che hanno detto sulla separazione tra cose di questo e dell’altro mondo”. E aggiunge anche che è del tutto falsa l’idea che l’islam non abbia mai distinto storicamente tra Stato e religione. A controprova di ciò riporta sinteticamente le vicende del califfato persecutore delle varie scuole di legge islamica. Ma un dubbio serio mi rimane, non solo per le considerazioni già fatte, ma proprio per la pretesa dei fondamentalisti, in compagnia di molti mullah e pensatori religiosi della corrente dominante – come la definisce lo stesso autore – che non c’è alcun bisogno “di separare Stato e Moschea”.

Comunque, il pregio del libro di Al-Azm è di cercare di svincolarsi da una lettura tutta religiosa del contrasto tra Occidente e mondo islamico spostando l’attenzione su “questioni di storia reale, di politica del potere, nonché di interessi materiali contrastanti”. Tuttavia, dopo avere analizzato di nuovo il concetto di jihad e le sue varie interpretazioni, l’autore conviene che il mondo musulmano debba rispondere alla domanda se l’islam e la democrazia siano compatibili e se esso sia compatibile con il laicismo. Rispondendo a un’affermazione del sociologo e orientalista Ernst Geller, il quale ha sostenuto che “l’islam non è per natura secolarizzabile”, l’autore osserva che se la questione viene affrontata dal punto di vista religioso, allora l’islam “in quanto ideale statico e coerente di principi eterni e permanentemente validi, non è compatibile con niente, se non con se stesso”. Invece dal punto di vista storico, della pratica sociale e politica concreta l’islam ha dimostrato di essere abbastanza plasmabile, adattabile e capace di evoluzione. Anzi proprio l’esistenza del fondamentalismo, in quanto resistenza a un lento ma progressivo processo di laicizzazione delle società arabe sarebbe la dimostrazione di questa possibilità.

Il libro contiene anche altri argomenti, come la posizione dell’autore sulla questione israelo-palestinese, mentre dedica la parte finale all’analisi della politica estera siriana, ma quello che qui interessa di più è la risposta che l’autore dà alla domanda: “la secolarizzazione dell’Islam è possibile?”. La risposta, come dicevo all’inizio è duplice. “Dal punto di vista dogmatico è no. Dal punto di vista storico ”.


120) M. Campanini e K. Mezran, Arcipelago Islam. Tradizione, riforma e militanza in età contemporanea, Bari-Roma, Laterza, 2007.
121) Esiste una vasta letteratura storiografica che si è interrogata sul perché, a un certo punto della storia, l’Occidente ha sorpassato il fin lì più avanzato Oriente. Le interpretazioni sono molte ma non tutte discordanti. Una buona introduzione al problema, anche se non tratta specificamente della questione, è tuttora il libro di Alexander Murray, Ragione e società nel Medioevo, Roma, Editori Riuniti, 1986.
122) R. Fisk, op.cit.
123) Vedi la voce su Wikipedia.
124) A. Cappelletti, Sayyid Qutb: un viaggio alle radici dell’islamismo radicale, in "Africaemediterraneo".
125) Vedi il breve scritto di H. Hanafi, Fede e ragione: identità o contrapposizione?, in "Zenit" del 25.10.2007 a proposito dell’incontro interreligioso tenutosi a Napoli.
126) S.J. Al-Azm, L’Illuminismo islamico. Il disagio della civiltà, Roma, Di Renzo, 2000.
127) Vedi una sua breve nota Islamismo in ResetDOC. Dialogues on Civilizations.


Web Homolaicus

Autore di questo testo PierLuigi Albini

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 06/09/2013