TEORIA
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Il secondo cervello
“L’uomo è ciò che mangia”. Un assunto filosofico certamente non sgradito all’universo nutrizionista. Al centro dell’interesse (e degli interessi) i cibi, protagonisti esclusivi della nutrizione; come se l’attività svolta dall’organismo per digerirli fosse null’altro che un’operazione ripetitiva e automatica, cieca e priva di discernimento. La presunzione che i processi digestivi siano identici per ogni individuo rende così possibile e vantaggioso stabilire regole valide per tutti, canoni che diventano tassativi e universali al di là degli stessi riscontri oggettivi. Ma un’attività complessa di carattere conoscitivo, cioè cerebrale, non è mai passiva e ripetitiva; essa è semmai adattiva, personale, non riconducibile a schemi precostituiti e a prescrizioni buone per tutti. E’ abbastanza recente la scoperta che possediamo un secondo cervello localizzato intorno all’apparato digerente. Un’acquisizione che, come capita spesso alle scoperte più significative, impiegherà del tempo prima di entrare nella consapevolezza collettiva e cominciare a dare i suoi frutti. Che sussista un rapporto profondo fra funzioni intestinali e stato emotivo è noto a tutti da sempre per esperienza diretta; ma esso viene per lo più attribuito a un innervamento molto esteso dell’apparato digerente, senza per questo doverne presupporre una autonomia funzionale rispetto al sistema centrale. Invece si scopre che è proprio così, che la rete neuronale in questione, che circonda come una calza tutto il tubo digerente, rappresenta un sistema autonomo, fortemente interconnesso, con caratteristiche analoghe a quelle della corteccia cerebrale propriamente detta, cioè un vero e proprio secondo cervello, in comunicazione con l’altro per il tramite del sistema vagale. Constatare la presenza di un tale sistema, con funzionalità dedicata specificamente alla digestione dei cibi, mette in tutta evidenza l’enorme complessità e importanza di tale funzione, in genere del tutto sottostimata e banalizzata. La tendenza alla semplificazione meccanicistica delle funzioni biologiche, non di rado favorita dalla stessa specializzazione medica, trova qui una delle sue massime espressioni. Ne è prova il dilagare di teorie e pratiche nutrizioniste delle più svariate culture e scuole, comunque indirizzate a trasferire all’esterno, cioè alla scelta e al trattamento dei cibi “che fanno bene”, la maggior parte delle problematiche inerenti la salute, come se la funzione intestinale da parte sua fosse solo destinata a svolgere ruoli del tutto passivi e automatici; per così dire incolpevoli. Dobbiamo invece immaginare, di fronte all’Intruso per eccellenza, il cibo, l’attivazione di strategie articolate e complesse, attimo per attimo e punto per punto, allo scopo di fronteggiare l’impatto brutale e contemporaneo di migliaia di sostanze, nelle più svariate condizioni e combinazioni, molte delle quali destinate ad avere un ruolo decisivo nel metabolismo organico, cioè sulla nostra vita. Strategie e modalità in effetti difficilmente apprezzabili e interpretabili, rimanendo invece molto più facile concentrare l’attenzione sulla fonte dell’alimentazione stessa, cioè sui cibi. Ora, un nutrizionismo di modesto profilo, ispirato al buon senso e alla misura, appare senz’altro accettabile e provvido. Nulla a che vedere con le scuole di pensiero che fanatizzano i propri adepti in ambiti culturali esclusivi e chiusi, che finiscono quasi per configurare una sorta di religione del cibo; per tacere poi dei sottostanti formidabili business. Quanto sopra vale sia per le medicine alternative che per la cultura ufficiale. Quando un nutrizionista viene a spiegarmi che il caffè rende il latte indigeribile, trovandomi fra l’altro personalmente d’accordo, dobbiamo forse affermare che “sbagliano” quelli che invece, guarda caso, lo digeriscono magnificamente? Del resto non è sotto gli occhi di tutti che la risposta all’alimentazione è assolutamente personale? La scoperta di un secondo cervello sembra ora rappresentare un potente aiuto a fare chiarezza. La sua presenza non può non qualificare la digestione come una funzione anzitutto “conoscitiva”, cioè cerebrale, nel senso più ampio del termine. Un vero e proprio lavoro di scoperta del mondo esterno, attraverso l’introitazione e assimilazione di parti del medesimo, con la finalità di raggiungere una sintonia profonda fra i due ambiti; ben più coinvolgente della conoscenza realizzata per il tramite degli altri sensi, che lasciano invece il mondo fisico là dov’è. Un processo conoscitivo intimo e profondo. Il verbo capire, nella sua accezione etimologica, è qui pienamente realizzato. Appare pertanto arbitrariamente e grossolanamente riduttivo un approccio esclusivamente dedicato ai cibi, come quello nutrizionista; fondato su pre-concetti di natura fisico chimica o di altra natura; sembrando anzi che ciò possa interferire negativamente sulla autonomia di elaborazione del secondo cervello. Un’autonomia che, come noto, può consentire in alcuni casi perfino l’assunzione graduale senza danno di veleni mortali. Mitridate, re del Ponto, aveva reso il suo organismo insensibile a una cinquantina di veleni mortali, tanto che quando decise di morire dovette farsi pugnalare. E gli uccelli a loro volta non si nutrono di bacche per noi assolutamente velenose? Altro che cibi sconsigliati! Probabilmente una moderata assunzione di rischi è utile alla calibratura dei processi. Viceversa è facile constatare come una alimentazione troppo selezionata e protetta possa esporre a pesanti conseguenze nel caso di deroghe accidentali. Il problema poi si allarga se viene presa in considerazione la fase preparatoria dei cibi stessi, cioè la loro programmazione, scelta, organizzazione, manipolazione e produzione finale. Tali passaggi rappresentano una componente essenziale dell’intero processo, proprio sotto il profilo conoscitivo, e dovrebbero quindi a rigore essere compiuti da ciascuno personalmente. Chi mangia un piatto preparato da altri, fosse anche dal miglior ristoratore, assume insieme al cibo una quantità di conoscenze che non gli appartengono, introdotte da altri a sua insaputa. Solo se chi prepara il cibo è una persona amata, cioè una persona attraverso la quale siamo ben lieti di vedere il mondo, la cosa appare legittima. In altre parole un processo conoscitivo si qualifica in generale per l’ampiezza e ricchezza di acquisizioni che consente di padroneggiare; perché tanto più elevato ne risulterà il livello di sintonizzazione nei confronti dell’ambiente esterno. L’alimentazione, come ogni altra forma di conoscenza, ha in definitiva i suoi rischi inevitabili. I vecchi un po’ paradossalmente dicevano che quando si mangia si combatte con la morte. E’ forse il prezzo della vita. |