PER UNA FILOSOFIA DELLA STORIA

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PER UNA FILOSOFIA DELLA STORIA

I - II

Uno dei grandi problemi che la scienza storica deve ancora spiegare, in maniera esauriente, è il motivo per cui i rapporti borghesi e il modo di produzione capitalistico si sono sviluppati non nella ricca e avanzata civiltà bizantina (rimasta tale almeno sino alle crociate e all’invasione turca), ma nell’Europa occidentale, che dalla caduta dell’impero romano fino al mille conobbe una notevole arretratezza economica e tecnologica. Questione che, sul piano più generale, non contestuale, si potrebbe anche porre nei termini seguenti: come mai, a parità di condizioni economiche, in una società si forma la produzione borghese-capitalistica e in un’altra no? Cos’è che impedisce agli uomini di compiere questa transizione sociale? Cos’è che invece la promuove?

Una risposta - ancora tutta da verificare - potrebbe essere questa: in Occidente esistevano, a livello sovrastrutturale, condizioni più favorevoli all’affermarsi della società e della mentalità borghese. Il che sta a significare che la questione andrebbe affrontata in maniera da considerare le determinazioni ideologiche della coscienza sociale come relativamente prioritarie rispetto a quelle strutturali dell’economia. D’altra parte è noto che l’economia non può determinare, tout-court, la coscienza sociale, altrimenti non vi sarebbe alcun progresso storico, né si potrebbe mai realizzare il socialismo. Il marxismo parla di “influenza reciproca”, di “condizionamento interdipendente” e considera determinante la struttura solo “in ultima istanza”. Qui dobbiamo considerare il fatto che quando la coscienza sociale delle contraddizioni di un sistema è ben radicata nel contesto della società, essa tende a trasformarsi in una forza strutturale non meno tenace della forza dell’economia.

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La rivoluzione borghese - questa potrebbe essere la tesi - è avvenuta nell’Occidente europeo perché qui la chiesa cattolica aveva spezzato i vincoli che la legavano alla chiesa ortodossa, dando il via alla concezione laicista e individualista dell’esistenza (in forma embrionale e inconscia). Detto altrimenti: la religione cattolico-romana, pur essendo fondamentalmente una confessione “medievale”, ha (quasi) sempre avuto in sé (prima ancora della svolta costantiniana) degli elementi (tuttora da ricercare) che potevano essere svolti in direzione della mentalità borghese. In questo senso bisognerebbe ripercorrere almeno l’itinerario che va da Agostino d’Ippona a Tommaso d’Aquino.

Tale religione, in sostanza, avrebbe contribuito - naturalmente senza volerlo - alla formazione dello spirito borghese, che poi è quello che permette a una determinata economia di assumere una direzione ben specifica. In seguito, cioè a conclusione dell’epoca medievale, il protestantesimo si assunse il compito di laicizzare ulteriormente il cattolicesimo, preparando il terreno culturale per lo sviluppo coerente e conseguente della prassi borghese.

Fino ad oggi la storiografia, sul piano sovrastrutturale, ha studiato, fra l’altro, gli elementi borghesi del protestantesimo, sia secondo la teoria marxista del “riflesso”, per cui il protestantesimo non ha fatto altro che legittimare i rapporti economici capitalistici; sia secondo la teoria sociologica di Weber, per il quale il capitalismo è piuttosto un prodotto del protestantesimo (o per lo meno quest’ultimo sarebbe stato la forza propulsiva che avrebbe contribuito in maniera decisiva, sul piano ideologico, alla formazione del capitalismo). Ancora però la storiografia non ha studiato in che modo il cattolicesimo (dei primi 1500 anni della nostra èra) poteva condurre (indirettamente) alla mentalità borghese e quindi al protestantesimo. Il quale, se vogliamo, non è stato soltanto una reazione al cattolicesimo, ma anche uno svolgimento necessario della stessa mentalità borghese, che da tempo lo precedeva (come minimo dal Mille).

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Si potrebbe, in un certo senso, collegare, sul piano socio-economico, l’ortodossia (che è la prima manifestazione della religione cristiana) allo schiavismo e al colonato, che segue immediatamente la dissoluzione della schiavitù dell’epoca imperiale, durante la quale tra cattolicesimo e ortodossia non vi erano ancora sostanziali differenze. La religione cattolica andrebbe invece collegata alla servitù della gleba del periodo feudale, mentre il protestantesimo all’operaio salariato della manifattura. Tutte le religioni euroccidentali sono cominciate ad entrare in una crisi irreversibile a partire dalla rivoluzione industriale vera e propria, iniziata in Inghilterra verso la metà del XVIII secolo.

L’ortodossia rappresenta non solo la prima manifestazione della religione cristiana, ma anche il primo tradimento degli ideali originari del Cristo (i fondatori del cristianesimo ortodosso vanno ricercati negli autori dei documenti neotestamentari: in particolare Pietro, per mano di Marco, e Paolo; quanto a Giovanni il discorso è a parte. Si vedano gli studi sul Nuovo Testamento).

In che cosa è consistito il tradimento della chiesa ortodossa? Nel predicare l’ideologia dell’amore universale rinunciando a lottare per la giustizia sociale, terrena, degli uomini. L’amore - secondo questa religione - doveva servire per sopportare stoicamente le ingiustizie. Durante tutto il corso dell’impero romano, l’ortodossia, per poter giustificare lo schiavismo, fece dell’amore un concetto di altissimo significato spirituale, riuscendo a coinvolgere decine di migliaia di persone. Non dimentichiamo che le più grandi persecuzioni i cristiani le hanno subìte in questo periodo. Essi erano convinti di rappresentare un’alternativa alla mentalità dominante, anche se sostenevano che i migliori frutti del loro amore li avrebbero colti nel “regno dei cieli”. Da questo suo principio basilare, l’ortodossia non si è mai distaccata, almeno sul piano teorico, anche a costo di apparire come una religione conservatrice, legata unicamente al proprio passato.

Il cattolicesimo-romano emerge dalla constatazione che il principio ortodosso dell’amore universale non è in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti schiavistici o di colonato. Questa chiesa rinuncia al principio dell’amore universale - che giudica astratto - per affermare una nuova modalità esistenziale, quella del potere politico, che è sempre, a ben guardare, una forma di “idealismo”, anche se viene espressa, generalmente, in una maniera più rozza e incivile (si pensi alle crociate, all’inquisizione, alla lotta feroce contro le eresie, alle guerre di religione, ecc.).

In effetti, la chiesa cattolica appare, con la svolta teodosiana, molto più disposta al compromesso sui princìpi di quanto non lo sia la chiesa ortodossa o greco-bizantina. Tale predisposizione essa l’aveva ereditata dalla cultura latina dell’impero romano, che era prevalentemente giuridica, sul piano formale, e basata sul concetto di “forza” sul piano sostanziale. La cultura greca invece era di tipo filosofico, cioè metafisico, idealistico, estetico, artistico...

Le prime importanti differenze tra le due chiese hanno cominciato a emergere quando l’imperatore Costantino trasferì la capitale dell’impero a Bisanzio (intorno a questo fatto la chiesa latina deciderà poi di elaborare, nell'VIII secolo, il famoso falso della Donazione di Costantino, a titolo per così dire di “risarcimento”: falso in cui si credette sino all’Umanesimo), e soprattutto quando l'imperatore Teodosio decise di fare del cristianesimo l’unica legittima religione di stato. Questa decisione, nella parte occidentale dell’impero, priva com’era della presenza “fisica” dell’imperatore, ebbe un’importanza decisiva ai fini dell’organizzazione del potere politico da parte della chiesa romana, che si servì immediatamente di varie tribù barbariche per concretizzare la propria aspirazione al dominio universale.

E’ stato proprio l’uso del potere politico, finalizzato a un obiettivo egemonico, che ha indotto la chiesa latina ad allontanarsi progressivamente da quella greca (la rottura definitiva, mai più sanata sul piano teologico, è avvenuta nel 1054). Viceversa, la chiesa bizantina non è quasi mai stata caratterizzata dalla volontà di usare un potere politico contro l’autorità imperiale: spesso, anzi, nella storia dell’impero bizantino, la si è vista contestare le pretese imperiali di dominio o d’ingerenza negli affari ecclesiastici, non tanto per rivendicare un proprio potere politico (concorrenziale a quello dell’impero), quanto per affermare determinate posizioni di principio (come ad es. nella questione iconoclastica o durante le dispute teologiche sulla natura del Cristo).

Naturalmente, con questo non si vuol dire che la rivendicazione del potere politico, da parte della chiesa latina, sia stata di per sé un fattore negativo (poiché la politica può anche essere usata per un fine di liberazione, come ha dimostrato certa teologia sudamericana del secolo scorso); ma, senza dubbio, tale rivendicazione è diventata un fattore negativo nel momento stesso in cui si voleva imporre una determinata ideologia ed affermare un potere egemonico di classe o di casta.

Ponendo in essere l’esigenza della politica, il cattolicesimo, se vogliamo, ebbe anche la possibilità di riavvicinarsi maggiormente al modello originario del Cristo, che sicuramente utilizzava la politica come mezzo di trasformazione sociale; solo che l’intellighenzia cattolica medievale si è servita della politica per giustificare non l’esigenza di rapporti sociali umani, ma per confermare la realtà di quelli servili (cui la chiesa era particolarmente interessata essendo essa stessa forza produttiva ed economica), al punto che ha fatto del servaggio feudale (questo nell’Aquinate è assai evidente) la “ragion d’essere” dell’esistenza del contadino-credente, e non soltanto - come per lo schiavismo - una condizione “infelice” da sopportare stoicamente in attesa della “retribuzione ultraterrena”.

Quale istituzione eminentemente politica, la chiesa romana ha valorizzato maggiormente i princìpi dell’obbedienza, dell’autorità, della gerarchia... rispetto a quelli ortodossi della comunione e della collegialità: alla “forza dell’esempio” ha preferito l’”esempio della forza”. I princìpi cattolici, che minarono l’idea della fratellanza e dell’uguaglianza, elaborata dal cristianesimo primitivo, hanno aperto la strada all’individualismo, che è il terreno propizio all’affermazione della mentalità borghese.

In questo senso, la differenza che si pone tra l’individualismo cattolico e quello protestante sta unicamente nel fatto che il primo riguarda solo gli individui di potere (ovvero la gerarchia, che per garantirlo, si serve di un forte apparato burocratico-amministrativo e di controllo), mentre il secondo riguarda tutti i credenti, i quali possono così sperimentare - nell’ambito appunto dell’individualismo - una maggiore uguaglianza (non a caso il protestantesimo ha affermato i princìpi del “sacerdozio universale” e del “libero esame”, mentre i cattolici hanno preferito quelli dell’infallibilità pontificia o dell’immacolata concezione).

E’ dunque nei limiti del cattolicesimo medievale che va ricercata la causa sovrastrutturale che ha generato (indirettamente) lo sviluppo della mentalità borghese dell’epoca moderna. Nonostante che in Europa orientale (area bizantina) la politica imperiale fosse più autonoma dall’influenza della religione ortodossa (si pensi ai concetti di “diarchia” o di “sinfonia”, che la storiografia occidentale ha sempre voluto qualificare col termine di “cesaropapismo”), la rivoluzione borghese è invece avvenuta in Occidente.

Questo significa che il cittadino ortodosso si sentiva, in coscienza, più legato alla propria religione di quanto non lo fosse il cittadino cattolico nei confronti della propria. Come spiegare altrimenti il fatto che l’Europa orientale, pur avendo anch’essa avuto un sistema feudale, non è mai stata caratterizzata (almeno sino alla fine del secolo scorso) dalle profonde contraddizioni che tale sistema ha comportato in Europa occidentale? Come spiegare il fatto che nell’Europa orientale si sono conservate molte più esperienze agricolo-comunitarie che nell’area occidentale, al punto che agli inizi del secolo vi erano ancora correnti politiche convinte di poterle riformare per opporsi efficacemente alla penetrazione di elementi capitalistici?

La mentalità borghese è appunto nata perché una religione imposta con la forza ha meno presa di una che per affermarsi si serve (anche) di esempi di santità personale, di coerenza etico-religiosa, di valori fondamentali... E’ forse un caso che gli ortodossi abbiano sempre preferito sopportare l’occupazione turca piuttosto che l’invasione latina? O che non abbiano mai sperimentato, all’interno della loro confessione, le terribili guerre di religione che sconvolsero l’Occidente per interi secoli? Certo, qui non si vuole idealizzare la confessione ortodossa, si vuol soltanto mettere in evidenza che il “tradimento” ortodosso dei princìpi del Cristo ha determinato conseguenze meno drammatiche di quello del cattolicesimo. Per gli ortodossi - già lo si è detto - gli ideali del Cristo non potevano realizzarsi in sede politica, ma solo nel rapporto comunitario, cioè nell’ambito della chiesa locale, a livello rituale, sacramentale, interpersonale... Il cattolicesimo seppe sì riscoprire l’importanza dello strumento della politica, ma finì col servirsene per scopi tutt’altro che umanitari.

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Il protestantesimo emerge dalla constatazione che il principio cattolico dell’obbedienza non era più in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti feudali. Tale contraddizione - come noto- diventava tanto più acuta e insostenibile quanto più crescevano le forze della borghesia.

Rifiutando la logica autoritaria, centralistica della chiesa cattolica, unitamente alla profonda corruzione del suo idealismo politico, il protestantesimo ha affermato il principio della libertà interiore del singolo individuo, cioè il primato della coscienza individuale, permettendo così al cristianesimo di recuperare una parte del modello originario del Cristo (modello che la Riforma non poteva certo dedurre dall’esperienza ortodossa, essendo qui connesso al rispetto scrupoloso di una tradizione ecclesiale che non aveva più alcuna influenza in Europa occidentale da almeno mezzo millennio).

Tuttavia, il protestantesimo, non riuscendo a modificare i rapporti sociali esistenti, basati sullo sfruttamento, non ha fatto altro che accelerare la trasformazione del servaggio in dipendenza salariata (quella per cui l’uomo è giuridicamente libero e socialmente schiavo), lasciandosi coinvolgere, anima e corpo, nel gretto mondo dell’economia borghese.

Sotto tale aspetto, i protestanti hanno operato un tradimento peggiore di quello dei cattolici, perché più sofisticato e più pericoloso. Da un lato infatti essi hanno permesso che lo Stato usasse del proprio potere nella maniera più arbitraria possibile; dall’altro hanno fatto dell’esperienza sociale della religione una pura e semplice “intellettualizzazione della fede”.

In verità, anche la Scolastica medievale non era meno astratta e speculativa: ad essa anzi bisogna far risalire la trasformazione dell'esperienza della fede in una sorta di metafisica religiosa tra le cui pieghe potrà insinuarsi il dubbio borghese di Cartesio.

Tuttavia la teologia protestante, pur essendo più “libera” di quella cattolica (perché non vincolata a concetti come tradizione latina, autorità, gerarchia ecc.), non ha approfittato di questa libertà per recuperare una verità originaria (nei limiti della religione in generale, ovviamente), ma, al contrario, è arrivata a giustificare ogni abuso. Infatti il protestantesimo, pur non avendo mai avuto un interesse specifico di potere ecclesiastico da difendere, si è servito, per salvaguardarsi come confessione, del potere degli Stati come nessun’altra confessione aveva fatto prima.

Nondimeno resta interessante, di questa corrente cristiana, la tendenza all’agnosticismo se non addirittura all’ateismo, frutto appunto di uno studio razionalistico delle Scritture. Questo aspetto l'avvicina all'umanesimo laico del socialismo, l'allontana di molto dal cattolicesimo, per il quale qualunque "libero esame" deve sottostare al placet di istanze superiori, e di moltissimo dall’ortodossia, per la quale unica vera preoccupazione è quella di salvaguardare la tradizione patristica e gli aspetti rituali-sacramentali, mentre il suo livello di riflessione speculativa - dopo le grandi dispute sulla natura del Cristo e sulle eresie del mondo cattolico - è rimasto poco consistente.

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Nel mondo medievale era chiaro che il servo della gleba non poteva essere libero, anche se aveva più diritti dello schiavo. Nel mondo moderno invece l’uomo è formalmente libero ed è in questa libertà fittizia ch’egli accetta “spontaneamente” - come vuole la borghesia - di diventare operaio salariato. E’ stato il marxismo a togliere il velo all’ipocrisia della società capitalistica, e quindi all’ipocrisia della religione protestante, della filosofia idealistica, dell’economia politica classica e dell’ideologia politica borghese: il marxismo ha dimostrato che una libertà affermata davanti alla legge o allo Stato, nel pensiero o nella coscienza, senza una corrispettiva libertà dal bisogno, è una libertà falsa.

Non bisognerebbe mai dimenticare che i princìpi fondamentali del marxismo sono due: la socializzazione dei mezzi produttivi e il materialismo storico-dialettico (che include l’ateismo-scientifico). E’ sulla base di questi due princìpi ch’esso è stato in grado di ereditare le migliori conquiste della filosofia tedesca, della politologia francese e dell’economia inglese. A loro volta, queste tre correnti di pensiero rappresentano l’eredità e lo sviluppo, in veste laicizzata, di quanto di meglio potevano esprimere le due religioni principali dell’Europa occidentale: cattolicesimo e protestantesimo (quest’ultimo nella forma luterana in Germania e nella forma calvinista in Inghilterra). Il leninismo, dal canto suo, rappresenta una nuova sintesi, poiché è riuscito a ereditare non solo tutto il marxismo (e quindi tutta la cultura occidentale), ma anche tutta l’ortodossia (attraverso il populismo), rappresentando ancora oggi, nell’epoca contemporanea (che è imperialistica), la via migliore per la realizzazione dei due suddetti princìpi fondamentali del marxismo.

Vista da questa angolazione, la perestrojka gorbacioviana non avrebbe dovuto essere considerata come un superamento del leninismo, ma come una sua progressiva democratizzazione sul piano sociale e umano. Il leninismo infatti, quale ideologia politica, potrà essere superato solo dalla sua stessa democratica realizzazione: cosa che nell'ex "socialismo reale" lo stalinismo prima e la stagnazione dopo avevano reso del tutto impossibile.

Il leninismo è stato il tentativo di affrontare il problema di una democrazia socialista a partire da una prospettiva prevalentemente politica; la perestrojka andava vista come un tentativo di aggiungere a tale prospettiva anche quella eminentemente sociale e umanistica (quella cioè in cui il popolo si sente protagonista attivo del proprio destino). Essa avrebbe potuto comportare un modo diverso non solo di concepire le relazioni sociali e umane, ma anche la stessa attività politica, la quale, se veramente vorrà essere democratica, non potrà più essere delegata dalle masse alle istituzioni statali e partitiche, come fino ad oggi è accaduto e non solo nei paesi cosiddetti "socialisti".

Lo sviluppo del socialismo, sul piano culturale o ideologico, è una conseguenza indiretta della precedente cultura (non diretta, poiché nella storia non solo non c’è nulla di assolutamente arbitrario ma neppure nulla di assolutamente automatico). Ora, siccome la cultura pre-socialista era prevalentemente caratterizzata dalla religione, ciò significa che sul piano culturale il socialismo ha un debito nei confronti della religione.

Infatti, grazie anche alla religione, cioè nonostante il suo “tradimento” dell’ideale originario, noi possiamo risalire (almeno sul piano dell’interpretazione storica) a questa positività primitiva, mettendola a confronto con gli ideali più significativi del moderno socialismo. In altre parole: se per vivere una società a misura d’uomo oggi possiamo farlo senza alcun riferimento alla religione (in quanto il socialismo è un’esperienza di umanesimo integrale), per vivere questa stessa società con una coscienza storica, cioè con una coscienza dell’intera evoluzione del genere umano, una coscienza che ci aiuti a non dimenticare nulla del passato ma anzi a valorizzare quanto di meglio esso abbia prodotto, la religione può ridiventare utile, in quanto riflesso opaco di una positività tradita.

Se noi ad es. riuscissimo a dimostrare che la moderna emancipazione dalla religione e soprattutto dallo sfruttamento del capitale è, in fondo, un ritorno, in nuce, alle idee originali del Cristo - che predicò comunione dei beni e primato dell’uomo - noi non avremmo fatto un “servizio” alle chiese di questo mondo, ma al socialismo, poiché la storia ha dimostrato che lo sviluppo della religione costituisce sempre un tradimento degli ideali originari, benché nonostante questo tradimento (o in virtù di esso) possano verificarsi dei progressi, condotti in ambito religioso, per “purificare” l’idea di religiosità, e dei progressi, condotti in ambito laico, utili al superamento della stessa religione e utili persino alla recupero dell’ideale tradito.

Naturalmente con questo non si ha alcuna intenzione di sostenere che gli ideali umanistici del socialismo possono di per sé garantire dagli eventuali abusi che si compiono sul piano pratico. Il fallimento del “socialismo reale” rappresenta anche la fine di questa illusione.

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L’ultimo aspetto che andrebbe chiarito è il motivo per cui la rivoluzione industriale è avvenuta nei paesi anglosassoni e non in quelli latini. Il motivo può essere questo: la chiesa romana, pur essendo disposta al compromesso sui princìpi, non è disposta a perdere il potere politico. I compromessi li fa solo a condizione di conservare più o meno integralmente i propri privilegi. Ecco perché la rivoluzione industriale è potuta avvenire dove il potere politico della chiesa romana era più debole. L’”anello debole” della chiesa romana era l’Inghilterra.

Ma perché questa rivoluzione non è avvenuta in Germania, che pur era stata la prima a staccarsi dalla chiesa cattolica? Perché la Germania, allora, non era ancora una nazione e poi perché la sua mentalità tradizionale era di tipo filosofico-idealistico, simile a quella greca. Perché accadesse una rivoluzione borghese in Germania, occorreva prima di tutto una larga diffusione delle idee anticattoliche, cioè protestanti, così i tedeschi avrebbero avuto la necessaria giustificazione teorica per modificare radicalmente il loro sistema di vita. Quand’essi sono giunti alla convinzione ch’era il momento di fare la rivoluzione borghese, il mondo era già stato diviso dalle potenze coloniali di Francia e Inghilterra. Ecco perché la Germania ha avuto bisogno di sviluppare il nazismo.

L’Italia ha fatto la stessa cosa, ma dal punto di vista cattolico, non protestante. L’Italia ha dovuto cercare nell’ambito del cattolicesimo la giustificazione che le permettesse di accettare la rivoluzione borghese e industriale. Probabilmente, se la chiesa cattolica avesse contribuito alla realizzazione dell’unificazione nazionale, l’Italia avrebbe partecipato prima alla spartizione delle colonie e forse non avrebbe sperimentato la dittatura fascista.

La rivoluzione borghese e industriale poteva dunque nascere e svilupparsi solo in Inghilterra, cioè in una nazione lontana dal potere politico della chiesa cattolica, non molto influenzata dalla civiltà latina e tradizionalmente poco speculativa. Questo dimostra che non basta una Riforma protestante per creare una rivoluzione industriale (Weber qui ha torto). Come non è bastata la rivoluzione borghese, nata in Italia nell’XI secolo, a provocare la rivoluzione industriale. Perché avvenisse questa transizione occorreva che la borghesia italiana operasse una lotta ideale contro il cattolicesimo, unificando la penisola. Il che non è mai avvenuto in maniera decisa e risoluta. Ecco perché dopo il Rinascimento l’Italia è tornata al feudalesimo.

Naturalmente l’Inghilterra, essendo lontana dall’influenza della chiesa cattolica (si pensi che Duns Scoto ha elaborato delle teorie che al suo tempo non trovavano riscontri in alcuna parte dell’Europa, ad eccezione del mondo bizantino), ha potuto realizzare l’unificazione nazionale molto più facilmente (e quindi molto tempo prima) sia dell’Italia che della Germania, divise in tanti principati e signorie. Questo spiega anche il motivo per cui Spagna e Portogallo, che pur sono state le prime nazioni cattoliche colonialistiche, sono state anche le ultime a diventare nazioni borghesi-industrializzate. In entrambe la mentalità cattolica ha avuto un peso determinante. Esse non hanno mai avuto le capacità speculative della Germania per opporsi alla tradizione cattolica (anzi, soprattutto la Spagna, ha sviluppato ancora di più i concetti di “obbedienza” e di “gerarchia”, come appare soprattutto nel movimento dei gesuiti e nell’uso massiccio dell’inquisizione). Se al loro cinismo materialistico (si pensi alla reintroduzione dello schiavismo) Spagna e Portogallo avessero unito forti capacità speculative, in luogo di quelle burocratico-militari, la rivoluzione industriale sarebbe sicuramente nata qui, cosa che invece ha cominciato a imporsi solo nel XX secolo, come un processo calato dall’alto.

Se la rivoluzione capitalistica avviene in presenza non del protestantesimo ma del cattolicesimo, significa che del cattolicesimo è rimasto soltanto l’involucro esterno. Non a caso la nazione che oggi meglio incarna il capitalismo, e cioè gli USA, è anche quella più lontana dalle posizioni cattoliche.

Bibliografia

IDEE PER UN MANUALE DI STORIA DELLA FILOSOFIA (O DI SCIENZE UMANE)
CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DELLA FILOSOFIA


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018