Filosofia islamica razionalistica

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LA Filosofia islamica RAZIONALISTICA

L'epoca d'oro della cultura islamica fu dall'VIII al XII sec. Questa cultura era urbanizzata, mercantile e cosmopolitica, espressa in molte importanti città: Baghdad, Damasco, Il Cairo, Cordova, Aleppo, Fez, Basra, Samarra ecc. E riguardava varie forme del sapere: soprattutto geografia, filosofia, medicina, matematica, storia e diritto (quest'ultimo fu sviluppato basandosi non solo sul Corano e la Sunna, ma anche sulla concordanza della comunità dei dotti e sul ragionamento di tipo analogico).

In particolare i matematici arabi e persiani si dedicarono all'algebra, alla trigonometria e all'astronomia. In medicina enormi furono i progressi, partendo dalle traduzioni in arabo di molti testi scientifici del mondo greco. Vennero fornite nozioni fondamentali sul piano igienico-sanitario e ambientale, allestiti i primi ospedali, dove p. es. praticarono la ginecologia. Nulla di tutto questo esisteva nel corrispettivo mondo feudale dei cristiani.

Tuttavia, mentre la teologia e la filosofia cristiane si consideravano compatibili con la filosofia greca, seppur questa andasse riveduta e corretta, la filosofia islamica si trovò quasi sempre osteggiata dalla teologia islamica, al punto che se si accetta di definirla con l'aggettivo "islamica", è solo per un motivo di tipo geografico, non perché essa venne accettata dalle masse di fedeli o perché avesse riflesso gli elementi caratteristici della dottrina musulmana, né perché essa riuscì a modificare l'essenza di questa dottrina.

Il declino di questa civiltà avvenne in concomitanza all'espansione turca, il cui slancio travolgente assomigliava a quello stesso degli arabi nell'VIII secolo. Tuttavia sarà proprio grazie ai turchi conquistatori che l'islam troverà la sua massima espansione: un islam però molto severo, dogmatico e militarizzato.

Dopo la fine dell'impero turco, agli inizi del Novecento, l'islam non riuscì più a trovare lo splendore culturale e scientifico del suo periodo d'oro; anzi, la cultura si trasformò in ideologia, in quanto la fede religiosa veniva più che altro utilizzata per fini politici, come strumento di lotta contro le potenze occidentali o per conservare tenacemente delle tradizioni divenute obsolete.

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Molto probabilmente gli unici filosofi greci di cui gli intellettuali islamici medievali ebbero conoscenza diretta furono Platone e Aristotele, ivi inclusi i loro commentatori (Alessandro di Afrodisia, Ammonio, Simplicio, Temistio e Porfirio), anch'essi tradotti in arabo (anzi, prima ancora in siriaco, lingua di cultura in Iraq: la prima grande opera di traduzione viene fatta a Bagdad nel IX sec.). Indirettamente invece, attraverso gli scritti di Plutarco, Porfirio e Galeno, poterono apprendere anche le idee dei filosofi stoici, epicurei e scettici.

Di Platone furono tradotti in arabo solo sette opere su 36: Apologia di Socrate, Fedone, Repubblica, Sofista, Politico, Timeo e le Leggi. Tutte opere che non contenevano idee in aperta contrapposizione ai principi religiosi islamici. Di esse si stimavano soprattutto la personalità di Socrate e naturalmente le idee relative alla divinità intesa come provvidenza e intelligenza, ma anche le idee sull'immortalità dell'anima e sulla reminiscenza.

Viceversa di Aristotele si apprezzarono soprattutto le cinque opere logiche che la Scuola peripatetica raccolse sotto il titolo di Organon. Oltre a queste vennero tradotte la Fisica e parte della Metafisica. Va detto però che la nascente filosofia arabo-islamica dei secoli X-XII interpretò la logica aristotelica attraverso la mediazione neoplatonica di Porfirio, il quale aveva cercato di fondere le idee dei due grandi filosofi greci. L'opera di Plotino invece non fu mai tradotta.

Questo fenomeno di acculturazione dei musulmani fu voluto dagli stessi califfi, i quali, se da un lato ambivano a dare solidità filosofica all'islam, dall'altro tendevano a evitare una contaminazione troppo stretta con culture che avrebbero potuto nuocere alla causa della religione. Ciò spiega il motivo per cui essi cercavano nella filosofia greca soltanto quanto sarebbe potuto servire per confermare idee già acquisite.

È bene sapere che il primo eretico ad essere giustiziato, in ambito islamico, fu Djad Ibn Dirham, per ordine del califfo ommayade Hisham Ibn 'Abd al-Malik nel 742. L'eresia era penetrata persino nella famiglia ristretta di Maometto (hashemiti), che venne in gran parte decimata con l'uccisione o il carcere a vita. Dopodiché, intorno al 750, si può far risalire il tentativo di arginare con la forza, su vasta scala, l'espandersi del pensiero critico: non a caso la dinastia abbaside tolse di mezzo gli omayyadi, considerati poco ortodossi. Le persecuzioni degli eretici iniziarono sotto il califfo Al-Mansur (754-75), che fece giustiziare sia il famoso prosatore Ibn al-Muqaffa, uno dei primi pensatori islamici a introdurre la ragione critica, che Ibn Abil Awja, nel 772, altra figura di spicco che credeva nell'eternità dell'universo.

Con al-Mahdi (775-85) e al-Hadi (785-86) si creò un vero e proprio tribunale dell'inquisizione, che durò circa un secolo, sotto il quale finirono liberi pensatori come Hammad 'Ajrad, al-Raqqasi, Qays b. Zubayr, Abu-l-'Atahiya.

Il contributo dei filosofi islamici alla ripresa degli studi dei classici greci avvenne in un momento in cui l'Occidente latino, dopo la grande personalità di Boezio (480-525), era piombato in un lungo periodo di rimozione della cultura greca, complice, in questo, la tendenza della chiesa romana a separarsi in maniera netta dalla tradizione bizantina e dall'autorità politica del basileus.

L'Europa cattolico-latina non si può alcuna efficace riflessione filosofica e teologica dopo Agostino e sino al Mille, fatta salva la traduzione dei testi dell'Areopagita da parte dell'Eriugena, anche perché, già a partire da Gregorio Magno, essa si dimostrò molto ostile a qualunque tradizione venisse dal mondo greco. Gli studi della letteratura greca furono coltivati soltanto nei conventi di Bobbio, S. Gallo e Luxeuil nel sec. VII, e in quelli di Reichenau e Fulda nel successivo. Particolarmente rilevante però fu la conoscenza del greco negli ambienti religiosi irlandesi.

Una ripresa d'interesse per questa lingua avvenne grazie all'immigrazione da Bisanzio di molti monaci bizantini a causa delle persecuzioni iconoclastiche del sec. VIII: vennero infatti fondate le Scuole di Osnabrück nell'804 e quella di Benevento fiorì negli anni 850-70. Tuttavia la chiesa latina rimase ostile a questa diffusione, al punto che la grande Biblioteca Palatina, voluta da Carlo Magno, alla morte di questi fu smembrata e i suoi libri venduti ai privati.

Quando, grazie agli arabi, si poterono di nuovo leggere i testi di Platone e soprattutto di Aristotele, la lingua greca, in occidente, da tempo non era più conosciuta. Non dimentichiamo che un teologo come Scoto Eriugena poté tradurre le opere del teologo apofatico pseudo-Dionigi Areopagita solo perché protetto dall'imperatore Carlo il Calvo contro le minacce della curia pontificia.

Non bisogna tuttavia dimenticare che la chiusura della scuola di Atene, da parte di Giustiniano, nel 529, sfavorì sicuramente un affronto diretto delle opere platoniche e aristoteliche. E' vero che nell'area bizantina si continuarono a studiarle, soprattutto da parte di Giovanni Stobeo, Leonzio Bizantino, Giovanni Damasceno, Fozio, Areta, Michele Psello, ma più che altro per cercare convergenze verso idee di tipo cristiano. Non si arrivò mai a elaborare a Bisanzio un pensiero favorevole al razionalismo laico, anzi si guardò sempre con sospetto un uso eccessivo della filosofia in chiave teologica.

Sicuramente la presenza dell'islam in Spagna incentivò enormemente la diffusione dell'aristotelismo in Europa occidentale. Questo ha un che di paradossale, sia perché l'islam è sempre stato visto in occidente come una teologia integralista, sia perché si è sempre pensato che il processo che ha portato a subordinare la teologia alla filosofia sia stato del tutto autonomo nel mondo latino.

In effetti già con Abn Yusuf al-Kindi (801-87) il mondo arabo era arrivato alla conclusione, studiando Aristotele, che per conoscere la realtà fossero sufficienti le categorie della ragione, benché la filosofia dovesse considerarsi "ancella" della teologia. Ma anche con Abu al-Hasan al-Ash'ari (874–936), fondatore della teologia kalam (ragionatori), si era già arrivati a negare la predestinazione, gli attributi divini e l'eternità del Corano, che la tradizione invece voleva increato e da sempre preesistente presso dio.

Sia con Muhammad al-Farabi (870-950) che con Ali Ibn Sina (980-1037), entrambi iraniani (quest'ultimo meglio conosciuto col nome latino di Avicenna), si riteneva, sempre sotto l'influenza dello Stagirita, che l'universo fosse eterno, sottoposto a leggi naturali, immanenti e necessarie, e che l'anima umana fosse soltanto un frammento autonomo di una più generale intelligenza.

Al-Farabi era illogico incontestato del mondo islamico: il suo trattato sulla ragione (De intellectu) ebbe grande risonanza in Europa e le sue Opinioni dei membri della città ideale venivano considerate la replica della Repubblica di Platone. Con lui la filosofia si sente abbastanza indipendente dalla teologia, al punto che arriverà a dire che, per manifestarsi, l'essenza divina ha bisogno del contingente, della molteplicità, altrimenti è incomunicabile, cioè come se non esistesse.

Gli studi di anatomia, patologia e diagnostica di Avicenna rimasero in vigore in Europa sino al sec. XV. S. Tommaso lo considerava addirittura superiore ad Averroè, per quanto, riprendendo il pensiero di al-Farabi, egli affermasse che anche dio doveva sottostare al principio di necessità, soprattutto se lo si voleva considerare come "creatore".

Col medico e filosofo Abu Bakr Ar-Razi (864-925), che i latini chiamavano Razes, si arrivò addirittura a dire che le religioni cosiddette "rivelate" erano piene di superstizioni e che il mondo un giorno si sarebbe disintegrato per diventare materia informe.

È stato un gravissimo errore, da parte dei cattolici spagnoli, aver operato l'unificazione nazionale eliminando l'elemento islamico, anche se - a onor del vero - va detto che i grandi intellettuali islamici favorevoli al razionalismo laico ebbero più fortuna nel mondo latino che non nel loro mondo.

La componente razionalista dell'islam europeo probabilmente fu anche il frutto di un incontro con la cultura ebraica preesistente, che in Spagna era molto forte. E naturalmente dipese dal fatto che gli arabi, in quel periodo, erano economicamente più avanzati del mondo latino, il quale, sul piano commerciale, si riprenderà solo dopo il Mille.

L'Europa cristiana conoscerà Aristotele nel XIII sec. grazie alle traduzioni latine dei testi arabi (prima del 1200 non lo si conosceva anche per l'esplicito divieto della chiesa, la quale non poteva non sapere che le opere aristoteliche favorivano un approccio razionalistico alle questioni etiche e filosofiche molto più accentuato che non quelle platoniche). Tuttavia, poiché sin dal Mille si era avviato lo sviluppo della borghesia, Aristotele servirà soltanto per legittimarlo ulteriormente, laicizzando i contenuti della fede, anche se nell'interpretazione che ne darà il tomismo non ci si sarebbe mai dovuti spingere a separare la fede dalla ragione né a negare alla chiesa un ruolo politico.

Sicuramente di tutti i grandi pensatori islamici che hanno influito sulla Scolastica, il più importante resta Averroè (1126-98), non solo perché fece il commento più significativo alle opere aristoteliche, ma anche perché pose le basi dell'ateismo medievale, soprattutto con l'idea di eternità dell'universo e quindi di perenne evoluzione del mondo. Contro di lui si scaglierà non solo l'islam più ortodosso, ma anche la chiesa romana.

Averroè accettò la tesi aristotelica di un dio come causa finale (ma non quella come causa prima), negò l'eternità dell'anima e formulò l'idea di una doppia verità, filosofica e teologica, quando ragione e fede non si trovano d'accordo. Disse questo perché per lui le verità dogmatiche dell'islam potevano andar bene per il popolo, certamente non per gli intellettuali, per cui il Corano andava interpretato alla luce della filosofia. Ma anche il cristianesimo - secondo lui - contiene molte falsità, miti e leggende.

Probabilmente questa forma incipiente di ateismo non incontrò sviluppi conseguenti nell'islam perché non riuscì mai a focalizzare l'idea dell'individualismo religioso, la quale, in effetti, è essenziale alla formazione di una classe borghese che si concepisca in maniera autonoma rispetto alla collettività dei credenti, alle sue autorità religiose e allo Stato confessionale. In effetti la differenza fondamentale tra la teologia islamica razionalista e la Scolastica sta proprio nel fatto che la prima restò un fenomeno intellettuale, in quanto non ebbe mai, come punto di riferimento sociale, una classe borghese in grado di agire autonomamente, capace cioè di sdoppiarsi nella propria adesione alla fede e, insieme, alle esigenze di profitto economico.

Il fatto che la riscoperta islamica dell'aristotelismo portasse a credere in cose addirittura impensabili nel mondo cattolico latino, come p. es. la falsità dei miracoli, la mortalità dell'anima individuale..., non fu però sufficiente per far compiere all'islam il passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Di fatto il meglio di sé, sul piano del razionalismo, l'islam lo diede fino al XII sec. I forti elementi di laicizzazione che ebbe in quel periodo erano stati per così dire ereditati dalla teologia scolastica. Già con al-Ghazali (Algaxel), mistico e giurista dell'XI secolo, si cominciò a contestare questo stretto rapporto dell'islam con la filosofia greca. E Averroè, che replicherà ai suoi testi, non riuscirà ad avere la meglio, anzi, si può dire che con lui avrà termine il pensiero razionalistico non strettamente dipendente dall'islam. Per tornare al laicismo il mondo musulmano dovrà attendere la svolta di Mustafà Kemal nella Turchia degli anni Venti.

Purtroppo l'espulsione degli islamici dalla Spagna e soprattutto le crociate latine hanno indotto questa confessione a chiudersi a riccio, cioè a usare la religione anche come strumento anti-colonialista, ed è abbastanza triste vedere che quando certi intellettuali islamici riescono a emanciparsi dalla religione, finiscono con l'acquisire la cultura borghese in maniera acritica, senza capire che il laicismo di questa cultura ha limiti non meno grandi di una qualunque fede religiosa.

La rinascita della critica islamica avviene comunque agli inizi del XX sec., quando l'iraniano Ali Dashti, direttore della rivista socialista "Alba rossa", scrive uno studio sulla carriera profetica di Maometto, poi pubblicato nel 1980 a Beirut, essendo vietato nel suo paese. Dopo la rivoluzione islamica del 1979 egli autorizzò la pubblicazione della sua opera da parte di gruppi clandestini iraniani di opposizione, ma venne immediatamente arrestato e nel 1984 morì in carcere a 83 anni.

Il caso più clamoroso però fu quello dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, che col volume Versetti satanici suscitò enorme scalpore nel mondo islamico, dando il via a una lenta ma progressiva apostasia, che in rete può essere documentata dai siti www.apostatesofislam.com, formermuslimsunited.org e www.faithfreedom.org. Sulla sua testa pende ancora una condanna a morte. Tra gli esponenti di maggior rilievo del pensiero critico si possono ricordare Ibn Warraq (lo "Spinoza islamico"), Taslima Nasrin, Ali Sina, Anwar Shaikh, Parvin Darabi.

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018