TEORIA
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ELLENISMO: SITUAZIONE STORICA E SOCIALE DAL IV AL I SECOLO a.C. DAL MONDO ELLENICO A QUELLO ELLENISTICO Ellenismo (I-II-III) - Quadro storico 1 - Quadro storico 2 - Quadro storico 3 - Considerazioni PREMESSA STORICO-CULTURALE Il periodo ellenistico nasce con l'impero di Alessandro Magno, che non riesce a realizzare integralmente il suo progetto di fusione della cultura greca con quella orientale, in quanto muore, molto giovane, nel 323 a.C. Alla sua morte l'impero si scinde in tre grandi regni: Macedonia, Egitto e Asia (Siria), più altri Stati minori (Pergamo e Rodi), i quali continuano, sulla scia di Alessandro, a considerare "assoluti" i sovrani e "sudditi" i cittadini, non restituendo alle città-stato la democrazia diretta. Le poleis greche non avranno mai più l'autonomia politica di un tempo, in quanto passeranno dal regno di Macedonia a quello romano. Roma conquista la Grecia nel 146 a.C., l'Egitto nel 30 a.C. e tutto il Medioriente, definitivamente, con l'ultima guerra giudaica del 135 d.C. La città più importante del periodo ellenistico è Alessandria d'Egitto, sotto la dinastia dei Tolomei. Qui vengono raccolti circa 700.000 volumi-papiri di tutto il sapere greco e orientale: è la più grande biblioteca del mondo antico. Sono imponenti in questa città anche l'osservatorio astronomico, il giardino zoologico, l'orto botanico e le sale anatomiche, in cui si pratica la dissezione dei cadaveri e la vivisezione degli animali: il tutto subì varie distruzioni parziali (48 a.C. sotto Giulio Cesare; intorno al 270 d.C. sotto Aureliano; nel 391 d.C. per decreto di Teodosio I) sino a quella definitiva, nel 642 d.C., della conquista araba. In questo periodo gli intellettuali hanno di fronte a loro due scelte:
Ad Alessandria e ad Atene la scienza si separa dalla filosofia e la filosofia è costretta a separarsi dalla politica. Sia la filosofia che la scienza si separano nettamente anche dalla religione. Generalmente gli studiosi sono individualisti, in quanto non s'interessano di problematiche sociali o politiche e subordinano l'etica o alla scienza o a una sorta di filosofia esistenziale. A motivo dello schiavismo ancora imperante, la scienza alessandrina resta perlopiù teorica, poco propensa a svilupparsi in maniera tecnologica. In Grecia la filosofia subisce mutamenti decisivi:
Anche in campo artistico si verifica una sorta di eclettismo, basato sulla contaminazione degli stili (classicismo, naturalismo, barocco e rococò alessandrino), mentre nell'architettura si sovrappongono gli stili dorico, ionico e corinzio. Le principali scuole filosofiche sono: stoicismo (fondato da Zenone di Cizio), epicureismo (fondato da Epicuro) e scetticismo (comprendente varie scuole informali e contestative a indirizzo socratico). Stoicismo viene dalla parola greca stoà, che significa "portico", il luogo in cui i seguaci di Zenone s'incontravano ad Atene, in quanto, non essendo egli cittadino di questa città, non poteva acquistare un edificio. Zenone giunse ad Atene nel 312 a.C., interessato alla filosofia. Il periodo di questa scuola viene generalmente suddiviso in tre fasi:
Lo stoicismo si caratterizza per un alto grado di sistematicità e coerenza interna, dando molta importanza alla razionalità. Gli aspetti da esaminare dello stoicismo sono tre: logica (comprendente anche gnoseologia e psicologia), fisica (comprendente anche la metafisica) ed etica (comprendente, indirettamente, anche la politica). LA LOGICA
LA GNOSEOLOGIA (COME PARTE DELLA LOGICA)
LA FISICA
L'ETICA Gli stoici, vivendo in un periodo in cui la politica democratica della polis non esisteva più, non credevano possibile la modificazione della realtà, ma solo quella della persona. Ognuno deve cercare d'essere se stesso ovunque viva: questo era il loro obiettivo. E il modo migliore per farlo è vivere secondo ragione, ovvero secondo natura. Questa cosa può essere fatta qui e ora, compiendo il proprio dovere: solo così si può acquisire la pace interiore. Le azioni che si possono compiere per dovere sono virtuose solo se conformi alla natura umana, cioè non possono essere contraddittorie alla ragione. Tuttavia capire quale sia questa natura umana non è facile, in quanto gli uomini sono condizionati negativamente dalla società in cui vivono, piena di false opinioni, falsi valori, pessimi esempi. D'altra parte non si può uscire dalla società, né rinunciare alla scienza, alla cultura, all'impegno. Bisogna solo cercare di mantenersi puri in mezzo alla corruzione. Si può confidare nel fatto, guardando i bambini non ancora corrotti come gli adulti, che nell'essere umano vi è una certa predisposizione al bene. Per sviluppare questa ragionevolezza innata bisogna far sì che le proprie azioni vengano compiute secondo coscienza. Avere un atteggiamento ragionevole, coscienzioso, significa evitare le passioni, cioè eliminare ogni forma di turbamento emotivo, ricercare l'imperturbabilità (atarassia). (Non usiamo la parola "apatia" perché nella lingua italiana ha un significato piuttosto negativo, simile alla cinica indifferenza.) Lo stoico deve evitare tutti quegli stati d'animo che possono sfuggirgli a un controllo razionale o che possono portarlo a compiere gesti istintivi. Lo stoico si adegua alla realtà conforme a ragione (si sposa, ama la moglie e i figli e s'impegna in comunità), ma dentro di sé rimane impassibile: non avrà mai scatti d'ira, gesti di stizza, sentimenti di odio o di ribellione. Lo stoico prende le cose come sono, ma senza lasciarsi influenzare più di tanto, proprio perché sa che ogni emozione è generata da un uso errato della ragione, che va sempre tenuta sotto controllo. L'ira, p. es., è determinata da almeno quattro convinzioni: 1) aver subìto un torto da qualcuno; 2) su un aspetto considerato molto importante; 3) con una precisa volontà d'offendere; 4) per cui è necessaria una ritorsione. L'ira però scompare quando ci si accorge che il torto era stato casuale o involontario. Dunque prima di agire o reagire bisogna sempre riflettere. Ecco perché lo stoico ritiene che l'uomo debba anzitutto sottoporre a revisione critica il proprio sistema di valori: se le cose appaiono futili, smetterà di desiderarle; se appaiono necessarie, smetterà di temerle, ecc. Se ci si abitua con pazienza a una certa educazione intellettuale o autocontrollo, le emozioni cambieranno di conseguenza. Se si reagisce istintivamente agli stimoli esterni, senza un preventivo assenso razionale, si è come gli animali. Per abituarsi a un atteggiamento razionale sarebbe bene assumere una certa indifferenza nei confronti di tutte le cose riguardanti il corpo (salute bellezza ricchezza longevità ecc.). E' evidente che lo stoico preferisce la salute alla malattia, ma non si farà prendere dall'angoscia se non l'avrà. Lo stoico deve essere sempre saggio nei giudizi, controllato negli impulsi, forte nelle avversità e giusto nelle questioni economiche. E deve cercare di esserlo nella maniera più coerente possibile, evitando le mezze misure e i compromessi indegni, anche perché, al cospetto della coscienza, non esistono colpe più o meno gravi. Quando si viene meno al proprio dovere, la colpa è sempre grave. Se la situazione esterna comporta dei condizionamenti inaccettabili per la coscienza, il suicidio è doveroso. La vita in sé non è un valore, perché tutto dipende da come la si vive. Gli stoici sono favorevoli al suicidio persino di fronte alle patologie degenerative del proprio corpo (Zenone e Cleante si uccidono all'età di circa settant'anni). Lo stoico non è un uomo impegnato politicamente per restituire alla polis la propria democrazia diretta, però è impegnato moralmente. I due principali ideali chi professa sono il cosmopolitismo (difenderà sempre i diritti violati degli stranieri, che per lui sono cittadini a tutti gli effetti) e l'uguaglianza universale, contro ogni forma di privilegio e di discriminazione. L'idea di diritti naturali, eterni e inalienabili, appartenenti agli esseri umani sin dalla nascita, non esisteva prima dello stoicismo. EPICURO (341-270 a.C.) Nato a Samo, frequenta le lezioni dell'atomista Nausifane. Dopo essere stato ad Atene, Colofone, Mitilene e Lampsaco, torna definitivamente ad Atene nel 306 per fondare una propria scuola, in netta antitesi all'Accademia platonica e al Liceo aristotelico, anche in senso logistico, poiché si trattava di un orto-giardino alla periferia della città, il cui isolamento voleva essere un'espressione fisica del disinteresse per la vita urbana. Ebbe un notevole successo, anche perché il "giardino" era aperto a tutti, senza distinzioni di alcun tipo. Scrisse circa trecento opere, ma ci sono rimaste solo due raccolte di Massime capitali, oltre a tre lettere e vari frammenti. La sua filosofia è stata in assoluto la più travisata e avversata della storia, a partire già dall'epoca pagana, e soprattutto in quella cristiana. L'epicureismo, infatti, a motivo del proprio cripto-ateismo, veniva sempre messo in relazione con l'immoralità o la dissolutezza, già a partire da Cicerone. Ma anche Dante, che pur mette tutti i filosofi pagani nel Limbo, non avendo essi potuto conoscere il Cristo, riserva a Epicuro il girone infernale degli eretici. Il libro X delle Vite e dottrine dei filosofi celebri, di Diogene Laerzio, verrà tradotto solo nell'XI sec., senza particolare successo divulgativo. Lo stesso epicureo De rerum natura, di Lucrezio, rimarrà ignoto sino alla metà del Quattrocento. Miglior fortuna ebbe la riduzione divulgativa delle idee di Epicuro, presentata nel XIV sec. da Walter Burley, nel suo Liber de vita et moribus philosophorum. A interessarsi davvero di Epicuro furono i primi umanisti, desiderosi di cercare un'alternativa sia al platonismo che all'aristotelismo. Ciò che di lui interessava era la centralità dell'uomo, ovvero l'insistenza sui temi delle passioni, della prudenza e della virtù. Si cercava di superare il fatalismo e il rigorismo degli stoici, senza però cadere nel sensualismo. Protagonisti di questo recupero sono stati Cosma Raimondi, Defensio Epicuri (1430), Lorenzo Valla, De Voluptate (1), e anche Francesco Filelfo. Nel XVII sec. Gassendi riteneva Epicuro conciliabile col cristianesimo. Influenze epicuree si trovano anche nei libertini del Seicento e in Hobbes. Nel Settecento invece sono riscontrabili nell'utilitarismo. Sul piano della logica e della teoria della conoscenza - che Epicuro definisce col termine di "canonica" (dal greco kanòn, cioè regola, disciplina...) - l'idea fondamentale è che la verità può essere data solo dall'evidenza. Egli sosteneva questo per evitare di fare disquisizioni di tipo metafisico, rinunciando così a molte delle problematiche affrontate da Platone e Aristotele. L'evidenza infatti è data dalla sensazione, non da un ragionamento logico. L'uomo percepisce o registra passivamente o automaticamente stimoli provenienti dall'ambiente, indipendenti dalla sua volontà. Quando le sensazioni si ripetono nel tempo, possiamo farci una rappresentazione astratta delle cose. Possiamo cioè anticipare mentalmente il contenuto di esperienze sensibili avute nel passato (prolessi), anche senza riviverle in quel momento. È sufficiente qualcosa che le richiami. Tali anticipazioni non sono affatto innate e non esprimono alcuna essenza: sono solo complessi di segni e simboli, la cui forza sta nel non poter ingannare. Quando un'evidenza non è immediata o empirica (e per fortuna invece può esserlo anche grazie a questi segni rievocativi), si rischia di cadere nella falsità. Bisogna quindi attenersi sempre alle cose, alle esperienze realmente vissute, rinunciando alle astrazioni fini a se stesse, prive di costrutto. Sul piano della fisica, attenersi alle cose significa escludere ogni intervento esterno sulle vicende degli uomini, sia esso non naturale o non umano. Epicuro pensa che per fornire le basi scientifiche per la liberazione da ogni paura che ci fa desiderare un aiuto esterno, occorra riprendere l'atomismo di Democrito e Leucippo. L'atomo, per lui, è l'unità minima della materia, non ulteriormente scomponibile. È invisibile come un dio, e infinito di numero come gli dèi, e ogni atomo è diverso dall'altro per forma, peso e grandezza. La differenza sta nel fatto che gli dèi (che altro non sono che esseri umani perfetti) non si occupano affatto delle vicende terrene, perché non possono esservi obbligati da nulla, e tra di loro vivono felici e beati. Quando gli atomi si aggregano, danno origine ai corpi visibili, e quando si separano, li dissolvono. Nel vuoto sono perennemente in movimento rettilineo (di caduta dall'alto verso il basso), dando origine, con le loro collisioni casuali prodotte da deviazioni improvvise della traiettoria, a mondi infiniti in un universo increato. Le forme che creano sono puramente casuali e i legami che le forme hanno tra loro non si basano su leggi necessarie, come invece voleva Democrito. Una delle particolari forme che creano è l'anima, che ha la capacità di lasciarsi impressionare fortemente da altri atomi esterni. Ma alla morte del corpo, muore anche l'anima. Pur affermando l'eternità dell'universo, Epicuro la nega all'essere umano, il quale però è dotato di libero arbitrio. L'uomo è frutto di un una mera casualità, cioè di una deviazione imprevedibile (clinamen) che alcuni atomi hanno subito nel loro movimento, il quale pure sottostà alle leggi della fisica. È l'imponderabilità che permette la nascita delle cose, le quali, una volta nate, sono destinate a scomparire, in quanto esiste una legge della perenne trasformazione: gli atomi infatti si muovono vorticosamente, senza pace, e tutto quello che creano lo distruggono. Il criterio dell'etica, per essere evidente, deve basarsi su due sentimenti elementari e primordiali: il dolore (che tendiamo a far diminuire) e la felicità (che tendiamo a massimizzare). Questi sentimenti si basano sui cinque sensi, che hanno in comune sia gli uomini che gli animali, con la differenza che gli animali realizzano per via istintiva ciò che nell'uomo richiede una riflessione su di sé, in quanto sensi e sentimenti sono viziati da false percezioni della realtà (politiche o economiche o religiose). La filosofia deve appunto servire a ripristinare le inclinazioni naturali, quelle che, non a caso, si ritrovano anche nei bambini. Ecco perché, secondo Epicuro, vanno evitati tutti gli eccessi. L'equilibrio sta nell'assenza di sofferenza fisica (aponìa) e di turbamenti interiori (atarassìa) e di desideri inutili. Tutto deve restare sotto il controllo della ragione. Condizione necessaria perché ciò avvenga è vincere quattro paure, della cui vanità bisogna prendere consapevolezza: timore degli dèi (ai quali non interessa minimamente la vita umana); paura della morte (quest'ultima non può essere un'esperienza reale, in quanto è priva di sensazioni); paura del dolore fisico (che però quando è intenso è di breve durata, per cui non è dignitoso lamentarsi); timore dell'infelicità (la ricerca della felicità si basa su bisogni e desideri, dei quali però occorre verificare quali siano davvero necessari e naturali. Non si può diventare schiavi dei propri desideri, che possono diventare illusori e procurare sofferenza. In tal senso va fatto un calcolo tra la desiderabilità di un piacere e i sacrifici necessari per ottenerlo, e il calcolo deve garantire l'esercizio della prudenza e del buon senso). Di sicuro non serve, per ottenere questo equilibrio interiore, partecipare alla vita politica, dove i valori che contano sono il potere e la ricchezza. L'unico valido legame sociale è l'amicizia, che va vissuta anzitutto come individuo, più che come cittadino. (1) Valla probabilmente pubblicò la prima redazione del dialogo filosofico De voluptate (Il piacere), mentre insegnava retorica allo Studio di Pavia, nel 1430-33, città in cui, successivamente, ne stese una seconda redazione, pubblicata a Milano nel 1433 con il titolo De vero bono (Il vero bene), poi mutato nel 1441 in De vero falsoque bono (Il vero e il falso bene), in cui fu indotto a mitigare lo spirito epicureo e a cambiare i personaggi. Sarà poi costretto ad abbandonare Pavia per una disputa con i giuristi della città. I LIMITI DELLA FILOSOFIA ELLENISTICA Per quanto possa sembrare assurdo, le origini del modo di fare filosofia che avevano gli stoici, gli epicurei e gli scettici risalgono ad Aristotele, per il quale la filosofia doveva smettere di avere ambizioni politiche, sogni di riforma delle istituzioni della polis, come quelli di Platone. La differenza stava semplicemente nel fatto che, mentre Aristotele aveva elaborato una filosofia che faceva da esplicito supporto all'imperialismo di Alessandro Magno, le scuole a lui successive non fanno così esplicitamente gli interessi dei regni ellenistici nati sulle macerie di quell'impero, anzi detestano profondamente la metafisica di Aristotele e, con essa, quella di Platone, per cui non sono neppure intenzionate a recuperare la democrazia delle città-stato. Al massimo si può parlare di adesione formale alla politica autoritaria di quei regni dinastici, evitando, con ciò, di contestare le loro contraddizioni. I filosofi ellenistici, della Grecia e di Roma, sono sostanzialmente individualistici, politicamente rassegnati, anche se moralmente seri, in quanto l'individuo che descrivono e propagandano è democratico, cosmopolitico, laico, razionalista, dotato di buon senso e di moralità. Delle tre scuole sicuramente quella che ebbe più successo fu la stoica, che cercò di trovare con le istituzioni un compromesso dignitoso, rinunciando a isolarsi, fisicamente o intellettualmente, come le altre due. Quando per gli stoici non era possibile neppure un compromesso sostenibile, non restava altra via che il suicidio. Lo stesso Epicuro, pur avendo fondato una scuola, era sostanzialmente un individualista, in quanto non credeva in alcun modo nell'impegno sociale, civile e politico. Per lui la realtà non poteva essere mutata, se non dalle leggi della fisica, che prevedono una fine in ogni cosa, in virtù della legge della perenne trasformazione. L'imperturbabilità che i filosofi ellenistici cercavano, non era che una forma d'illusorio autoconvincimento, secondo cui si può essere sereni o soddisfatti di sé, anche quando non si è politicamente impegnati, cioè quando non si lotta per la democrazia o per l'autorità della polis in cui si vive. L'atarassia è una scelta minimalista, compiuta però da persone intellettualmente dotate, che avrebbero sicuramente potuto avere ben altri destini. Essa quindi può essere soltanto il frutto di una volontà al negativo, quella di negarsi il compito di realizzare qualcosa di significativo per la collettività. Il filosofo ellenistico pensa di contribuire al bene comune solo indirettamente, mostrando se stesso come esempio morale da seguire. Queste filosofie sono un evidente forzatura, in quanto con esse si va a ricercare una serenità interiore isolandosi dalle contraddizioni antagonistiche dell'epoca. A parole i loro esponenti si dicono favorevoli all'uguaglianza sociale e quindi appaiono anti-aristocratici, ma nei fatti non fanno nulla per realizzarla. Per loro le cause dell'infelicità non stanno nei conflitti di ceti e di classi, ma nei turbamenti interiori dettati dalle passioni, cioè in quelle forme ansiose di volere (o di non volere) una determinata cosa a tutti i costi. Sono filosofie che sicuramente risultano affini a quelle di tipo indo-buddiste. Anzi, si può dire che mentre stoici ed epicurei sono più vicini all'induismo, gli scettici invece propendono per il buddismo, soprattutto con la loro idea che "non bisogna desiderare alcunché". I loro limiti sono piuttosto evidenti: Pirrone, ad es., mentre dice di voler essere scettico per opporsi a ogni dogmatismo, diventa, proprio per questa ragione, un seguace del dogmatismo, benché non gli si possa dar torto quando sostiene essere una sciocchezza equiparare la verità all'evidenza, come invece facevano le altre due scuole. In ogni caso tutte queste filosofie, per quanto umanistiche fossero, non fecero breccia tra i ceti sociali oppressi: rimasero qualcosa di aristocratico o di elitario. Chi prese piede a livello sociale fu invece il cristianesimo, che, per quanto povero sul piano filosofico e schematico su quello teologico, finì con l'ottenere ampi consensi con la sua disponibilità al martirio, quando non voleva riconoscere all'imperatore il suo carattere divino. Quanto più l'impero romano era in decadenza, tanto più gli imperatori accentuavano il culto della loro personalità e militarizzavano l'economia e le istituzioni: sotto Diocleziano ciò raggiunse l'apice e, paradossalmente, aprì le porte al trionfo del cristianesimo, che fece puoi pagare duramente ai filosofi e teologi pagani il loro disinteresse nei confronti della vita sociale e politica e soprattutto nei confronti delle persecuzioni anti-cristiane. Teodosio, nel 380, impose il cristianesimo come religione di Stato; i templi pagani furono abbattuti e trasformati in basiliche; nel 529 Giustiniano chiuse tutte le scuole filosofiche pagane; si considerò assolutamente inutile lo studio delle discipline scientifiche e Ipazia venne massacrata dagli stessi cristiani. Bibliografia
Opera generale di Zeller Eduard
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