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ALLE RADICI DELL'ATEISMO IN AMBITO
CATTOLICO:
GOTESCALCO E SCOTO ERIUGENA
Una qualunque teoria della predestinazione, in cui la categoria della
necessità prevalga su quella della libertà, può essere usata in maniera
politicamente eversiva. Lo fece apertamente la riforma protestante, ma era già
stato fatto in ambito cattolico dal monaco sassone Gotescalco d'Orbais (Gottschalk)
(804-870 ca), che arrivò praticamente a dire che se la salvezza dipende da dio e
non dagli uomini, la chiesa non serve a nulla, o comunque non ha senso una
chiesa costrittiva, che s'imponga come istituzione di potere: è sufficiente
credere nel Cristo incarnato.
La fama di Gotescalco è legata alla sua teoria della gemina praedestinatio:
la duplice predestinazione, quella di pochi alla salvezza e la condanna dei
più alla dannazione eterna, che egli presume di trarre da Agostino d'Ippona e Isidoro di
Siviglia. Per il vescovo d'Ippona, in effetti, dio concede la grazia secondo una
decisione imperscrutabile stabilita fin dall'eternità: è perciò vano che l'uomo rivendichi suoi presunti
meriti, che dovrebbero valergli la salvezza. E Gotescalco,
estremizzando questa tesi, sostiene che come dio ha liberamente deciso della salvezza di alcuni, ha insieme ab
aeterno deciso anche della dannazione di tutti gli altri; cosa che d'altra
parte anche Isidoro
aveva stabilito nelle sue Sentenze (II 6, 1): "duplice è la
predestinazione: alla vita per gli eletti, alla morte per i reprobi".
Di fronte alla prescienza e alla predestinazione divine, che
necessariamente coincidono, Cristo, per Gotescalco, è semplicemente venuto non
già a modificare le decisioni di dio, ma ad annunciare agli uomini che vi erano
dei predestinati alla salvezza: una tesi, questa, che metteva gravemente in dubbio la reale
funzione mediatrice della chiesa.
In che periodo Gotescalco iniziò a dire queste cose? Dopo la pace di Verdun
(843), con cui s'era sancita la divisione territoriale dell'impero carolingio.
Allora c'era già chi voleva mettere in discussione lo stretto rapporto
politico-istituzionale tra impero e chiesa romana. Qualunque pretesa avesse il
potere d'imporre una determinata fede religiosa, si scontrava con l'esigenza di
ampliare l'uso della libertà di coscienza. E quale modo migliore di farlo se non
quello di contestare la teologia latina direttamente al proprio interno?
Agostino d'Ippona aveva usato le tesi sulla predestinazione soprattutto contro gli
eretici irriducibili; Gotescalco invece le usava contro la stessa chiesa romana,
che, normalmente, ai propri fedeli, non parlava di "predestinazione", bensì di
"provvidenza", cui bisognava credere per fede, lasciando ad essa il compito di
interpretarla e gestirla. Se con Agostino la categoria della "necessità"
serviva per affermare una verità indiscutibile, con Gotescalco la stessa
categoria veniva usata per togliere valore a quella verità.
La predestinazione era un modo di dire, da parte di Gotescalco, che la
provvidenza non funzionava e che chi la sosteneva era in errore. La
predestinazione poteva essere usata dal singolo per liberarsi di una tutela
costrittiva giudicata insopportabile. Il collettivo istituzionalizzato e
corrotto veniva
considerato un limite invalicabile all'esercizio della libertà individuale. La
stessa cosa verrà detta dai protestanti 700 anni dopo.
Le gerarchie ecclesiastiche avvertirono subito, nelle tesi di Gotescalco, il
grave pericolo di delegittimare la chiesa: e infatti le sue dottrine furono
condannate dai vescovi tedeschi nell'848 in un concilio presieduto da Rabano
Mauro. Dopo una seconda condanna emessa da un concilio tenuto a Quierzy nel 849,
presieduto dall'arcivescovo di Reims, Incmaro, Gotescalco fu, dopo una pubblica
fustigazione, condannato all'ergastolo nel monastero di Hautvilliers, a Épernay,
dove morì vent'anni dopo.
Incmaro distinse, nella controversia, la prescienza divina,
consistente nella preventiva conoscenza delle azioni degli uomini, dalla
predestinazione, in cui si realizza il premio dei buoni e il castigo dei
malvagi. Nel mezzo sta la chiesa, che non conoscendo la prescienza divina, deve
operare in modo che tutti siano predestinati al bene.
Tuttavia il dibattito sulle tesi del monaco sassone continuò: la distinzione
fra prescienza e predestinazione non sembrò risolvere la
difficoltà del problema. Sicché nell'850, su richiesta di Incmaro, Giovanni
Scoto Eriugena scrisse a confutazione di Gotescalco il De praedestinatione,
dove contesta la tesi della doppia predestinazione, sostenendo che non esiste una
predestinazione dei dannati. Infatti, come una è l'essenza divina, così unica è
la sua volontà e da un'unica volontà non possono derivare due effetti contrari.
Sempre a motivo della sua essenza, dio può essere solo causa di bene, perché il
male è per lui, platonicamente e agostinianamente, un non-essere; inoltre non è
possibile attribuire a dio una "pre-destinazione", un "destinare prima", in quanto
dio è fuori dal tempo, in lui non esiste un prima né un dopo. In dio non vi può
dunque essere né prescienza del male dell'uomo, né predestinazione al male.
Apparentemente sembrava tutto conforme a ortodossia. Invece l'Eriugena, ridando valore alla
facoltà del libero arbitrio, finì col porre le basi di uno sviluppo autonomo
della ragione, destinato anch'esso a mettere in discussione il primato della
tradizione patristica e del principio di autorità. Ciò a testimonianza che da
qualunque parte si attaccassero i dogmi astratti della chiesa, si finiva con lo
scatenare i venti impetuosi del vaso di Pandora.
Con l'irlandese Eriugena spuntano addirittura, nell'alto Medioevo, le prime
radici dell'ateismo in ambito cattolico, poiché, rifacendosi alla tradizione
bizantina, egli arrivò a dire che dio non poteva essere né definito né conosciuto. Fu
uno scandalo incredibile, un insopportabile rigurgito di misticismo. E non a
caso egli si rifaceva all'opera di Dionigi Areopagita, da lui considerato il
maggior teologo in assoluto, e per il quale dio altro non era che "tenebra",
"divina caligine", del tutto ineffabile alla percezione umana.
Il pensiero di Eriugena fu condannato dalla chiesa romana, che già aveva
rotto con Bisanzio sulla questione del Filioque e che non vedeva l'ora di
trovare un buon pretesto per una "soluzione finale" (cosa che avverrà circa 150
anni
dopo l'eresia scotista, con le crociate). Sicché essa proibì risolutamente la
diffusione di tutte le sue opere e, se non fosse stato per la protezione del
sovrano Carlo il Calvo, che voleva avvicinarsi alla grande cultura bizantina,
difficilmente egli avrebbe potuto scrivere qualcosa dopo la prima condanna del
testo sulla predestinazione (850). La condanna fu così dura che dopo di lui il
greco rimarrà per lungo tempo sconosciuto ai pensatori occidentali e pochissime
cose rifluiranno nell'Europa cattolica da parte dei teologi bizantini, tant'è
che il Contra Graecorum di Tommaso d'Aquino può essere considerato la
summa dell'ignoranza e dei pregiudizi dei cattolici-romani in epoca
medievale nei confronti di quella teologia.
Sulla morte dell'Eriugena circolarono diverse storie, una delle quali vuole
che dopo la morte del suo protettore egli si sia rifugiato in Inghilterra (870),
dove venne assassinato dai monaci che lo consideravano un eretico. Di lui non si
conosce né il luogo né la data del decesso. In compenso si sa che ancora nel 1210 gli
arrivò una condanna conciliare postuma, con la messa al bando del libro De
divisione naturae; e nel 1225 papa Onorio III manderà un'ossessionata
lettera ai vescovi francesi per chiedere la raccolta di ogni copia del libro da
spedire a Roma per esservi bruciata.
La linea, partita da lui, approderà al nominalismo (prima espressione
medievale del materialismo), il quale negava (700 anni prima di Kant) non solo la dimostrabilità
dell'esistenza di dio, ma anche quella dell'immortalità dell'anima e della
creazione.
* * *
Resta significativo che la chiesa romana abbia sempre preferito una teologia
catafatica (definitoria o affermativa) a una apofatica (negatoria), quando negli
stessi vangeli (specie quello giovanneo) l'unica teologia catafatica possibile è
quella del Cristo che pretende di identificarsi strettamente con dio.
Il motivo per cui detta chiesa ha voluto aggiungere prove su prove per
dimostrare l'esistenza di dio, è dipeso dal fatto che, ponendo una stretta
identificazione tra Cristo e il pontefice, quest'ultimo si sentiva autorizzato a
elaborare o approvare continuamente nuove verità rivelate. Era questo un modo
per dimostrare la verità di sé, un modo per far valere i propri "superpoteri",
specialmente nei momenti di crisi della propria autorità.
Ma resta ancora più singolare che né la chiesa romana né quella bizantina
abbiano visto nella stretta identificazione di Cristo con dio una sorta di
ateismo. Se alla domanda: "Mostraci il Padre", uno risponde: "Vedendo me vedete
lui"(Gv 14,8s.), è evidente che una risposta del genere può essere interpretata
anche nel senso dell'inesistenza di qualunque dio diverso dall'uomo.
Certo nel linguaggio di Giovanni tale identificazione viene posta dai mistici
manipolatori del quarto vangelo allo scopo d'intenderla come "esclusiva" del
Cristo e non come pertinente ad ogni uomo. Ma se il Cristo l'ha davvero
pronunciata, non può averla pensata in maniera diversa da un'altra affermazione,
detta ai giudei poco prima che tentassero di lapidarlo: "Tutti voi siete dèi"(Gv
10,34). Il che voleva appunto dire - altrimenti i fanatici non avrebbero preso
le pietre - che non esiste alcun dio diverso dall'uomo.
Fonti
Testi
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Vita morte evoluzione. Dal batterio all'homo sapiens
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Dal nulla al divenire della pluralità. Il pluralismo ontofisico tra energia,
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