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SUL VERO VOLTO DI CRISTO,
BARBAGLIA CONTRO CASCIOLI
1-2-3-4
Barbaglia contro Cascioli (pdf-zip)
Una questione di stile
È triste vedere un docente di Scienze bibliche presso il seminario diocesano
di Novara, titolato a formare giovani seminaristi e insegnanti di religione, che
a loro volta avranno a che fare col mondo dei giovani, sbeffeggiare uno studioso
come Luigi Cascioli di essere un “agronomo” di Bagnoregio, di avere un diploma
in “agraria”, di essere conterraneo di classi “rurali”… Come se la provenienza
geografica, socioeconomica o scolastica di uno studioso dovesse essere un
discrimen per qualificare il valore delle argomentazioni che sostiene.
È triste questo razzismo culturale da parte di un docente che dovrebbe
insegnare ai propri allievi il rispetto e la tolleranza, e fa specie in un
prelato che proprio per il ruolo che ricopre dovrebbe favorire pace e concordia,
anche quando gli avversari appaiono duri e intransigenti.
Atteggiamenti come quelli di don Silvio Barbaglia, nel suo libro La favola di
Cascioli www.lanuovaregaldi.it/doc/evento/Cascioli.pdf tradiscono una pretesa
che oggi ha sempre meno ragione di esistere: quella del monopolio interpretativo
da parte della chiesa romana in relazione alle verità cristiane e al fenomeno
religioso in generale.
Una questione di metodo
Considerando che le fonti neotestamentarie da tempo gli esegeti più
scrupolosi stentano a reputarle come assolutamente autentiche o attendibili (in
fondo è stato proprio dal dubbio che è nata la critica testuale), non c’è alcun
bisogno di inveire contro chi propone ipotesi o anche tesi interpretative
divergenti da quelle ufficiali o tradizionali (che in Italia, come noto,
coincidono con quelle ecclesiastiche).
Alla fin fine si tratta di un punto di vista contro un altro, per cui, se non
vogliamo tornare ai tempi bui delle scomuniche, dovremmo lasciare ai lettori o
addirittura alla storia il compito di stabilire quale versione dei fatti sia la
più vera o verosimile. Rispondere a delle pretese esegetiche, che in effetti
possono anche apparire dogmatiche, con altre non meno perentorie, non aiuta
certo lo sviluppo della ricerca e dello spirito critico.
La mancanza di serenità interiore, quando si affrontano argomenti così
cruciali per le sorti di convinzioni religiose radicate nei secoli, tradisce
stati ansiogeni, di risentimento o di paura, che non si addicono a chi fa
dell’indagine critica una delle ragioni della propria vita.
Una questione di merito
Forse il Cascioli può aver esagerato negando l’esistenza storica al Cristo
(cosa che prima di lui molti altri hanno fatto), ma perché non ammettere che
persino negli ambienti cattolici più avanzati si dà per acquisita la differenza
tra “Gesù storico” e “Cristo della fede”?
Al giorno d’oggi diventa quanto meno discutibile usare argomentazioni a
favore del “Cristo della fede” per sostenere delle tesi a favore del “Gesù
storico”.
Sono piani diversi, che non dovrebbero legittimarsi a vicenda, non foss’altro
perché tale distinzione è frutto di studi condotti con rigore scientifico in
ambienti protestantici stimati in tutto il mondo, che per molti aspetti hanno
portato a considerare le fonti neotestamentarie quanto meno imprecise, ambigue,
reticenti se non addirittura fuorvianti: il che ha finito con l’aprire la strada
a una visione del tutto laica e razionale della vicenda legata al nome di
Cristo.
Prima della Scuola di Tubinga non si sospettava neppure che potesse esistere
una differenza tra “Gesù storico” e “Cristo della fede” (ancora oggi gli
ortodossi la rifiutano, e a non torto, poiché sanno benissimo che se si
approfondisce quella differenza si rischia di far cadere tutto il castello di
carte false costruito intorno alla figura di Gesù, la prima delle quali è quella
relativa all’identificazione di “tomba vuota” e “resurrezione”).
Dunque il Cristo potrà anche essere esistito, ma certamente non assomiglia a
quello rappresentato nel Nuovo Testamento, dove il suo messaggio di liberazione
nazionale è stato sostituito, a partire soprattutto da Paolo, da uno di
redenzione universale.
Una questione politica
Qui però se si entrasse nel merito di tutte le questioni affrontate nel testo
di Barbaglia, il discorso diventerebbe molto lungo.
Si può semplicemente osservare che ogniqualvolta si nega un qualunque valore
alla tesi secondo cui il Cristo (o chi per lui) sarebbe stato un politico
rivoluzionario, e che furono i suoi discepoli (o forse solo alcuni di essi,
quelli che alla fine prevalsero) a trasformarlo in un redentore morale, di fatto
si finisce con lo schierarsi apertamente dalla parte di chi non ama che vengano
messi in discussione i poteri politici acquisiti della chiesa romana.
Una posizione del genere, per quanto documentata e forbita possa presentarsi
al lettore, non ha alcun valore esegetico.
Infatti se un intellettuale cattolico deve limitarsi a usare le migliori
acquisizioni della critica redazionale protestante solo allo scopo di difendere
uno status quo clericale, allora sarebbe quasi meglio che affidasse unicamente
alla forza della fede e della tradizione – come fanno appunto gli ortodossi – il
valore della propria confessione.
Gli intellettuali cattolici, sotto questo aspetto, appaiono come lacerati da
un conflitto di coscienza: non hanno il coraggio protestante di un affronto
disincantato delle fonti neotestamentarie e non hanno neppure il coraggio
ortodosso di sostenere che la forza della fede non può poggiare su principi
politici.
Una questione ermeneutica
Purtroppo il Barbaglia, preso com’è a difendere privilegi acquisiti, non s’è
accorto che quando si vuole sostenere con caparbietà la tesi secondo cui le
fonti cristiane a nostra disposizione sono antichissime, risalenti addirittura
al I secolo, quindi vicinissime ai fatti narrati; quando si vuole sostenere
questo proprio allo scopo di dimostrare che i cristiani credettero subito nella
resurrezione del Cristo e nella sua figliolanza divina, e che quindi non ci fu
affatto una falsificazione tardiva, operata quando tutti i protagonisti della
prima generazione erano già morti, non ci si accorge che se davvero le fonti
storiche risalgono al I secolo, noi dobbiamo inevitabilmente concludere che la
falsificazione del messaggio di Cristo iniziò subito dopo la sua morte, tra i
suoi stessi seguaci, all’interno di quella inspiegabile tomba vuota.
La tesi di questi intellettuali cattolici si ritorce come un pericoloso
boomerang contro la stessa credibilità della chiesa cristiana, la quale verrebbe
a poggiare le propria fondamenta su una falsificazione ancora più antica di
quello che si credeva.
Il Nuovo Testamento è nato per rassicurare i romani che i cristiani non erano
“nazionalisti” come gli ebrei, ma “cosmopoliti”; non erano interessati alla
“politica” ma alla “religione”; non si rivolgevano “alla carne e al sangue” ma
alle “potenze dell’aria”.
Oltre Cascioli?
Posta tale questione ermeneutica, risulta davvero necessario, per poter
attribuire un carattere rivoluzionario al Cristo, riferirsi a un personaggio
extracanonico? Perché temere che, nell’utilizzare le medesime fonti
neotestamentarie, non si sarebbe potuto ugualmente dimostrare la presenza di
tale aspetto nella predicazione del Cristo? Forse che l’esegesi cristiana oggi,
alla luce della moderna critica testuale, è in grado di stabilire con sicurezza
incontrovertibile che il Cristo non fosse quel rivoluzionario che era?
Gli intellettuali laici hanno forse timore di farsi mettere in crisi dalle
osservazioni di Barbaglia, che si diverte a ridicoleggiare le tesi dell’agronomo
Cascioli, ipotizzando soluzioni interpretative opposte? Così infatti scrive
nella nota 103: “Per quanto i cristiani dei primi secoli avessero la
preoccupazione di mostrare un’immagine forte di un cristianesimo battagliero
contro l’eresia, attribuendo azioni di coraggio agli apostoli e mettendo in
bocca parole violente allo stesso Gesù al fine di legittimare una propria guerra
di religione, non sono riusciti ad occultare la vera essenza del messaggio e
della prassi di Gesù e del suo gruppo, di natura pacifica e non violenta, in
opposizione all’uso della forza e secondo una separazione radicale tra Cesare e
Dio!”.
Peccato che il Barbaglia non ci dica dove i cristiani avrebbero fatto questo,
quando si sarebbero comportati così. Questo gioco delle possibilità teoriche
astratte poteva andare bene tra i sofisti al tempo di Socrate: di fatto tutto il
Nuovo Testamento presenta il Cristo e i cristiani in maniera tale che i poteri
dominanti (quelli romani) non avevano nulla di cui preoccuparsi.
Oltre Barbaglia?
Contestare Cascioli per aver detto che il Cristo dei vangeli non è mai
esistito, e ribadire la tesi del Cristo redentore, rispecchia una posizione
superata, che non fa progredire di un millimetro la ricerca storica.
È assurdo pensare che non ci possono essere falsificazioni intorno alla
vicenda di Cristo proprio perché il soggetto in questione è “figlio di dio”! O
che una tesi non ha alcun valore argomentativo finché non è dimostrata da fonti
storiche inoppugnabili.
Noi viviamo a duemila anni di distanza dai fatti che vogliamo cercare di
capire. Persino di fronte a un incidente stradale di cui siamo testimoni
oculari, spesso dobbiamo costatare versioni opposte.
Dunque, se può anche essere giusto contestare a Cascioli che per sostenere il
lato rivoluzionario del Cristo non era necessario negargli l’esistenza, si
sarebbe comunque fatta più bella figura formulando nuove domande interpretative:
p.es. perché la rivoluzione del Cristo fallì? Perché dopo la sua morte non fu
proseguita? Perché si fece di un evento politicamente insignificante (la tomba
vuota) il fulcro di tutta la sua predicazione? Se la rivoluzione di Cristo fu
politica e non religiosa, come si configura il ruolo di Giuda?
Ma se da Nazareth non può venire nulla di buono, potrà venire qualcosa di
buono da un seminario di Novara?
Fonti
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