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IL PATIBOLO DI AJTMATOV
Il patibolo di Čingiz Ajtmatov è un romanzo impegnato, immerso in problemi sociali, alla ricerca di una mediazione tra passato naturalistico-rurale e presente tecnologico-industriale. Ciò che qui si vuole prendere in esame è il sogno o la visione dell'allucinato Avdij Kallistratov, ex-seminarista in odore di eresia, che, sulla scorta del celebre modello di Bulgakov in Il maestro e Margherita, s'immagina un ipotetico dialogo fra Cristo e Pilato, prima che questi emetta la sentenza capitale. Naturalmente bisogna premettere che l'autore kirghiso è un romanziere, non uno storico, per di più interessato a cercare in una metafisica idealistica la chiave che lo aiuti a superare la sua concezione pessimista della vita, che nel conflitto uomo/natura vede nel primo dei due termini il vero problema. Poiché egli è incline al mito e alla leggenda, siamo costretti a concedergli varie licenze poetiche, ovviamente nei limiti del possibile. Egli cioè può anche equiparare, simbolicamente, Cristo alla verità e Pilato alla sete di potere; può anche presentarci un Cristo filosofo, eccessivamente ossequioso nei confronti del suo carnefice, disposto a parlare con un governatore superstizioso e certo non meno metafisico di lui; può anche farci credere che il messia altro non sia stato che un "veggente-vagabondo", pronto a sacrificarsi per il bene dell'umanità. Ma tutto ciò ha un limite, deve per forza averlo, altrimenti si ricade, contro le migliori intenzioni che possiamo avere, nelle classiche tesi del cristianesimo bimillenario, che del "vangelo di Cristo", in realtà, ha fatto quello che ha voluto, nella convinzione di poterne avere un indiscusso privilegio esgetico. Quando si parla di questioni religiose (e Ajtmatov si dichiara ateo), bisogna sempre stare attenti a quel che si dice, poiché ci sono appunto duemila anni di falsificazioni pronte ad accoglierci nelle loro spire, anzi nel loro "patibolo". Ora, la prima cosa che non si deve fare è proprio quella di considerare il Cristo dei vangeli come storicamente attendibile. Se proprio lo si vuol fare - direbbe Lenin - non lo si scriva in un libro. In effetti i vangeli (siano essi canonici o apocrifi) altro non sono che una ricostruzione tendenziosa di avvenimenti dei quali possiamo immaginare qualcosa di realistico soltanto cercando di decodificare le loro falsificazioni. P.es. stando ai Sinottici (in Gv 12,17-42 la cosa è più sfumata, in quanto si possono intuire delle spaccature all'interno del Sinedrio e della folla gerosolimitana), tutto il popolo della capitale della Giudea, aizzato dai sacerdoti del Tempio, era avverso alla predicazione del Cristo: infatti, pur avendolo accolto trionfalmente durante l'ingresso messianico delle palme, lo si rifiutò subito dopo. Ajtmatov, che certo non vede di buon occhio il concetto di "massa", è d'accordo con questa tesi. E' incredibile pensare che se davvero ci fosse stata un'opposizione così massiccia, Gesù avrebbe cercato ugualmente di porsi alla testa di un movimento di liberazione nazionale, per un'insurrezione armata contro le temute legioni romane, oppure che, di fronte a un mutamento improvviso della sorte, dovuto al tradimento, egli non abbia fatto di tutto per sottrarsi alla cattura. Noi non possiamo pensare come realistiche né l'immagine di un Cristo irresponsabile, avventurista, incapace di valutare le forze in campo, né l'immagine mistica di un Cristo martire, che vuole a tutti i costi autoimmolarsi. Se Cristo, a dispetto del mandato di cattura che pesava sulla sua testa, decise di entrare lo stesso a Gerusalemme nell'imminenza della pasqua, lo fece perché evidentemente riteneva di avere buone possibilità di vincere la partita, sia contro Roma che contro gli ambienti giudeo-collaborazionisti. Fino alla notte tragica del tradimento e persino durante il processo-farsa di Pilato (che durò un'intera mattinata, a testimonianza della difficoltà ch'egli ebbe di giustiziare un leader così popolare), egli può aver atteso qualcosa a lui favorevole. D'altra parte con chi poteva sperare di vincere la più grande potenza schiavista della storia se non con l'aiuto delle masse popolari? Se veramente ci fosse stato un irriducibile e generale rifiuto al suo progetto di liberazione, il Sinedrio (o comunque la sua parte più reazionaria) non avrebbe deciso di consegnarlo a Pilato, ma, come nel caso di Stefano, l'avrebbe giustiziato in proprio. Gesù dunque non fu un "vagabondo profeta" (come vogliono Ajtmatov e, un po' meno laicamente, i quattro vangeli), ma un leader politico che, come tale, faceva leva sull'appoggio delle masse, e anche su quello di alcuni capi politico-religiosi (p.es. Nicodemo, Giuseppe d'Arimatea, Giairo). L'idea di un Cristo che spontaneamente va incontro alla morte, per redimere l'umanità dai propri peccati, fa già parte di quel mito che vede in lui una figura del tutto spoliticizzata. Pilato in realtà aveva timore della folla (a questa infatti dovrà concedere, su richiesta, la liberazione del terrorista Barabba): solo che nei vangeli l'unica folla che appare è quella strumentalizzata dalle autorità religiose e sinedrite. Egli fu indotto a recitare la parte del giusto giudice - da perfetto burattinaio qual era - a motivo del fatto che i seguaci del messia erano tanti, e fino all'ultimo momento sarebbe stato impossibile anticipare il verdetto. La stessa flagellazione non venne ordinata coll'intenzione di liberare il detenuto, minacciandolo di morte, eventualmente, in caso di recidiva, ma, al contrario, per demoralizzare i suoi sostenitori, che al vederlo ridotto a brandelli non l'avrebbe più ritenuto in grado di dirigere il movimento. I vangeli descrivono abbastanza benignamente il ruolo di Pilato, e anche la sua persona (ritenuta vittima di circostanze avverse), sia perché egli è un "romano" col quale i cristiani post-pasquali vogliono andare d'accordo, sia perché essi hanno tolto al Cristo qualsiasi caratteristica eversiva. Un Cristo impolitico - affermano i vangeli - avrebbe anche potuto essere liberato; non lo fu soltanto perché Pilato, per convenienza e opportunismo, voleva accontentare i riottosi sacerdoti del Tempio, che minacciavano di denunciarlo se si fosse comportato diversamente. Questa - com'è ormai noto all'esegesi laica - è una ricostruzione di comodo che può aver fatto soltanto una comunità già disimpegnata sul terreno politico, già rinunciataria nei confronti di soluzioni e modalità rivoluzionarie. Pilato - sostiene Ajtmatov - fa uccidere Cristo per non entrare "in una sgradevole polemica col sommo pontefice Caifa". Noi però ci chiediamo il motivo per cui sia così difficile accettare l'idea di vedere in questi due rappresentanti del potere una tacita intesa basata su motivazioni diverse ma non opposte. Non rischiavano forse entrambi di perdere il loro potere, nel caso in cui l'insurrezione fosse riuscita? Perché è così problematico immaginare, quando sono in gioco i destini della democrazia, che due opposte dittature possano trovare un accordo vantaggioso per entrambe? La contrapposizione di verità (Gesù) e potere (Pilato), estrapolata dal testo giovanneo, viene posta da Ajtmatov a fondamento della sua concezione della politica. Essa in parte è accettabile, in parte no. Da un lato infatti il potere di "Cesare", cioè quel potere che fa gli interessi solo di una o più élites privilegiate, è sempre un potere oggettivamente falso, anche quando i suoi singoli rappresentanti sono moralmente irreprensibili (non a caso il Cristo risponde all'intenzione teorica di Pilato di liberarlo, ch'egli in realtà non potrebbe fare un bel nulla se non gli venisse concesso da un'istanza superiore, e sarebbe stato difficile che un Seiano o un Tiberio, a fronte di un caso di insurrezione armata, gli avrebbero concesso una libertà del genere). Dall'altro però, quando si crede (come il Giovanni manipolato fa credere nel suo vangelo) che per vincere il potere di Cesare sia sufficiente "predicare la verità", allora si cade nell'utopia. Il potere falso va combattuto con un potere vero, non con la mancanza di potere. Il potere di una classe va combattuto con quello di un'altra classe, i cui interessi coincidano con quelli della stragrande maggioranza dei cittadini e dei lavoratori: non basta "predicare filosoficamente la verità", occorre anche organizzare le masse che devono prendere il potere e difenderlo una volta preso. Se Cristo non avesse lavorato in questa direzione, non sarebbe apparso così pericoloso e non avrebbe fatto una fine così orrenda. Non accettare un Cristo politico significa accettare, alla fine, il modello offerto dai vangeli: non c'è alternativa. Nei vangeli il Cristo viene ucciso non perché leader politico affermato, ma per paura che lo diventi. Solo che la comunità cristiana s'è ben premurata dal precisare che la politicità di questo messia avrebbe dato fastidio più al potere religioso del Tempio che non a quello politico-militare dell'impero. Secondo gli autori dei vangeli il Cristo doveva essere ucciso perché s'era fatto "figlio di dio": l'accusa di volersi fare anche "re politico d'Israele" fu solo un pretesto escogitato dal Sinedrio per poterlo far condannare più facilmente da Pilato. La pretesa di dichiararsi "figlio di dio" - dicono i vangeli - non poteva essere accettata dai preti del Tempio, proprio perché con essa Gesù veniva a porsi, automaticamente, come loro capo spirituale. Questo modo di vedere le cose, che Ajtmatov accetta con troppa disinvoltura, è falso per due ragioni. La prima già l'abbiamo detta: una comunità che ha rinunciato alla lotta rivoluzionaria non può sostenere che il Cristo sia stato ucciso per motivi politici (vedi però l'iscrizione posta da Pilato sulla croce). La seconda è di tipo ideologico. La questione della presunta "figliolanza divina" di Gesù va interpretata assai diversamente da come ha fatto sino ad oggi la pubblicistica confessionale. Il titolo "figlio di dio" va colto nella sua accezione o valenza ateistica non religiosa. Con esso (ammesso e non concesso che sia mai stato usato dal Cristo) egli non voleva porsi a capo della casta sacerdotale ma, al contrario, voleva superare il ruolo alienato e alienante del sacerdozio, la sua pretesa funzione mediatrice tra uomo e dio. Il titolo stava semplicemente ad indicare che se un uomo pretende d'essere come dio (cioè in grado di stabilire la differenza tra bene e male), egli non ha più bisogno di alcun dio, né di coloro che pretendono di porsi come suoi portavoce. L'uomo è dio a se stesso, tant'è che Gesù preferiva definirsi col titolo, molto più laico, di "figlio dell'uomo", che voleva dire "uomo del popolo", "popolano". Duemila anni fa l'unico modo di manifestare il proprio ateismo, in una società culturalmente strutturata sull'idea del più rigido monoteismo, era appunto quella di dire che tutti gli uomini sono "dèi" (Gv 10,34): non per nulla gli ebrei lo accusavano di bestemmiare, poiché abbassava dio al rango dell'uomo o alzava l'uomo al rango di dio, e più volte cercarono di lapidarlo, senza neppure pensare di consegnarlo a Pilato. D'altra parte i tempi erano molto diversi dai nostri: si pensi che per il politeismo pagano (in questo nettamente inferiore al giudaismo) la semplice adorazione di un dio invisibile (non rappresentato da statue o altri simulacri), già costituiva una forma di "ateismo", e sulla base di questo assunto il potere romano perseguitava i cristiani, anche perché erano proprio gli imperatori che ad un certo punto presero a fregiarsi in maniera esclusiva del titolo di "figlio di dio". Va comunque precisato che Ajtmatov non sposa le tradizionali posizioni dell'ideologia cristiana: egli parla attraverso un eretico ex-seminarista, il che, per lui, sta a significare una maggiore libertà di pensiero, più tolleranza verso quella parte del genere umano diversamente pensante. Per l'autore la verità non appartiene ad alcuna chiesa né ad alcuna persona in particolare. Essa trionferà lentamente ma inevitabilmente, alla fine della storia, sulla base della sconfitta del "potere di Cesare", e quindi in mezzo a tragedie d'incalcolabile portata.
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Le immagini sono state prese dal sito Foto Mulazzani (sezione Natura/Fiori)