LE COSE ESSENZIALI PER VIVERE E RIPRODURSI

TEORIA
Etica Filosofia Antropologia Pedagogia Psicologia Sociologia Ecologia Logica Ateismo...


LE COSE ESSENZIALI PER VIVERE E RIPRODURSI

I - II - III

Val davvero la pena conoscere la storia delle civiltà che hanno distrutto la natura e altre civiltà (umane e disumane)? Davvero pensiamo che lo studio di aspetti negativi della storia possa servirci per non ripeterli? E allora perché ancora oggi presentiamo l'epoca cosiddetta "preistorica" come una fase da cui era necessario uscire per creare le civiltà? Perché vediamo gli uomini primitivi non in funzione di quello che erano ma di quello che dovevano diventare?

Oggi forse, considerando i disastri delle ultime due civiltà (quella capitalistica e questa socialista di stato, cui si sta aggiungendo quella socialista di mercato, stando almeno all'esperienza cinese), sarebbe meglio conoscere, della storia, solo quelle cose che ci possono aiutare a uscire dalle civiltà cosiddette "antagonistiche", quelle che si sono venute formando a partire dagli Egizi e dai Sumeri.

Noi oggi studiamo le civiltà cercando di scorgere in esse le radici della nostra. Siccome ci sentiamo autoreferenziali e ai vertici del progresso mondiale, quando studiamo il passato, noi in realtà studiamo sempre noi stessi, il nostro passato di occidentali, borghesi, mercanti, affaristi, il nostro passato di tecnici, ingegneri, architetti o di scienziati, militari, dirigenti di qualcosa di produttivo, dominatori di qualcosa d'importante, propagatori di idee assolute e universali...

Noi studiamo la nostra infanzia, la nostra adolescenza, per compiacerci di quello che siamo oggi. Cerchiamo nel passato solo delle conferme per il nostro presente. Facciamo questo perché siamo convinti che non ci possa essere un futuro diverso dal nostro presente; siamo convinti che al nostro sistema di vita non ci possa essere alternativa, sia perché - consciamente o inconsciamente - lo riteniamo il migliore, sia perché, in ogni caso, lo riteniamo invincibile, indistruttibile, almeno se messo a confronto con altre civiltà antagonistiche contemporanee.

Siamo troppo forti economicamente, troppo potenti militarmente perché qualcuno possa credere di abbatterci. Chiunque pensi di farlo, non farà che rafforzarci, perché offrirà soltanto pretesti alle nostre continue esigenze di imporre le nostre ragioni con l'uso della forza (ammantata, naturalmente, con le vesti del diritto).

Siamo una civiltà violenta per definizione e se qualcuno cerca di difendersi da noi, noi diciamo che si sta violando la pace, la democrazia, il diritto internazionale. Chi cerca di modificare lo status quo, in cui noi abbiamo un ruolo privilegiato, si mette dalla parte del torto. Noi siamo come i Greci e i Romani, che consideravano "barbari" tutti quelli che non erano come loro.

Chiunque voglia distruggerci usando la forza, perirà miserabilmente. Quante volte abbiamo detto, nei conflitti regionali da noi stessi fatti scoppiare: "Abbiamo armi sufficienti per farvi tornare all'età della pietra"? Che poi questa frase piace di più ai militari che non agli affaristi, che preferiscono invece l'altra: "Non vi preoccupate delle distruzioni; abbiamo mezzi per ricostruire tutto: basta che paghiate".

Solo una civiltà più forte della nostra potrebbe impensierirci, ma in questo momento dov'è? Neppure se tutti i musulmani del mondo si alleassero, sarebbero più forti di noi. Forse se lo facessero Cina, Russia e India (che insieme, quanto a risorse umane e materiali, fanno quasi la metà dell'umanità), ma per una cosa del genere ci vorrebbero dei secoli.

Noi siamo omogenei, loro no. Noi siamo gerarchici, loro no. Da noi tutto l'occidente è sotto la tutela militare ed economica degli Usa. L'India potrebbe mai esserlo della Cina? o la Cina della Russia? Prima che esista un'alternativa all'occidente, occorre che in oriente la Cina (che in questo momento, dei tre suddetti colossi è la più forte, anche se le maggiori risorse energetiche sono della Russia) s'imponga con la forza sugli Stati limitrofi, ma anche per questo ci vorranno dei secoli.

E in ogni caso, quando arriverà quel momento, noi avremo soltanto ottenuto la sostituzione di una civiltà con un'altra. Non avremo fatto neanche un passo avanti in direzione dell'umanizzazione dei nostri rapporti sociali. Ecco perché dobbiamo studiare sin da adesso il modo di uscire non solo dall'occidente, ma anche dallo stesso concetto di "civiltà". Noi dobbiamo studiare tutto quanto ci serve per non apparire "civili", tutto quanto ci serve per diventare "barbari" e "selvaggi".

Dovremmo anzitutto chiederci quali sono le cose assolutamente essenziali che ci permettono di sopravvivere e a cui non potremmo rinunciare per alcuna ragione. Vediamole: aria pulita, acqua pulita, una fonte di calore, una fonte di luce, un mezzo ecocompatibile per muoverci, uno spazio in cui vivere, un rapporto equilibrato con la natura e con gli animali, un'occupazione utile alla collettività, degli abiti con cui vestirci, la possibilità di riprodurci.

E poi cosa? Cosa di veramente essenziale oltre a questo? La possibilità di prendere decisioni comuni, la necessità di rispettare l'altro per quello che è e di ricondurre ogni azione alla valorizzazione dell'umano che è in noi.

E poi cosa? Cosa di veramente irrinunciabile oltre a questo? Avere dei libri da leggere? una musica da ascoltare? un film da vedere? la possibilità di coltivare l'arte, la cultura, lo svago, il tempo libero, il divertimento...? Pensiamoci bene, perché su questo ci divideremo. Bisognerà essere ben consapevoli che non si possono pretendere cose che altri non possono avere, né, tanto meno, si può pretendere il surplus quando a tutti non viene garantito neppure l'essenziale.

Dovremmo fare un discorso serio, impegnato, collettivo, su ciò che è veramente essenziale per riprodursi e ciò che invece è futile, facoltativo, secondario... Se partissimo dall'idea di consumare ciò che produciamo, ridurremmo al minimo le spese, gli sprechi, il superfluo. Se ci chiedessimo, ad ogni nostra azione, in quale altra maniera meno dispendiosa avremmo potuto farla (meno impattante sull'ambiente), avremmo sicuramente molto più rispetto della natura.

La parola "sviluppo" va bandìta dal vocabolario ecologista, poiché essa si riferisce unicamente a parametri quantitativi, che sono i primi a negare uno sviluppo qualitativo della coscienza, della dignità umana. La qualità della vita non può sottostare agli indici quantitativi del prodotto interno lordo, anche perché è immorale vedere che un alto indice di produttività può essere compatibile con un alto indice di disoccupazione o che, in ogni caso, la piena occupazione resta un miraggio a prescindere da qualunque indice di produttività.

Se vivessimo non al di sopra delle nostre possibilità, senza sognare che vi sia sempre qualcuno che risolverà i nostri problemi, evitando con cura di scaricare sulle generazioni future il compito di sanare i nostri disastri, noi capiremmo meglio il concetto di responsabilità. Noi, in questa civiltà, siamo abituati a rifiutare la responsabilità personale delle nostre azioni e a delegarla sempre allo Stato, al sistema, alle istituzioni...

Noi non potremmo permetterci neanche lontanamente il benessere che abbiamo, se sotto di noi non vi fosse l'80% di umanità da sfruttare. Sono 500 anni che andiamo avanti con questo sentimento di dominio internazionale (e per altri 500, nel basso Medioevo, l'abbiamo preteso a livello di Mediterraneo, per non parlare degli altri 500 della Roma imperiale). E pretendiamo ancora oggi di porci come modello per gli altri, quando, se davvero gli altri si comportassero come noi, noi saremmo in una condizione di guerra permanente.

Che poi, in un certo senso, lo siamo lo stesso, con la differenza che i conflitti regionali non sono a casa nostra (se non indirettamente, quando ammazzano i nostri militari o quando ci ritornano indietro devastati nella loro psiche) e se ce li fanno vedere troppo alla televisione, ce ne stanchiamo abbastanza in fretta.

ANDARE AVANTI O FERMARSI?

Se c'è qualcosa di poco naturale è il nostro impatto sulla natura. Per quale motivo? Non siamo animali, abituati a prendere la natura come un dato di fatto. Le cose ci piace trasformarle. Il problema semmai sta nel fatto che, quando lo facciamo, non ci chiediamo mai fino a che punto possiamo farlo. E questo non è naturale.

Noi siamo convinti che tutta la natura sia a nostra completa disposizione e non pensiamo mani di dover vivere in maniera conforme a natura, anche se ci diciamo che dovremmo farlo e, a volte, c'illudiamo di farlo davvero nei nostri momenti liberi. Sin da piccoli ci dicono che l'umano è del tutto superiore al naturale, ed è appunto così che diventiamo disumani, nemici non solo della natura, ma anche di noi stessi.

Tuttavia, uno si potrebbe chiedere: perché non sviluppare al massimo le nostre potenzialità quando avvertiamo benissimo di possederle? A una domanda del genere la risposta non può essere data astrattamente, poiché in tal caso sarebbe evidente la sua scontatezza. Sul piano pratico invece dovremmo chiederci: qual è il prezzo che in nome del nostro progresso siamo disposti a pagare? Siamo davvero convinti che il prezzo sia quello giusto? Per noi e per tutti quelli come noi?

In genere siamo poco propensi a considerare che, per qualunque domanda ci poniamo, abbiamo sempre a che fare con uno spazio e un tempo abbastanza determinati. Non possiamo far finta ch'essi siano relativi. Il nostro pianeta ha vissuto un lunghissimo periodo in cui noi non esistevamo, cioè noi siamo venuti al mondo soltanto dopo che le condizioni di abitabilità erano del tutto formate, indipendentemente dalla nostra volontà.

Se fossimo nati quando ancora esisteva la Pangea, sarebbe stato diverso: ci saremmo sentiti più autorizzati a considerare la natura un "nostro prodotto". In teoria quindi dovremmo avere l'impressione contraria, quella di essere noi un "prodotto della natura", cioè ospiti in casa sua. Di fatto però ognuno di noi si rende facilmente conto di non poter essere considerato esattamente un "prodotto della natura". Ovvero, anche supponendo che lo fossimo, dovremmo comunque dire che siamo un prodotto molto particolare, in grado d'incidere in maniera significativa sugli stessi processi naturali.

Insomma, noi dovremmo essere così intelligenti da dire che, pur potendo fare della natura un "nostro prodotto", ci asteniamo dal farlo, in quanto siamo consapevoli delle conseguenze pericolose connesse a questa pretesa. Invece ci comportiamo come se di queste conseguenze non c'importi proprio nulla.

Una piccola parte dell'umanità, con dei ritmi di crescita incredibilmente spaventosi, ha imposto all'umanità intera delle condizioni d'esistenza che di umano e di naturale non hanno nulla. Per sostenere le esigenze di lusso, comodità, spreco di una piccola parte, si è obbligata l'altra alla fame, alla precarietà, alla miseria. Chi vuol vivere oltre i propri mezzi e le proprie possibilità obbliga tutti gli altri a servirlo come schiavi. Quel che noi padroni chiamiamo "progresso", per tutti gli altri è solo un insopportabile "regresso" verso la barbarie.

Questo divario così imponente tra alcune aree del pianeta e altre, anche se lo si riducesse, permettendo a quelle in sofferenza di fruire di maggiori comodità e opportunità, non potrebbe mai arrivare a una completa uniformità e omogeneità, cioè a eliminarsi del tutto, proprio perché esso presuppone una differenza sostanziale tra chi può e chi non può. L'attuale progresso del capitale (perché è di questo che stiamo parlando) sfrutta anzitutto le disuguaglianze in atto e, per sopravvivere, ne produce sempre di nuove: p. es. tra chi possiede beni materiali o conoscenze specialistiche e chi no.

Questo stile di vita planetario porta necessariamente a continui conflitti e rivalità: il fatto stesso che l'umanità abbia già sperimentato due guerre mondiali sta a significare che il nostro stile di vita è stato esportato in tutto il mondo e che non è più possibile risolvere a livello locale i problemi ch'esso è riuscito a creare. Tutto sembra maledettamente interconnesso. Nessuna area geografica è in questo momento in grado di risolvere da sola i propri problemi.

La vita produttiva e riproduttiva è stata completamente sconvolta, tanto che nessuno è più padrone in casa propria. Tutti fanno qualcosa non per se stessi, ma per qualcuno che neppure conoscono e che neppure riescono a vedere come nemico da combattere. "Chi vi ha ridotti così?", ci stanno chiedendo gli ultimi seguaci di Polifemo, nascosti nelle ultime foreste equatoriali. E noi siamo costretti a rispondere: "Nessuno".

Se oggi qualcuno arrivasse a dirci che dobbiamo "uscire dal sistema", potremmo addirittura interpretare la sua richiesta come un invito ad abbandonare il nostro pianeta. Ma se anche questo fosse possibile, il problema è che non possiamo portare lo stesso stile di vita nell'universo. E' assurdo pensare che quanto non siamo stati capaci di realizzare su questo pianeta, riusciremo a farlo su altri pianeti. Le cose che non funzionano nel piccolo, non funzionano neppure nel grande. Se non siamo capaci di rispettare le regole della nostra sopravvivenza su questo pianeta, non ci verrà naturale farlo in una dimensione extra o ultraterrena.

Dobbiamo necessariamente rieducarci, qui ed ora. Cioè dobbiamo anzitutto capire che le condizioni ambientali del contenitore in cui vogliamo porre i nostri contenuti sono assolutamente prioritarie su tutto. Qualunque sostanza che non rispetti la forma in cui deve esprimersi, va considerata pericolosa, nociva alla salute, ambientale e psico-fisica. Se non si controlla costantemente che questo adeguamento della sostanza alla forma avvenga nel rispetto di condizioni prestabilite, si rischia d'innescare dei meccanismi perversi, che si automatizzano, che si autoalimentano, come una reazione nucleare a catena, sottraendosi a qualunque volontà umana.

Con questo ovviamente non si vuol sostenere che non debba esserci alcun progresso scientifico, ma semplicemente che tale progresso deve rispondere a esigenze determinate dall'ambiente naturale. Oggi il progresso sembra non incontrare ostacoli di sorta, ma ciò avviene perché noi non sappiamo più cosa voglia dire "ambiente naturale". E la nostra scienza non è certamente in grado di riprodurlo: p. es. anche quando volessimo tornare integralmente all'uso dell'energia solare, lo faremmo con dei materiali così sofisticati che in definitiva risulterebbero del tutto estranei alla natura ed essa non saprebbe come riciclarli.

Siamo arrivati a un punto in cui fermarsi non sembra essere possibile e andare avanti significa soltanto autodistruggersi. Ma è sbagliato pensare che, prima di ricominciare da capo, si debba attendere una nuova catastrofe epocale. Noi dobbiamo assolutamente porre le condizioni per le quali ogni cosa che ci riguarda, ricada direttamente sotto la nostra personale responsabilità.

UNA VOLTA PUO' BASTARE

La caratteristica fondamentale della cultura euro-occidentale, trasmessasi, nell'ultimo mezzo millennio, a tutto il mondo, è quella d'essere individualistica, cioè refrattaria a un controllo da parte di qualsivoglia autorità o collettività. L'unico collettivo che si ammette è il gruppo borghese di appartenenza, e lo Stato serve appunto a tutelare interessi di classe o di casta privilegiata.

Una cultura del genere tende inevitabilmente a minimizzare le questioni etiche e a fare dell'idea di progresso il suo idolo da adorare. Chi è solo contro tutti ha bisogno, per affermarsi con successo, di bruciare le tappe, di anticipare i tempi in qualunque aspetto della sua vita, altrimenti teme di non farcela e di subire gli effetti della concorrenza. Ce lo sentiamo dire un milione di volte che se non sappiamo affrontare la competizione, il nostro destino è segnato.

Le idee scientifiche e le realizzazioni tecnologiche che ha messo in campo l'occidente hanno dimostrato che l'uomo possiede capacità illimitate, ma hanno anche dimostrato la sua grande pericolosità. Proprio perché individualistica e priva di etica la cultura occidentale andrebbe fermata per il bene dell'umanità e della natura.

In sé la sua scienza e tecnologia non possono essere considerate negativamente, ma lo diventano subito quando vengono messe in relazione all'uso che se ne fa. Infatti, non avendo alcuna vera etica, la scienza e la tecnica vengono utilizzate soltanto per acquisire un potere, non per risolvere problemi fondamentali per la sopravvivenza dell'umanità.

Una cultura individualistica non è in grado di stabilire obiettivamente delle priorità favorevoli a interessi collettivi. Le principali priorità sono sempre quelle relative alla conservazione del potere (politico, economico, militare) e, ovviamente, alla sua ulteriore crescita. Guai se questo potere dovesse diminuire.

Chi è abituato ad avere tutto, cioè molto di più del necessario, di fronte alla perdita di qualcosa ha sempre l'impressione che sia l'inizio di una catastrofe e, per questa ragione, può avere reazioni scomposte, sproporzionate rispetto all'effettiva gravità del problema. Abbiamo già fatto due guerre mondiali basandoci su delle percezioni negative. Le stesse borse mondiali, ove girano fiumi di denaro e dove quindi il senso della sicurezza dovrebbe essere massimo, sono le più sensibili ai mutamenti d'umore, alle impressioni psicologiche, alle dichiarazioni equivocabili.

La cultura occidentale ha perso il senso della misura, cioè il significato della presenza umana sul nostro pianeta. Sottomettendo arbitrariamente qualunque processo naturale, essa, schiava della propria artificiosità, non sa più cosa sia il senso dell'umanità.

Con questo non si vuol dire che non avrebbe dovuto esserci uno sviluppo scientifico e tecnologico, ma soltanto che non avrebbe dovuto esserci in questa maniera, cioè privandolo di eticità e finalizzandolo unicamente a interessi di dominio. In particolar modo gli Stati Uniti appaiono come un'Europa occidentale portata all'eccesso. E quello che sta avvenendo oggi in Cina, India, Russia, Brasile... è indicativo del fatto che non si vuole trovare alcuna soluzione a questa deriva individualistica, preoccupata unicamente di fare profitti o di vivere di rendita.

La cultura "occidentale" sta minacciando l'esistenza del genere umano, non solo perché un ecosistema sconvolto nelle sue fondamenta, inevitabilmente si ripercuote sulla vivibilità dell'habitat umano, ma anche perché le popolazioni che subiscono le conseguenze del nostro progresso, senza ricavarne significativi benefici, potrebbero scatenare l'inferno. E quando quel momento verrà, speriamo solo che non vi siano nuovi storici pronti a usare il termine "barbaro" per qualificare quelle popolazioni. L'hanno già fatto per descrivere il crollo dell'impero romano: una volta può bastare.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018