METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICA
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LA STORIA COMPARATA
La storia comparata nasce con Marc Bloch ed Emile Durkheim. Il primo, già con la sua Storia comparata delle società europee, del 1928, in La servitù nella società medievale (La nuova Italia, Firenze 1993, tit. or. Mélanges historiques) cercava nella comparazione le cause comuni di un fenomeno e la reciproca influenza tra società. Il secondo invece era soprattutto interessato alla scoperta di costanti generali, trasversali alle società, oltre le quali non sarebbe neppure esistita una sociologia (cfr Le regole del metodo sociologico, Einaudi, Torino 2001, ma anche Editori Riuniti, Roma 1996). Questo modo "sociologico" di vedere le cose in realtà non piaceva molto né a Bloch né, tanto meno, a L. Febvre, che preferivano restare legati alle classificazioni tradizionali, per sequenze cronologiche, per aree geografiche o per settori disciplinari. Tuttavia, dai tempi delle Annales ad oggi la storiografia francese ha saputo rifarsi a una tradizione comparativa solo in due settori molto vicini ai metodi della sociologia: la demografia storica e la storia economica quantitativa. P.es. i tre volumi sulla Popolazione mondiale, curati da M. Reinhard, A. Armengaud e J. Dupâquier. Ma anche la Storia delle donne, in cinque volumi, curata da M. Perrot e G. Duby, s'è aperta, in parte, alla metodologia comparativa. In campo economico sono importanti i lavori di F. Crouzet, che, mettendo a confronto Inghilterra e Francia, nel XVIII sec., era arrivato a dire che quest'ultima sarebbe arrivata a diventare una grande nazione capitalistica anche senza l'influsso dell'Inghilterra e che ciò purtroppo fu impedito o ritardato proprio dalla rivoluzione del 1789, che sconvolse un processo di rapida crescita ad essa precedente. Tesi, questa, ovviamente molto contestata, benché ripresa da J. Bouvier. Tuttavia in Francia, nel complesso, la storia comparata non ha mai avuto molti seguaci e le ricerche, pur importanti, di J. Michel, di F. Barbier, di E. François, di M. Garden, di J. L. Pinol, sono rimaste dei casi isolati. Le ragioni del ritardo francese vanno addebitate al fatto che la storiografia francese preferisce restare molto legata alle fonti, in maniera "individualizzante", producendo più che altro storia regionale o locale, trascurando quindi i problemi di tipo "generalizzante", in quanto si teme che modelli o interrogativi troppo teorici possano influenzare, falsandolo, il materiale storico. La storiografia comparativa parte infatti da alcuni interrogativi specifici, formulati prima ancora di metter mano alle fonti, e solo successivamente si mette a indagare su similarità e strutture comuni, al di là del singolo caso, per ricercare infine quei meccanismi generali di movimento delle società. La seconda ragione è ancora più grave: la storiografia francese ha dei paradigmi irrinunciabili di derivazione politica, che hanno sempre condizionato lo svolgimento delle ricerche storiche (la rivoluzione francese, la laicizzazione della società, il significato del marxismo): uno storico doveva anzitutto schierarsi politicamente pro o contro questi eventi. Ed è evidente che se uno storico si schiera a favore di questi eventi, trovava poi delle difficoltà - visto l'enorme ruolo politico avuto in Europa dalla Francia dopo il 1789 - a fare delle comparazioni per così dire "alla pari". Semmai il compito diventava quello di verificare il livello d'influenza della rivoluzione in Europa e nel mondo. La situazione non è certo migliore in Gran Bretagna, dove gli studi di storia comparata, prevalentemente economici, non mettono mai in discussione la superiorità dell'industrializzazione inglese, assunta come "modello paradigmatico" di tutte le altre. Gli storici inglesi pagano inoltre lo scotto di un altro grave problema: l'assenza di una vera e propria "storia nazionale", dovuta molto probabilmente all'impossibilità di assumere il concetto di "Stato-Nazione" come punto di riferimento per fenomeni sociali che vadano oltre l'ambito locale e regionale. Di qui peraltro la mancanza di centri nazionali di ricerca debitamente finanziati. I lavori di J. Zeitlin, R. G. Rodger, J. Foster, E. P. Hennock costituiscono una consolidata tradizione di analisi comparativa incapace di uscire dai confini del loro paese. Probabilmente il campo più finanziato della ricerca comparativa è stato quello della demografia storica, in riferimento ovviamente all'urbanizzazione, date le bassissime percentuali di forza-lavoro agricola. Ma anche qui i risultati sono stati deludenti, in quanto buona parte della storiografia inglese ha continuato a ispirarsi a un presunto eccezionalismo della propria nazione. Persino due tra i principali storici, D. Geary e J. Breully, che si sono dedicati alla storia comparata della classe operaia, sono in primo luogo due specialisti della storia tedesca. Forse l'unico esempio davvero significativo è stato il contributo di Breully sui movimenti operai inglesi e tedeschi della metà dell'Ottocento. Diciamo però che solo molto raramente si è tracciato un legame tra i movimenti politici inglesi e gli altri movimenti europei moderni. Anche l'antropologia, come comparazione delle somiglianze tra pratiche e credenze di popoli primitivi, ha esercitato un'influenza irrilevante sulla storiografia inglese. La stessa storia sociologica, fondata su comparazioni a vasto raggio, che nella Germania di Weber e Sombart incontrò molta fortuna, in Inghilterra è sempre stata vista con sospetto, soprattutto quando la sociologia tende a negare la specificità di ogni esperienza e di ogni processo presi in sé. In questo gli inglesi sono molto individualisti, persino più degli americani. Essi inoltre devono ancora superare dei luoghi comuni, tipici della loro storiografia, il primo dei quali è quello che fa coincidere il declino del paese col carattere inadeguato delle innovazioni tecnologiche, a partire dagli anni Settanta dell'Ottocento. Tutte le responsabilità cioè vengono scaricate sugli industriali e non anche sull'élite terriera. La cultura britannica ha conservato elementi aristocratici che le impediscono di guardare le culture straniere con occhi benevoli, tolleranti. Ecco perché la storia comparata non ha mai messo vere radici in questo paese. In Germania la situazione, almeno finché ha dominato lo storicismo, non è stata delle migliori. La comparazione sistematica veniva perseguita, e con notevoli successi, solo da O. Hintze e M. Weber. Il paradigma storicistico è stato messo in discussione dopo la II guerra mondiale, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalla sociologia (weberiana in primis), dalle scienze politiche e dall'economia. La generalizzazione e la tipicizzazione divennero più importanti della ricostruzione di legami causali individuali. La storiografia, una volta assunti temi quali l'industrializzazione, la formazione dello Stato nazionale, la laicizzazione, le rivoluzioni ecc., divenne più argomentativa e meno narrativa. Ma i lavori erano ancora pochi: di T. Schieder, G. Ritter, H.-U. Wehler. Il funzionamento estremamente specialistico della storiografia tedesca, con la sua predilezione per la stessa storia tedesca, non aiutava lo sviluppo della storia comparata. I tedeschi non si avventurano mai in campi così vasti se prima non sono sicuri di disporre di conoscenze molto approfondite. Le uniche ricerche un po' significative sono state, anche qui, quelle di demografia storica, sull'urbanizzazione ecc. Agli storici tedeschi non piace fare astrazioni senza poter contestualizzare, e quando si fa comparazione si deve per forza fare astrazione. Tuttavia si è sempre più costretti alle ricerche comparate, sia a causa dei processi integrazionistici europei, sia a causa della stessa globalizzazione, che rende il mondo una sorta di villaggio dai confini poco definiti. La Germania, poi, dopo il crollo del muro berlinese, avverte ancora di più il bisogno di recuperare un'identità nazionale ponendosi a confronto con altri paesi. Indubbiamente la metodologia weberiana ha oggi bisogno di profonde revisioni: non è che essa, così com'è, possa aiutare più di tanto la storiografia tedesca. Sia perché l'approccio con cui essa poneva a confronto le cosiddette "civiltà" (euroccidentale e asiatica), oggi è stato superato dagli eventi stessi, in cui appare palese la scelta della via "capitalistica" da parte dei due colossi Cina e India; sia perché Weber realizzava una comparazione di tipo asimmetrico, in cui l'altro veniva usato soltanto per comprendere meglio se stessi. E' l'idea, più o meno manifesta, di una propria superiorità che va oggettivamente rivista. La Germania, più di altri paesi europei, è messa oggi nelle condizioni di favorire gli studi comparativi. I motivi possono essere i seguenti:
Il XX secolo è stato per la Germania un lungo periodo di sconvolgimenti epocali, che hanno posto fine a ogni chiusura aristocratica, a ogni presunta superiorità di "razza e sangue". In questa direzione vanno letti i lavori di W. Berg e di H.-J. Puhle. * * * Quando si prendono in esame due realtà geograficamente distanti, siano esse storicamente coeve o no, l'atteggiamento che si dovrebbe avere non è anzitutto quello di cercare nell'alterità tutto ciò che serve per giustificare la nostra identità. Quando si fa una comparazione di realtà diverse bisognerebbe essere imparziali, guardare le cose obiettivamente, sgombrare la mente dai pregiudizi, dai luoghi comuni, dagli stereotipi culturali. Tuttavia, siccome questa non è la prima cosa che viene in mente o che si riesce a fare, si dovrebbe almeno porsi, specialmente nella fase iniziale dell'approccio, in un atteggiamento di ascolto. Il che non vuol dire attendere delle risposte a delle nostre domande, poiché anche le domande possono essere viziate dai nostri schemi precostituiti. Significa semplicemente lasciare che sia la realtà stessa a interrogarci. Per capire un ambiente dobbiamo permettere all'ambiente di porci delle condizioni di vita. Non possiamo giudicare realtà diverse dalla nostra con gli schemi mentali basati su condizioni di vita in parte o del tutto diverse. Bisogna prima spogliarsi e poi rivestirsi. Quando i capi di stato o anche i pontefici si mettono in testa i copricapi in uso presso le popolazioni che visitano, in tal senso sono piuttosto ridicoli: non per quello che fanno, ma perché dietro questi gesti vi sono in genere intenzioni tutt'altro che rassicuranti. "Spogliarsi per rivestirsi" è un atteggiamento ancor più necessario nel caso in cui si vada a cercare una realtà diversa dalla propria non semplicemente per mettersi a confronto con essa, ma addirittura per viverla come esperienza alternativa alla propria. In tal caso bisogna fare attenzione a non cadere in un atteggiamento schematico alla rovescia: quello cioè che considera tutto "migliore", basta che sia "diverso". La critica radicale del capitalismo portò molti comunisti a non vedere gli orrori dello stalinismo. La stessa paura del comunismo portò molti italiani e molti tedeschi liberali ed anche democratici ad abbracciare il nazifascismo. Oggi p.es. molte persone deluse degli eventi del '68 vedono i fenomeni migratori come una forma di rivalsa contro la società che loro stessi non sono riusciti a trasformare radicalmente. E che dire di quelli che, non volendo accettare le proprie sconfitte quando da giovani militavano a sinistra, hanno poi abbracciato da adulti posizioni di destra? Se c'è una cosa che produce risultati fortemente opportunistici, è proprio la delusione di tipo politico: il che fa pensare che l'ideale giovanile sia stato vissuto con un certo fanatismo ideologico. L'ideologia non è forse una forma di cecità? di chiusura mentale? di rifiuto della diversità? E' l'uomo al servizio del sabato, cioè l'incapacità di mutare atteggiamenti quando le circostanze, coi loro specifici bisogni, lo richiedono. E' curioso però che quanti chiedono di superare gli steccati ideologici, spesso lo dicono per difendere degli interessi di parte, di una parte privilegiata, che ovviamente ha una propria ideologia, quella che appunto serve per difendere tali interessi: un'ideologia celata, nascosta, che non ha bisogno di urlare per farsi sentire, tanto può disporre di tutti i mezzi di comunicazione che vuole. L'ideologia in fondo è anche una concezione di vita, in cui si unisce filosofia a politica, etica a economia, società a cultura. Nessuno può farne a meno. L'importante è non metterla su un piedestallo, non trasformarla in un "assoluto", altrimenti diventiamo come i pagani che adoravano le statue. L'ideologia è anche una concezione della proprietà. In tal senso non si comprende il motivo per cui uno che non possiede nulla dovrebbe rinunciare alla propria ideologia solo perché chi possiede tutto sostiene che la fine della proprietà privata è una tesi ideologica. Fino a che punto si può essere tolleranti, diplomatici, disposti al compromesso? Fino a che punto si può tergiversare su certe cose? L'ideologia dovrebbe finire come pretesa teoretica messa per iscritto, cioè come fonte dogmatica, immodificabile. La scrittura, come noto, fossilizza le situazioni, che invece sono sempre mutevoli. Ma l'ideologia non può finire come concezione di vita in cui l'essere umano è misura di tutte le cose e parte dell'ente natura. Se noi diciamo che gli uomini del passato non hanno potuto porsi le nostre stesse domande fondamentali sul senso della vita, solo perché non avevano le nostre conoscenze scientifiche e capacità tecnologiche, noi siamo "ideologici" in senso negativo, in quanto riteniamo il nostro presente migliore di qualunque passato. In realtà le domande sul senso dell'esistere, sull'essenza umana, sono sempre le stesse, al di là delle risposte che riusciamo a darci. Se non prescindiamo totalmente dalle forme di queste risposte, noi non riusciremo mai a mettere le civiltà storiche, le società, le culture su uno stesso piano. Non siamo noi in grado di comprendere il passato meglio di quanto potessero farlo gli esseri umani che l'hanno vissuto. Potrebbe anzi essere vero il contrario, e cioè che il fatto d'esserci allontanati così radicalmente dal nostro passato, dal rapporto con la natura, ci impedisce di capire adeguatamente noi stessi, al punto che proprio le popolazioni del passato, ignare dei limiti delle civiltà antagonistiche, potrebbero capirci meglio di quanto possiamo fare noi stessi. Loro, i primitivi, potrebbero dirci che cosa effettivamente ci manca per essere umani. Su queste cose bisogna sforzarsi di aver le idee chiare, perché qui è la concezione della storia che si mette in gioco. Passato, presente, futuro sono realtà autonome, legate da un filo comune di cui nessuno tiene in mano i capi: questo filo è semplicemente il rapporto uomo-natura e, nell'ambito di questo, quello tra gli stessi esseri umani. Noi non dobbiamo considerare il presente assolutamente migliore del passato, né assolutamente peggiore. Migliore e peggiore sono categorie astratte. Noi dovremmo chiederci soltanto se l'umanità che è in noi è più o meno vivibile, è più o meno facilmente e profondamente vivibile. In tal senso noi non dovremmo preoccuparci di ciò che di "materiale" andiamo a perdere col tempo. Il fatto che nella storia siano andate distrutte intere biblioteche o dei monumenti che nel mentre venivano fatti erano senza dubbio considerati molto importanti, è del tutto irrilevante ai fini della valorizzazione del senso di umanità presente in ogni essere umano. L'alto Medioevo era infinitamente più umano dell'impero romano, anche se disponeva di mezzi e risorse in misura molto più limitata. Gli storici anzi dovrebbero mettere come regola fondamentale che in genere il tasso di umanizzazione dell'uomo è inversamente proporzionale al volume e soprattutto alla complessità dei mezzi tecnici usati nel rapporto uomo-natura e quindi nelle relazioni interumane. La complessità e il volume sono un indizio di perdita di umanità, in quanto tendono a ridurre il tasso di naturalità delle cose. I mezzi tecnici ammissibili nelle relazioni umane dovrebbero essere gli stessi che mette a disposizione la natura, gli unici privi di controindicazioni. In sé la natura offre a noi maggiori garanzie di umanità di quante ne possiamo offrire noi dandoci dei mezzi artificiali. La diversità tra mezzo artificiale e mezzo naturale è data dal tempo che impiega la natura a riciclarlo, a reintrodurlo nel proprio ciclo vitale, o comunque è data dalla capacità che la natura ha di considerarlo irrilevante in relazione alle proprie esigenze riproduttive. La riproduzione è, se vogliamo, più importante della produzione. Se ciò che si produce non è in grado di riprodursi, il suo valore, ai fini della conservazione dell'essenza della natura e quindi dell'uomo, è nullo, anzi risulta nocivo. Non è importante il prodotto interno lordo, ma quanto di questo prodotto è riproducibile autonomamente. Oggi, nei paesi capitalistici avanzati, questa capacità autoriproduttiva è prossima allo zero, nel senso che tutto dipende dai mezzi artificiali, quelli che l'uomo si è dati senza tener conto delle esigenze della natura. Il destino inevitabile di questo modo di vivere è la desertificazione. Un'automobile non è in grado di riprodursi da sola, a differenza di un cavallo. Occorre l'intervento umano, che da essa può ricavare, quando ha finito il suo ciclo (meccanico o, come sempre più spesso avviene, "economico"), varie cose utilizzabili in altre settori, oggetti, componenti metallici, plastici ecc. Ma ad un certo punto resta qualcosa che non può più essere riciclato. Le presse nei cimiteri delle macchine producono tanti cubi posti uno sull'altro. Rifiuti non più smaltibili, che richiedono sempre più spazio. Il costo dei forni per scioglierli sarebbe superiore al valore ottenuto. I gas di scarico prodotti da questi forni sarebbe anch'esso inquinante, se non venisse incanalato in appositi contenitori. Insomma noi produciamo cose le cui conseguenze ambientali verranno tutte pagate dalle generazioni future, che sicuramente ci malediranno per l'irresponsabilità con cui abbiamo vissuto la nostra vita. Finché si sfruttano le risorse della natura permettendo ad essa di riprodursi facilmente, non c'è problema. Appena si inizia a sfruttarla ben oltre le fondamentali esigenze umane riproduttive, si scatena una reazione a catena da cui spontaneamente non è più possibile uscire. Testi
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