STORIA DELLA SPAGNA - L'assolutismo di Carlo V


Le origini sino al crollo dei Visigoti - La dominazione araba - La riconquista spagnola - I regni di Spagna - Il regno di Granada - La questione ebraica - L'assolutismo di Carlo V - La decadenza - Il declino - L'assolutismo illuminato - La rivoluzione borghese - La liberazione delle colonie - La guerra carlista - La repubblica - La sinistra - La seconda repubblica - La guerra civile - Franco - Il franchismo - La democrazia - Sovrani spagnoli - Scoperta e conquista dell'America - Euskadi - La Pasionaria - Fonti - Dati e Statistiche - La lingua spagnola - Considerazioni


Alla fine del XV sec. la Spagna era un paese unito e sotto i sovrani cattolici erano state poste anche le isole Baleari, la Sicilia, la Sardegna e nel 1504 il regno di Napoli.

La popolazione era compresa tra i 7,5 e i 10 milioni di abitanti. Nonostante il fiorire di talune città, il paese restava prevalentemente agricolo e tecnicamente arretrato, se si esclude la zona di Granada e di Valenza, dove i moriscos (discendenti degli arabi e dei berberi divenuti cristiani) praticavano vaste irrigazioni, la coltivazione dell'uva, delle olive, della canna da zucchero e dove avevano piantato palme da datteri, gelsi e agrumeti.

I grandi allevatori, che avevano dato una netta prevalenza agli ovini, si erano associati in una sorta di "cartello monopolistico", chiamato Mesta, e spadroneggiavano per tutta la penisola, impedendo ai contadini di recintare le loro terre per salvarle dalle rovina del passaggio di milioni di capi.

Carlo V

La Mesta smerciava tantissima lana là dove era fiorente l'industria tessile: Fiandre, Francia, alcune città italiane e hanseatiche. La monarchia appoggiava il cartello perché ne ricavava forti entrate erariali, tanto che già nel 1489 le aveva concesso il diritto di utilizzare i pascoli delle comunità, anzi, addirittura di impadronirsene se i proprietari non protestavano.

Gravati dal peso delle imposte, dal giogo degli usurai e impotenti di fronte a questi allevatori, i contadini, nella prima metà del XVI sec., erano alle corde. La produzione agricola non bastava neppure per le esigenze locali. Tutta la Spagna settentrionale doveva fare ricorso al grano d'importazione.

Nell'Aragona, in particolare, s'era conservato un pesante retaggio feudale. Praticamente i giuristi di questa provincia equiparavano i contadini agli schiavi romani e permettevano ai signori di disporre totalmente della loro vita.

In Castiglia la loro situazione era migliore solo sul piano giuridico ma non su quello socioeconomico, per cui anche qui fuggivano in massa dai loro paesi, oppure si trasformavano in mendicanti, vagabondi, peones (braccianti senza terra) e spesso le leggi del paese li obbligavano a ritrasformarsi in operai con salari da fame. Nel 1585 vi fu una grande rivolta, duramente repressa, nella contea di Ribagorza, sul versante meridionale dei Pirenei.

Le poche tracce di protocapitalismo, nella forma della manifattura sparsa o accentrata, focalizzata sulla produzione di panni, seta, porcellane, sapone..., si trovavano soprattutto nella zona di Siviglia, che fruiva del diritto esclusivo di commercio con le colonie americane. Ma anche Toledo non era da meno, con la sua produzione di armi e pelli, mentre nelle Asturie e in Biscaglia le imprese si specializzavano nella cantieristica navale.

E così altre città: Segovia, Granada, Burgos..., che fornivano viveri, vestiario, armi agli hidalgos (piccola nobiltà) conquistatori del Nuovo Mondo appena scoperto, i quali pagavano in oro e argento.

Naturalmente qui si ha a che fare con una produzione mercantile di molto inferiore a quella coeva di paesi come Fiandre, Inghilterra, Francia e Italia, ma la Spagna aveva i presupposti materiali per recuperare molte posizioni.

Le ragioni per cui il paese restasse prevalentemente agricolo e non riuscisse a decollare in modo capitalistico sono molte e complesse.

Anzitutto bisogna dire che il passaggio dal feudalesimo al capitalismo avrebbe potuto non essere considerato necessario se solo si fosse riusciti a trasformare l'economia agraria in un qualcosa di democratico per tutti i contadini. Di fatto, nessuna rivolta contadina è mai riuscita a spezzare l'egemonia del latifondo, il servaggio, il monopolio degli allevatori... Le rivendicazioni al massimo si sono fermate sul terreno giuridico relativo alla libertà personale.

In secondo luogo va detto che con la cacciata degli arabi e degli ebrei la formazione di una mentalità mercantile ha come una battuta d'arresto, che sarà poi irreversibile quando si cacceranno i moriscos nel 1610 e i gesuiti nel 1767.

Persino quando si disponeva di un immenso territorio coloniale, da gestire in tutta tranquillità, l'aspirazione principale restava quella di vivere di rendita, sfruttando il lavoro degli indios nelle miniere, non quello di impiantare attività produttive di trasformazione delle materie prime. P.es. nel campo tessile le città esportavano soprattutto le materie prime e dovevano importare il prodotto finito perché il loro era di bassa qualità.

Nella prima metà del XVI sec. - che è il periodo della massima floridezza economica della Spagna - le importazioni hanno sempre avuto un peso preponderante nella bilancia commerciale, proprio perché le merci capitalistiche iberiche non riuscivano in alcun modo a conquistare i mercati europei.

In terzo luogo va detto che il continuo afflusso di metalli preziosi provenienti dalle colonie, aveva provocato una terribile inflazione in tutto il paese. In Europa si ebbe una vera e propria "rivoluzione dei prezzi", ma solo in Spagna essi quadruplicarono nel corso del XVI secolo.

Va inoltre detto che le province spagnole, soprattutto le due che avevano contribuito di più all'unificazione nazionale, continuavano a fruire di privilegi ingiustificati per uno Stato "moderno": p.es. ancora funzionavano i dazi e le dogane interne e non esisteva un parlamento nazionale.

Le città sostenevano il potere regio nella sua politica centralista antinobiliare, ma non si riuscì mai ad aver ragione delle resistenze autonomistiche dei feudatari.

La Spagna aveva realizzato l'unificazione non a favore ma contro i valori borghesi e, nonostante questo, si voleva fruire dei vantaggi economici che la rivoluzione manifatturiera stava portando negli altri paesi europei. L'impero coloniale sembrava essere fatto apposta per alimentare questa convinzione. Vivere come borghesi senza esserlo - ecco l'obiettivo primario degli hidalgos.

Quando poi a queste premesse materiali si aggiunsero improvvisamente anche quelle politiche, la convinzione di poter vivere di rendita per un tempo indeterminato sembrava essere divenuta una realtà incontrovertibile.

Infatti l'elezione al trono imperiale di Carlo V (1516 - 1556) fu determinata da una serie di eventi fortuiti. Nel 1516 era morto il sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico, lasciando in eredità i suoi vasti domini (Spagna, Italia meridionale con Sicilia e Sardegna, Colonie americane) al nipote Carlo d'Asburgo (1500-58), nato a Gand dal matrimonio dell'unica sua figlia, Giovanna la Pazza con Filippo il Bello d'Austria (morto nel 1506): cosa che unirà strettamente gli interessi delle due Case d'Austria e di Spagna.

Contemporaneamente moriva, nel 1519, l'imperatore Massimiliano (del Sacro Romano Impero), lasciando in eredità allo stesso nipote Carlo d'Asburgo tutti i suoi domini (Austria, Boemia, Ungheria, Fiandre, Artois, Franca Contea).

Gli aristocratici tedeschi, che mal sopportavano l'avanzata della borghesia (che presto troverà nella Riforma protestante un valido baluardo ideologico) e la minaccia di guerre contadine (che proprio in Germania scoppieranno furibonde nel XVI secolo), pensarono bene, convinti di non trovare in questa decisione alcun ostacolo da parte dell'aristocrazia spagnola, di affidare le sorti dell'impero, nel 1519, proprio a Carlo d'Asburgo, permettendogli così di possedere un impero vastissimo, quale non s'era mai visto dai tempi di Carlo Magno.

Lo scontro con la Francia di Francesco I, che rivendicava il titolo della corona imperiale e che si sentiva accerchiata, fu inevitabile. Il periodo delle grandi guerre europee, iniziato nel 1521, proseguì praticamente fino alla pace di Cateau-Cambrésis del 1559, che sancì l'egemonia spagnola in Europa (in Italia la Spagna prese anche il Ducato di Milano), almeno fino a quando la borghesia non seppe trovare nella Riforma protestante nuove motivazioni ideali con cui poter affossare definitivamente (soprattutto negli Stati Uniti) l'obsoleta idea dell'universalismo cattolico-romano-germanico, sotto l'egida degli Asburgo e con l'appoggio incondizionato del papato.

Carlo V quindi proveniva dai Paesi Bassi, era stato educato in ambiente borgognone-fiammingo e quando prese il trono spagnolo si circondò di consiglieri fiamminghi che volevano soltanto spadroneggiare nel paese, dimostrando che il sovrano altro non voleva che realizzare una monarchia assolutistica, vincendo le resistenze autonomistiche degli aristocratici. Fatto questo, il sovrano preferì trasferirsi in Germania, lasciando in Spagna un suo luogotenente, il cardinale Adriano di Utrecht.

A livello europeo sembrava tornata in auge una vecchia idea medievale, quella di poter restaurare il dominio assoluto, politico ed economico, dell'aristocrazia fondiaria, rappresentata dall'imperatore, proprio mentre nei paesi più avanzati d'Europa: Olanda (Fiandre), Inghilterra, Francia e Italia centro-settentrionale lo sviluppo della borghesia, appoggiato dalle monarchie nazionali (in Italia dalle Signorie) ne aveva ridimensionato di molto i privilegi economici e le prerogative politiche.

Ora, al rinnovato impero feudale non restavano che due cose da fare, per potersi reggere in piedi con sicurezza: 1. imporre esose tasse a chiunque non fosse nobile; 2. minacciare immediate ritorsioni di tipo militare a chi non volesse piegarsi. Nell'Europa orientale una dittatura analoga si stava formando in Turchia.

In Spagna la politica centralista di Carlo V ebbe la meglio sulle tendenze separatiste nobiliari solo grazie all'appoggio delle città, ma quando l'imperatore cominciò a ridurre l'autonomia alle stesse città, che sopportavano l'onere finanziario maggiore della sua politica imperiale, scoppiò nel 1520 la cosiddetta rivolta dei "comuneros" (città castigliane), appoggiata dall'aristocrazia.

La rivolta, dilagata ben presto in tutta la Castiglia, si trasformò in una "Lega santa" contro Carlo V, arrivando persino a deporre il suo luogotente-cardinale.

Ma poi, nel momento cruciale, emersero gli interessi contrapposti che dividevano le forze della Lega. La borghesia infatti chiedeva nel suo programma non solo che l'imperatore risiedesse nel paese e che le alte cariche statali (da non porre in vendita) fossero assegnate solo a funzionari spagnoli e che le Cortes venissero convocate ogni triennio e che i deputati eletti fossero indipendenti dal potere regio, e che si vietasse l'export di oro e argento, ma chiedeva anche che le terre regie alienate e usurpate dall'aristocrazia dopo la morte della regina Isabella tornassero all'erario, che si abolisse inoltre l'esenzione dei nobili dal pagamento delle imposte e si vietasse a quest'ultimi di occupare d'ufficio le cariche amministrative nelle città.

I nobili più reazionari cominciarono ad allontanarsi dal movimento (che peraltro non fu capace di uscire dai confini della Castiglia) e ad accordarsi con la corona.

Viceversa, gli elementi più radicali delle città volevano prepararsi a uno scontro armato decisivo. Non ebbero però l'appoggio degli strati urbani più ricchi e la mancanza di organizzazione generale ne determinò la sconfitta a Villalar nel 1521. Anche le rivolte di Valenza e dell'isola di Maiorca subirono lo stesso risultato.

Il potere di Carlo V crebbe enormemente e con esso le estorsioni finanziarie sul paese. I grandi proprietari fondiari tuttavia ebbero la peggio sul piano politico, poiché la corona attribuì agli hidalgos il diritto di amministrare le città. E siccome i grandi nobili continuavano a non voler pagare le tasse, il sovrano smise di convocarli nelle sedute parlamentari.

A dir il vero il potere di Carlo V, se aumentò in Spagna, diminuì nettamente in Germania, dove fu sconfitto nella lotta contro i principi protestanti tedeschi, che lo indussero a dividere il suo impero tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo II (1556-98), che ereditò Spagna, Franca Contea, Paesi Bassi, Italia e Colonie americane.

E anche in Italia il suo nome fu assai poco amato, specie dopo l'invio delle truppe lanzichenecche che giunsero fino a saccheggiare Roma nel 1527. (1)

Ritiratosi a vita privata nel monastero di Yuste, in Estremadura, dove visse per circa due anni, Carlo V sino alla fine consigliò il figlio sulla condotta politica che doveva tenere.


(1) Papa Clemente VII aveva promosso una Lega anti-imperiale, la cosiddetta Lega Santa di Cognac, i cui alleati del papato erano il re di Francia, Francesco I, e le città di Milano, Genova e Firenze. Il timore del papato era che il sovrano asburgico, una volta impossessatosi dell'Italia settentrionale ed avendo già nelle sue mani l'intera Italia meridionale come eredità spagnola, potesse essere indotto ad unificare tutti gli Stati della penisola sotto un unico scettro, a danno dello Stato Pontificio, che rischiava, in tal modo, di scomparire come entità territoriale. L'imperatore, non potendo agire di persona, perché pressato militarmente contro i luterani e contro i turchi, fece in modo di scatenare contro il pontefice la potente famiglia romana dei Colonna, da sempre nemici giurati del papa Medici. Clemente VII, pur di liberarsi dell'assedio dei Colonna, chiese aiuto allo stesso imperatore, promettendogli in cambio la propria alleanza contro il re di Francia, denunciando la Lega Santa. Carlo V mantenne la promessa e liberò il papa dall'assedio dei Colonna, ma Clemente VII tradì la parola data, chiamando in suo aiuto proprio Francesco I. Di fronte a questo tradimento l'imperatore dispose l'intervento armato contro lo Stato Pontificio, mediante l'invio di un contingente di 35.000 lanzichenecchi, al comando del duca Carlo di Borbone, connestabile di Francia, uno dei più grandi condottieri francesi, inviso al re francese. Il duca morì durante l'assedio ma i lanzichenecchi riuscirono lo stesso a entrare in città e a saccheggiarla. Le devastazioni, che durarono un anno perché le truppe erano rimaste senza paga, senza comandante e senza ordini, ebbero un grave costo per la città di Roma: vi furono 20.000 vittime, oltre a danni incalcolabili sul patrimonio, anche artistico. (zip)


Bibliografia

SitiWeb

Download


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia della Spagna
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 01/05/2015