L'OTTOCENTO ITALIANO ED EUROPEO
DAL CONGRESSO DI VIENNA
ALLA VIGILIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE


L'ITALIA DOPO L'UNITÀ

I - II

La storia d'Italia nell'ultimo trentennio del XIX secolo fu determinata in notevole misura dal carattere dell'unificazione politica del paese compiutasi nel 1870, cioè dal fatto che le classi dominanti non portarono a termine i compiti della rivoluzione democratico-borghese e nell'economia del paese, specie nell'agricoltura, si conservarono numerosi residui feudali. Il potere apparteneva a un blocco storico formato dalla grande borghesia e dalla nobiltà.

Lo sviluppo economico. La condizione dei lavoratori

Il divario tra il meridione agricolo e le regioni più avanzate del nord si accrebbe sempre più, e il sud si trasformò gradualmente in una specie di colonia interna. I prodotti dell'artigianato meridionale non reggevano alla concorrenza dei prodotti industriali importati dall'Inghilterra, dalla Francia e dall'Italia settentrionale. Gli artigiani, non trovando più lavoro, ingrossavano le file del sottoproletariato.

Nell'agricoltura del sud e di una parte del centro prevalevano i latifondi, tenute nobiliari di tipo semifeudale. I contadini rimasti senza terra si trasformavano in braccianti oppure prendevano in affitto la terra cedendo ai proprietari fino a 3/4 del raccolto. I contadini poveri abitavano insieme alle loro bestie in misere casupole e talvolta in grotte. Nelle campagne dominavano la fame e malattie endemiche (malaria e pellagra).

Anche nel nord e nel centro della penisola la terra apparteneva alla nobiltà e alla borghesia ed era condotta generalmente a mezzadria (Toscana, Marche, Umbria, Emilia-Romagna ecc.). Solo nella pianura padana erano sorte grandi aziende agricole di tipo capitalista.

La penetrazione del capitalismo nelle campagne, specie nel sud, comportò dure conseguenze per le masse popolari. La borghesia, acquistando le terre della chiesa, e in parte anche le terre della nobiltà, conservava di solito le forme semifeudali di sfruttamento della terra, ma non di rado aumentava l'affitto.

I piccoli appezzamenti contadini, sequestrati per insolvenza dei debiti nei confronti dello Stato, venivano venduti all'asta. Centinaia di migliaia di contadini impoveriti, specie nelle province meridionali, erano costretti ad abbandonare la patria e a emigrare nei paesi vicini ed oltreoceano.

L'arretratezza dei rapporti agrari, la spaventosa povertà dei contadini privavano l'industria italiana di un mercato interno consistente e ne frenavano lo sviluppo.

In Italia la rivoluzione industriale e la formazione di un mercato unico nazionale presero l'avvio solo dopo il 1870.

Data l'insufficienza di capitali e la mancanza nel paese di combustibili e di molte materie prime, la borghesia aveva timore a investire i propri mezzi nella produzione industriale e preferiva gli affari di borsa, l'acquisto di terre, la costruzione di ferrovie e di immobili.

In alcuni centri industriali del nord sorsero alcune grandi aziende e aumentò il numero delle società per azioni, ma lo sviluppo dell'industria italiana, anche se rapido rispetto al periodo dello spezzettamento politico, avveniva in modo molto più lento che nei paesi avanzati d'Europa.

Approfittando dell'eccedenza della forza-lavoro, fornita di continuo dalle campagne, gli industriali e gli imprenditori italiani sfruttavano duramente gli operai, pagando salari che a volte non erano sufficienti nemmeno per procurarsi il minimo vitale. La giornata lavorativa nelle fabbriche era molto lunga, arrivava talvolta fino a 15 ore.

Allo sfruttamento della borghesia e della proprietà terriera si aggiungevano i metodi oppressivi dello Stato. Nel paese regnava un regime di dittatura poliziesca; il diritto di voto era limitato a 600 mila persone; gli scioperi erano praticamente proibiti; gli agenti di polizia disperdevano con la violenza i comizi e le manifestazioni degli operai.

La lotta del popolo contro la miseria e l'oppressione aveva un carattere tumultuoso e spontaneo. Tuttavia cominciarono ad apparire gradualmente nel movimento operaio elementi di organizzazione. Nei primi anni dopo l'unità d'Italia si ebbero i primi scioperi di braccianti e nella pianura del Po sorsero le prime organizzazioni bracciantili. Proteste e scioperi contro l'alto costo della vita furono effettuati dai muratori di Torino, dai meccanici di Mantova, dai ferrovieri di Verona. Durante gli scioperi erano frequenti gli scontri con la polizia.

Nel 1873, all'inizio della crisi industriale, la situazione nel paese era assai tesa. Con l'acuirsi dei contrasti di classe all'interno del paese e anche in seguito ai fatti della Comune di Parigi declinò l'influenza esercitata nel movimento operaio italiano dal mazzinianesimo.

Le sezioni della I Internazionale, sorte verso la fine degli anni '60, videro aumentare i propri aderenti. Tuttavia esse si trovarono sotto l'influenza delle teorie anarchiche di Bakunin; data l'immaturità della classe operaia, le teorie anarchiche, di cui erano fautori diversi intellettuali piccolo-borghesi, prevalsero per quasi un decennio nel movimento operaio italiano. Negli anni '70 gli insuccessi delle agitazioni armate dei bakuniniani portarono a un indebolimento dell'influenza dell'anarchismo.

Nel 1882 si forma in Lombardia il Partito Operaio, che voleva essere un partito autonomo del proletariato italiano. Ma non aveva un preciso programma economico e sociale. Oltre al Partito Operaio e indipendentemente da esso sorsero negli anni '80 numerosi circoli, leghe, gruppi socialisti. L'anarchismo continuò tuttavia, anche in seguito, ad avere una certa influenza nei movimento operaio d'Italia.

La “destra” e la “sinistra”

Nei primi anni di esistenza del regno d'Italia, i governi furono formati dalla cosiddetta “destra storica”, un partito che rappresentava gli interessi dei grandi proprietari fondiari imborghesiti e anche di una parte della grossa borghesia.

Il partito della destra, con a capo Minghetti e Lanza, creò l'apparato amministrativo statale, l'esercito e la flotta dello Stato unitario, stanziò molti mezzi per la costruzione delle ferrovie, destinate a collegare economicamente le diverse parti d'Italia.

Scontratasi con la resistenza del Vaticano, che dopo la perdita del potere temporale del papa, invitava i cattolici a boicottare la politica governativa, la destra sciolse varie organizzazioni religiose, e confiscò e vendette molte terre della Chiesa.

Per coprire le crescenti spese statali (compresi i sussidi chilometrici dati alle compagnie ferroviarie e le pensioni agli ex funzionari dei piccoli staterelli italiani), il governo aumentava continuamente le tasse, specie quelle indirette.

L'opposizione alla destra fu condotta dal partito della sinistra, del quale facevano parte molti ex-repubblicani con a capo Depretis e Crispi (che erano stati garibaldini). La sinistra era appoggiata dai grandi finanzieri, dagli industriali e dai commercianti, che miravano a prendere la direzione del paese nelle proprie mani.

Essa presentò al Parlamento un programma di rinascita economica del paese, puntando su alte tariffe doganali per proteggere la debole industria italiana dalla concorrenza straniera e sulla stipulazione di trattati commerciali vantaggiosi non solo per i proprietari terrieri ma anche per l'industria.

Volendo ridurre il malcontento delle masse, la sinistra chiedeva crediti per la piccola borghesia, la diminuzione delle tasse, l'ampliamento del diritto elettorale e una certa democratizzazione dell'apparato statale. La lotta tra i due partiti fu assai accanita.

Nel 1876 cadde l'ultimo governo della destra e salì al potere la sinistra, che concluse trattati commerciali a condizioni più vantaggiose per gli industriali, estese e accelerò la costruzione delle ferrovie e della flotta mercantile. Sotto la protezione del governo e grazie alle commesse e ai sussidi governativi, e anche con l'aiuto dei capitali francesi, si formarono alcune grandi aziende nell'industria pesante, si rafforzarono le banche e le società per azioni, si compirono lavori d'irrigazione ecc.

In questo periodo vennero compiuti i primi tentativi di espansione coloniale. La borghesia italiana aspirava alla Tunisia, che però, nel 1881, venne occupata dalla Francia. I rapporti fra Italia e Francia s'inasprirono, e nel 1882 l'Italia entrò nella Triplice Alleanza con la Germania e l'Austria-Ungheria.

L'espansione coloniale italiana si rivolse allora all'Africa orientale. Nel 1885 l'Italia occupò la città di Massaua, sul litorale africano del Mar Rosso e penetrò poi nell'interno, fondando la sua prima colonia, l'Eritrea; tre anni dopo dichiarava il protettorato su una parte della Somalia.

L'alternarsi dei partiti al potere non portò a un mutamento del carattere antipopolare della politica del blocco borghese-agrario. I governi della sinistra facevano sciogliete dalla polizia le manifestazioni così come avevano fatto i governi di destra.

La sinistra effettuò un allargamento del diritto elettorale, portando il numero degli elettori a due milioni, ma larghi strati di operai, di artigiani e di contadini rimasero ancora ai margini della vita politica. Venne abolita la tassa sul macinato, ma vennero introdotte nuove e non meno pesanti tasse.

Per queste ragioni la politica della sinistra causò amare delusioni nelle masse popolari. Verso il 1890 ogni differenza tra questi due raggruppamenti parlamentari era ormai scomparsa e la destra e la sinistra cessarono di esistere, dando vita a un unico partito liberal-conservatore. Il nuovo partito però si disgregò rapidamente in una serie di gruppi ostili tra loro. In Italia non sorsero in questo periodo partiti borghesi solidi e duraturi.

La crisi economica degli anni '90

Nel 1887, mentre i paesi capitalistici più avanzati si trovavano in una fase di ascesa economica, l'Italia era in balia di una grave crisi industriale. Intrecciandosi alla crisi agraria, causata in Italia e in tutta Europa dalla concorrenza del grano americano, la crisi in un paese arretrato e debole come l'Italia durò più a lungo, e il punto critico fu raggiunto negli anni 1893-94: fallirono molte aziende industriali e imprese edili, si ebbe una caduta del corso della moneta, si fermò l'attività portuale. L'agricoltura risentì della crisi più degli altri settori. Aumentò la disoccupazione e aumentarono le tasse.

I capitalisti francesi, ai primi sintomi della crisi, tolsero i propri capitali dalle banche italiane, che furono costrette ad affrontare coi propri mezzi la crisi, cercando disperatamente di evitare la bancarotta. Alla ricerca della salvezza, le banche di emissione nascosero i loro deficit, emettendo illegalmente nuove banconote.

Nel 1893 si ebbe nel paese un'ondata di fallimenti bancari e di scandali: si scoprì che molti ministri, deputati, giornalisti avevano ricevuto denaro dalle banche. Il governo (presieduto da Giolitti) diede le dimissioni.

L'ascesa rivoluzionaria. La nascita del partito socialista italiano

Peggiorando la condizione dei lavoratori, la crisi inasprì i contrasti di classe. Risalgono al 1885 i primi sintomi di un'ascesa del movimento rivoluzionario delle masse.

Nell'Italia meridionale si ebbero agitazioni spontanee di contadini e nelle province settentrionali si moltiplicarono le agitazioni degli operai dell'industria e dei braccianti: nel 1888 migliaia di edili protestarono nelle vie di Roma contro l'aumento del prezzo del pane, causato dalle tariffe doganali protezionistiche. Nel 1889 le dimostrazioni e gli scioperi si diffusero in molte città e paesi del nord.

Le autorità facevano sparare contro i dimostranti, scioglievano le organizzazioni operaie, inviavano i soldati a sostituire i braccianti in sciopero nelle grandi aziende agrarie. Il malcontento si estese anche a una parte degli intellettuali. Nei centri industriali sorsero le Camere del Lavoro, mentre uscivano le prime traduzioni italiane di scritti di Marx e di Engels. All'università di Roma Antonio Labriola, uno dei primi divulgatori del marxismo in Italia, spiegava agli studenti le tesi fondamentali del “Manifesto dei comunisti”.

Nel 1892 dalla fusione del Partito Operaio con diverse leghe e circoli socialisti sorse il Partito dei Lavoratori Italiani (che nel 1895 prese il nome di Partito Socialista Italiano). Il movimento socialista assumeva in Italia un carattere di massa. Centro del movimento socialista furono le zone in cui si sviluppava rapidamente il capitalismo nelle campagne e i centri industriali dell'Italia settentrionale.

Ma la direzione del movimento era dominata da uomini di origine piccolo-borghese, che non avevano assimilato le posizioni marxiste e che influenzarono le prime dichiarazioni programmatiche del partito socialista, in cui erano ignorati i compiti della rivoluzione socialista e la presa del potere era ridotta alla conquista di mandati parlamentari; la lotta di classe doveva avere, secondo la loro opinione, un carattere legale e moderato.

I “fasci dei lavoratori” in Sicilia

Centro delle manifestazioni popolari di protesta divenne la Sicilia, dove l'intrecciarsi dello sfruttamento capitalistico e di quello feudale sui lavoratori aveva provocato da tempo una situazione esplosiva: le tasse erano più alte che nelle altre zone del paese; i prezzi dei prodotti agricoli erano caduti; la rendita che i contadini pagavano ai latifondisti e ai “gabellotti” (affittuari intermediari), era aumentata nel 1893 dal 50 al 100% rispetto al 1870; nelle miniere di zolfo, scarsamente ventilate e prive di macchine, gli operai e i fanciulli (“carusi”) che vi lavoravano pagati con un misero salario, erano sottoposti a fatiche insopportabili.

Nel 1891 gli operai socialisti fondarono i primi “Fasci dei lavoratori” e nel 1893 questi raggruppavano circa 300mila tra contadini e operai. I dirigenti dei “Fasci” godevano di grande autorità fra le masse. Si eleggevano propri rappresentanti nei consigli comunali, si organizzavano società di mutuo soccorso, si chiedevano la diminuzione delle tasse, il miglioramento delle condizioni di affittanza della terra, l'aumento dei salari degli operai, si dirigevano dimostrazioni e scioperi. Gli aderenti ai “Fasci” vedevano però in questo solo un primo passo e sognavano il giorno in cui avrebbero potuto conquistare e dividersi la terra dei proprietari.

Nel dicembre 1893 le agitazioni in Sicilia assunsero un carattere di massa. Folle esasperate di abitanti delle campagne e di poveri delle città assalirono i municipi, gli uffici delle tasse, le case dei ricchi, uccidendo a volte dei proprietari terrieri.

Gli avvenimenti siciliani ebbero un pronto riflesso anche su altre zone d'Italia: nella Lunigiana gli operai delle cave di marmo, diretti dagli anarchici, dichiararono lo sciopero generale; trinceratisi sulle montagne, essi sbarrarono le strade con massi di marmo e per alcuni giorni respinsero l'assalto delle truppe governative, finché, privi di vitto e di armi, furono costretti ad arrendersi.

In vari centri industriali del nord si svolsero assemblee e dimostrazioni operaie di solidarietà coi lavoratori siciliani. Queste agitazioni colsero di sorpresa i capi socialisti, che non riuscirono a dirigere il movimento e a dargli la dovuta organizzazione.

Nel gennaio 1894 il governo (diretto da Francesco Crispi) passò all'offensiva. Dopo aver dichiarato lo stato d'assedio in Sicilia e in Lunigiana, inviò numerose truppe in queste regioni e represse con la violenza il movimento popolare. Crispi attuò misure reazionarie nell'intero paese.

Sulla base delle “leggi eccezionali” emanate nel 1894, il partito socialista e le Camere del Lavoro vennero sciolti, le libertà costituzionali furono violate e i giornali operai chiusi, furono compiute perquisizioni e arresti su vasta scala.

Tuttavia il governo non riuscì a spegnere la protesta del popolo. Nei giorni del processo ai membri del Comitato Centrale dei “Fasci dei lavoratori” dimostrazioni di protesta si svolsero a Palermo e in altre città d'Italia. In occasione della visita di Crispi a Milano gli operai milanesi lo accolsero con fischi e grida. Nel gennaio 1895 si riunì clandestinamente il congresso dei socialisti italiani, che proclamò la ricostituzione del partito. Convintosi dell'inefficacia delle repressioni per soffocare il movimento popolare, il governo abrogò le leggi eccezionali.

La guerra contro l'Etiopia

L'inasprirsi dei contrasti di classe fu uno dei fattori che spinse il governo sulla via delle conquiste coloniali. Nel 1895 l'Italia aggredì l'Etiopia (Abissinia). La borghesia italiana sperava in una rapida vittoria e già pensava alla occupazione di vasti territori per farvi emigrare i contadini e ridurre così la disoccupazione e il fermento rivoluzionario nell'Italia meridionale; inoltre essa contava di fare dell'Etiopia un nuovo mercato di sbocco per le merci italiane.

Contrariamente a questi calcoli, la guerra terminò con la completa sconfitta dell'Italia, quando, agli inizi del marzo 1896, le truppe italiane furono battute ad Adua. La guerra significò per il popolo italiano nuove tasse e un aumento dei prezzi.

Fin dai primi giorni dell'aggressione all'Etiopia si ebbero in Italia manifestazioni contro la guerra; quando il popolo apprese la notizia della disfatta dell'esercito italiano ad Adua, le vie delle città si riempirono di dimostranti che minacciavano Crispi di morte. In alcune zone dell'Italia settentrionale le dimostrazioni contro la guerra si trasformarono in scontri armati con la polizia, e il governo Crispi dovette dare le dimissioni.

Il nuovo ministero, capeggiato da Rudinì, fu costretto a proclamare immediatamente la fine della guerra. Con il trattato di pace l'Italia dovette riconoscere l'indipendenza dell'Etiopia e pagare una forte somma come riparazioni di guerra.

I “fatti di maggio” del 1898

Nella primavera del 1898 si ebbe una nuova esplosione rivoluzionaria. Iniziate in Sicilia, le agitazioni abbracciarono ben presto l'intero paese. Per oltre due settimane - dal 27 aprile all'11 maggio 1898 - nelle città e nei villaggi dell'Italia centro-meridionale si ebbero tumultuose manifestazioni al grido di “pane e lavoro”.

Come già era avvenuto nel dicembre 1893, la popolazione povera assalì gli edifici delle prefetture e i panifici, uccise funzionari e proprietari terrieri, distrusse linee telegrafiche.

I “fatti di maggio” assunsero vaste proporzioni a Milano, dove scoppiò uno sciopero generale, mentre nelle strade della città apparivano le barricate.

I capi socialisti invitavano il popolo a evitare uno spargimento di sangue, ma gli operai si batterono contro le truppe incaricate della repressione servendosi dei ciottoli delle strade e dei pali di ferro strappati ai recinti, mentre donne e fanciulli scagliavano dai tetti tegole e pietre contro i soldati.

Gli avvenimenti di Milano seminarono il panico nelle classi dirigenti. Ma dopo un primo momento di confusione e d'incertezza, le autorità ordinarono feroci repressioni. E queste si trasformarono in una strage. Dal 6 al 9 maggio a Milano vennero uccisi circa 500 popolani e oltre 1.000 furono feriti. Quando l'ordine pubblico fu ristabilito e gli scioperanti ritornarono al lavoro, la città sembrava un campo di battaglia.

Questi avvenimenti avevano dimostrato ancora una volta alla borghesia italiana l'impossibilità di conservare per un lungo periodo il proprio dominio con i metodi della dittatura aperta. Un numero sempre maggiore di esponenti politici borghesi si convinse che le repressioni non facevano altro che intensificare l'attività rivoluzionaria delle masse.

Il Pelloux, succeduto al Rudinì come presidente del Consiglio dei ministri, cercò, agli inizi del 1899, di far passare alla Camera dei Deputati nuove leggi eccezionali; al suo progetto però si opposero non solo i socialisti ma anche una notevole parte di deputati liberali e radicali. La lotta parlamentare durò più di un anno.

La tattica dell'ostruzionismo, praticata dai socialisti con il sostegno di una parte dei deputati borghesi, paralizzò quasi completamente il Parlamento. Infine nel maggio 1900 il gabinetto Pelloux, riconosciutosi sconfitto, diede le dimissioni.

IL PRIMO MEZZO SECOLO DELL'ITALIA UNITA

Dall'unificazione nazionale alla "settimana rossa" si sono susseguite una serie di occasioni mancate per realizzare una democrazia significativa. Il governo sabaudo, quello della destra storica e quello liberale non riuscirono a eliminare né il latifondo del sud né i privilegi della chiesa. Certamente al papato diedero un colpo demolitore, espropriandolo dello Stato millenario, ma con la legge delle Guarentigie (1871) si era permesso al potere temporale, seppur in forma ridimensionata, di sopravvivere.

Infatti si garantiva al pontefice, diminuendo drasticamente la sovranità dello Stato nazionale, il carattere sacro e inviolabile della sua persona (come se fosse un re!), il diritto di avere al proprio servizio guardie armate a difesa dei palazzi Vaticano, Laterano e villa di Castel Gandolfo (immobili sottoposti a regime di extraterritorialità, che li esentava dalle leggi italiane e assicurava libertà di comunicazioni postali e telegrafiche), il diritto di tenere presso di sé ambasciatori stranieri e d'inviarne all'estero (come se il papa fosse un capo di stato!), una rendita annua di oltre 3 milioni di lire (pari a circa 14,5 milioni di euro), pagata anche con le tasse dei non-credenti e degli a-cattolici. Inoltre al clero veniva riconosciuta illimitata libertà di riunione e i vescovi erano esentati dal giuramento al re.

La Legge fu rifiutata dal pontefice e il governo non ebbe la forza d'imporla. Pio IX s'era dichiarato prigioniero politico in seguito alla Breccia di Porta Pia, e considerò la Legge un atto unilaterale dello Stato italiano, che violava la prassi di tenere il potere spirituale della Chiesa romana strettamente congiunto con quello temporale. All'intransigenza del papa lo Stato rispose sopprimendo tutte le facoltà di teologia dalle università italiane e sottoponendo i seminari a controllo statale, ma si fermò lì. E nel 1874 la Curia romana obbligò i cattolici, con la formula del "non expedit" ("non conviene"), a non partecipare alla vita politica.

La monarchia temeva che, rompendo in maniera decisa col papato, sarebbe stata essa stessa travolta dalle istanze repubblicane della borghesia più progressista. Si sentiva ancora troppo debole. Temeva persino un'alleanza dei nemici storici (Spagna, Francia, Austria-Ungheria), motivata da pretesti religiosi.

Questa titubanza ebbe un risvolto ancora più marcato nei propri rapporti con l'aristocrazia agraria del Mezzogiorno. I Savoia eliminarono il brigantaggio e favorirono l'emigrazione contadina, ma non mossero un dito contro i baroni feudali del sud. Inevitabilmente il Mezzogiorno si sentì tradito e cominciò a ridimensionare persino il mito di Garibaldi. L'unificazione era stata disastrosa: metteva i contadini in una condizione peggiore di quella vissuta al tempo dei Borbone.

Il governo della cosiddetta "sinistra" (repubblicani, garibaldini, azionisti e democratici) fu poi anche peggio, poiché non solo non fece nulla contro il latifondo né contro il clericalismo pontificio, ma inaugurò una stagione ancora più ipocrita della precedente. Da un lato infatti si voleva mostrare d'essere migliori dei liberali conservatori (di qui l'allargamento del suffragio elettorale, l'abolizione dell'odiosa tassa sul macinato e l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita); dall'altro si perseguitò duramente il nascente movimento socialista (operaio e contadino) e si avviò con decisione la politica colonialistica in Africa, pensando di risolvere in questa maniera i gravissimi problemi sociali causati dal capitalismo del Nord e dalla mancata riforma agraria nel Mezzogiorno.

Purtroppo in una situazione così politicamente precaria le forze democratiche (repubblicani, anarchici, socialisti e cattolici progressisti) non seppero mai trovare alcuna intesa programmatica. Ognuno marciò sempre per conto proprio, rivaleggiando con gli altri. Gli anarchici ammazzarono il re Umberto nel 1900, raggiungendo il massimo della loro visibilità; ai repubblicani interessava solo la questione politico-istituzionale, non avendo sentore per quella sociale; i cattolici progressisti (che ai tempi dell'unificazione erano stati liberali) non avevano forza sufficiente per emanciparsi dalla dipendenza dal papato; i socialisti erano continuamente lacerati dalle due correnti opposte: riformista (maggioritaria) e massimalista.

Giolitti fu la carta vincente che la borghesia piemontese giocò per impedire che la situazione evolvesse verso la democrazia sociale e repubblicana. Per un quindicennio egli seppe mediare tra le opposte tendenze, facendo inutili promesse, nel senso che la maggior parte di esse non riuscì a mantenerle. Illuse i socialisti che si sarebbero fatte delle riforme decisive a favore dei lavoratori. Quando i socialisti cominciarono a capire che venivano solo presi in giro e vi fu la svolta congressuale del 1904, con la vittoria dell'ala massimalista guidata da Mussolini, Giolitti cercò alleanze sia coi nazionalisti (guerra di Libia nel 1911) che coi cattolici (patto Gentiloni del 1912) in funzione anti-socialista. La sua doppiezza venne chiaramente alla luce.

La sinistra reagì e con la "settimana rossa" del 1914 sembrava dovesse scoppiare una rivoluzione, ma fu solo un fuoco di paglia: la mancanza di un'organizzazione nazionale centralizzata si fece enormemente sentire. I dirigenti socialisti avevano mostrato tutta la loro pochezza. La borghesia tuttavia ne ebbe una grande paura e, pur di evitare il ripetersi, preferì entrare nella prima guerra mondiale, naturalmente promettendo ai militari provenienti dal mondo rurale che, al ritorno, avrebbero ottenuto la riforma agraria. Cosa che, altrettanto naturalmente, non avverrà.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Moderna
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Aggiornamento: 25/10/2014