STORIA DEL MEDIOEVO
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IL SISTEMA VASSALLATICO
Perché il sistema vassallatico portò alla distruzione dell'impero creato da Carlo Magno? Per quale ragione il sistema della dipendenza di tipo personale risultò così inefficace in così breve tempo? Quale avrebbe potuto essere l'alternativa? Perché non funzionò la fiducia reciproca? Vediamo anzitutto cos'è il vassallaggio. E' una delle tre istituzioni del sistema giuspolitico del mondo feudale: le altre sono il beneficio e l’immunità. Genericamente si dice che quando un re conduceva una guerra di conquista (di terre) insieme ad altri militari, costoro ricevevano da quello, sulla base del valore dimostrato in campo, una porzione delle terre conquistate, detta beneficio, ch'era vitalizia e inalienabile. Il conte, il marchese ecc. non avevano la proprietà della terra ma solo l'usufrutto a vita, non potevano quindi trasmetterla per via ereditaria, né venderla o alienarla in alcun modo. Il beneficiario, divenuto vassallo del re, gli giurava fedeltà (omaggio) e gli prometteva aiuto militare in caso di bisogno. Naturalmente gli doveva anche dei tributi in natura o in denaro, anche perché i feudi potevano essere vastissimi. Se veniva meno al suo giuramento, era dichiarato fellone, cioè traditore, e spogliato del feudo. (1) Il vassallo poteva, entro certi limiti, esercitare nel suo feudo una funzione amministrativa, politica e giudiziaria, ovviamente per conto del sovrano. Poteva pretendere prestazioni di lavoro gratuite (corvées), il pagamento dei prodotti del suolo, il servizio militare e varie tasse e balzelli. Ma il suo comportamento era tenuto sotto controllo dai tribunali d'appello e dall'istituzione carolingia dei missi dominici. A dare un carattere politico a questo sistema era l'immunità, cioè una serie progressiva di benefici e privilegi, che potevano andare dalla esenzione di taluni tributi sino alla possibilità di rivendicare il feudo come una proprietà privata trasmissibile agli eredi: cosa che avvenne sotto Carlo il Calvo nell'877, col Capitolare di Kiersy per i feudi maggiori e sotto Corrado II il Salico con la Constitutio de feudis per i feudi minori (1037). Altre immunità potevano riguardare il diritto di battere moneta, un parziale esonero dal servizio militare (p.es. i conti potevano esonerare dalle prestazioni militari dovute al re quegli uomini liberi che avessero fatto loro dono della propria terra in cambio di protezione), la concessione d'imporre qualunque tassa entro il feudo, il trasferimento al vassallo della piena potestà giudiziaria ecc. Gli storici sono soliti sostenere che con le immunità inevitabilmente s'indeboliva il vincolo che legava in perpetuo il beneficiario al re, e si toglieva a quest'ultimo la possibilità di nominare alla morte del vassallo un sostituto a proprio piacimento, in quanto ad un certo punto cominciò a impedirlo il diritto ereditario di un feudatario ch'era diventato, de facto, una sorta di sovrano. Il potere del re o dell'imperatore del sacro romano impero diventava tanto più debole quanto maggiori erano state le immunità concesse, proprio perché i vassalli tendevano a negargli l'obbedienza dovuta o comunque promessa al momento dell'investitura. Gli stessi vassalli maggiori cominciarono a distribuire parte delle terre ricevute in beneficio dal re ai loro sudditi, i quali prestavano essi pure l'omaggio al signore, lo servivano come soldati ecc., divenendo vassalli minori, valvassori, fino addirittura ai valvassini. Il feudatario cominciava ad avere sui suoi sudditi piena e legittima giurisdizione. Il suo giudizio, come il suo governo, diventava insindacabile, poiché alla forza del potere centrale dello Stato si andavano sostituendo le consuetudini feudali locali. Gli storici ritengono che questa autonomia abbia comportato la distruzione del centralismo unitario, che garantiva stabilità e compattezza allo Stato, ovvero che la gerarchia garantiva stabilità solo in apparenza, in quanto nella sostanza i sovrani feudali non furono quasi mai in grado d'impedire il frazionamento politico e l'anarchia. Come spiegare un fenomeno del genere? E soprattutto come spiegare il fatto che per gli storici un'azione politica si regge in piedi solo quando esiste un centralismo statale e che ogni forma di autonomia locale comporta la dissoluzione del sistema? Anzitutto per far funzionare un sistema di questo tipo occorre che tra i soggetti del patto d'intesa vi sia una comune fiducia in un medesimo ideale di vita. In caso contrario il subordinato accetterà il patto soltanto finché si sentirà debole. Tuttavia l'ideale di vita, per poter essere efficace, deve essere condiviso in maniera paritetica non solo dai contraenti del patto ma dall'intera collettività. Se nel patto esiste in maniera palese una persona di rango superiore e un'altra di rango inferiore, la percezione dell'ideale di vita sarà molto diversa. Prima di entrare nell'impero romano le tribù barbariche non avevano sovrani assoluti: di regola ne eleggevano uno al momento di compiere imprese belliche, finite le quali il sovrano tornava ad essere un qualunque capo clan. Invece, una volta entrati nell'impero, si cominciò a istituire in maniera permanente la carica del sovrano. A quel punto diventava evidente che nel corso di una campagna militare vittoriosa era il re che riconosceva il beneficio di una parte del bottino a chi s'era comportato in maniera più valorosa. In queste condizioni credere in maniera paritetica in un medesimo ideale di vita diventava difficile, a meno che il subordinato non si convincesse che avere un sovrano superiore a tutti fosse un bene per l'intera collettività. Ma se il sovrano comincia a imporre l'idea che il proprio potere non va distribuito al migliore ma semplicemente a qualcuno della propria dinastia o al figlio maggiore o a qualcuno scelto arbitrariamente da lui, senza il consenso di un organo collegiale, ecco che diventa ancora più difficile credere in un ideale comune. Non c'è più riconoscimento di un merito o di un diritto ma semplicemente l'accettazione di un favore o di un privilegio concesso arbitrariamente dal sovrano, il cui potere diventa assoluto, inamovibile, anche quando egli compiva abusi o non aveva meriti personali per detenere quel ruolo. I regni romano-barbarici, in tal senso, sono stati più "romani" che "barbarici". Nel feudalesimo dei Franchi non esistevano leggi cui doveva attenersi anche l'imperatore. Le leggi valevano solo per i suoi subordinati, e solo fino a un certo punto, in quanto il conte o il marchese in realtà tendeva a gestire autonomamente tutto: amministrazione, economia, politica, giustizia... Tant'è che il sovrano, dubitando del valore della fiducia reciproca, proprio perché sapeva che il fatto di assegnare in concessione vastissimi feudi poteva indurre a gestirli come se fossero una proprietà privata, tendeva a servirsi di propri funzionari statali che controllavano l'operato dei vassalli. Quindi è evidente che i vassalli cercavano di allargare il più possibile il loro spazio di manovra. E infatti, come s'è detto, a un certo punto ottennero la possibilità di lasciare in eredità i loro feudi ai propri parenti. In queste condizioni l'ideale di vita (il cristianesimo) era soltanto una formalità, almeno ai livelli di potere più alti, in quanto nella sostanza dominavano i rapporti di forza. Ma perché l'imperatore franco non riuscì a imporre in maniera duratura questi rapporti di forza? Qui le motivazioni si pongono a due livelli. Anzitutto in un sistema sociale fondato sull'autoconsumo, le risorse economiche con cui sostenere un forte esercito di militari e di funzionari statali sono molto esigue. L'imperatore deve necessariamente basarsi sulla capacità di autogoverno dei vassalli maggiori (conti e marchesi), che a loro volta però, sfruttando le risorse, umane e materiali, dei propri contadini, faranno di tutto per ottenere il massimo dell'autonomia possibile. In secondo luogo va detto che Carlo Magno ebbe una forte personalità e fu un grande conquistatore di terre altrui. Poiché ebbe un unico figlio, Ludovico, non incontrò problemi di sorta nella successione, ma già i tre figli di Ludovico, non avendo nessuno le capacità di Carlo Magno, arrivarono a un tale punto di rivalità che l'impero del nonno dovette essere frantumato in tre parti. Questo per dire che per tenere in piedi un impero basato sul sistema vassallatico occorre una grande fiducia reciproca, nella generale convinzione che l'ideale di vita in cui la maggioranza crede sia davvero così grande da indurre a sacrificare i propri interessi di parte. Tuttavia è molto difficile credere in un comune ideale di vita (che si presumeva fosse superiore a quello pagano e schiavista del mondo romano) quando l'intera società è sottoposta al servaggio. Vi era già nel Medioevo una contraddizione molto forte fra teoria e pratica, per cui qualunque atto di vassallaggio aveva un valore molto relativo. L'anarchia feudale fu una costante nel Medioevo. L'imperatore non rappresentava alcun vero ideale e, in tal senso, il primato del localismo sul centralismo poteva anche essere visto in maniera favorevole dagli storici. Il punto è che i feudatari locali non cercavano l'autonomia per realizzare uno stile di vita alternativo a quello imposto dal sovrano, ma semplicemente lo riproducevano su scala locale. D'altra parte ancor meno rappresentava un ideale di vita la chiesa romana, ch'era legatissima al concetto di proprietà privata e quindi sempre intenzionata a costruirsi un proprio Stato politico. (1) Qui si usa la parola "feudo" in maniera estensiva e quindi impropria, poiché si è consapevoli che questo termine acquista il suo senso solo a partire dalla disgregazione del regno carolingio, con la nascita della signoria territoriale (X-XI sec.). Prima di tale periodo si può parlare solo di società vassallatico-beneficiaria, di signoria fondiaria, tanto che il termine “Feudo” non compare nemmeno nei documenti ufficiali. Così hanno dimostrato i medievisti R. Boutrouche, F.L.Ganshof, G. Tabacco, C. Violante e G. Sergi. Lo stesso termine "feudalesimo" è stato coniato soltanto nel Settecento, quando i borghesi rivoluzionari lo usavano in senso spregiativo come “residuo medievale”. I FRANCHI E LA CHIESA ROMANA SUL VASSALLAGGIO Va escluso a priori che i Franchi medievali avessero elaborato in proprio una concezione così autoritaria come quella del vassallaggio, cioè del rapporto di dipendenza personale in cui il più forte concede dei privilegi al suddito più fidato. Una concezione politica del genere i Franchi, molto probabilmente, la ereditarono dalla chiesa di Roma, la quale, a sua volta, l’aveva ereditata dagli imperatori romani, con la differenza che gli imperatori avevano alle spalle lo Stato, mentre la chiesa s’era posta il compito di diventare essa stessa uno Stato, sostituendo appunto quello romano. I Franchi erano di origine germanica: non conoscevano il concetto di “Stato” e neppure quelli di “regno” o di “impero”, se non in maniera esteriore, in quanto li vedevano applicati nella tradizione romana. Il “sovrano” per loro era una figura transitoria: lo si eleggeva in caso di conflitto armato, ma poi si tornava a vivere per clan e tribù, dove chi comandava era il consiglio degli anziani. Se i Franchi avessero avuto per tradizione il concetto di Stato, il loro regno e il loro impero, conseguente a una feroce colonizzazione, sarebbe durato molto di più; invece fu sufficiente la morte del figlio di Carlo Magno per mandare all’aria tutto quanto. Il regno e poi l’impero di Carlo Magno fu il frutto di vari colpi di stato interni e di crociate esterne: tutti atti di forza illegittimi: combatté contro i Longobardi, con cui era imparentato, e sterminò altre popolazioni germaniche (Sassoni, Avari, Bavari) da cui gli stessi Franchi provenivano. Carlo Magno fu il primo “barbaro” che, dopo essere entrato nell’Europa occidentale, si volse contro quella orientale, sterminando e cattolicizzando con la forza popolazioni ariane, pagane e ortodosse. E tutto col placet della chiesa romana. Il suo impero fu molto autoritario e, alla morte di Ludovico il Pio, i figli di quest’ultimo provvidero subito a dividerlo in tre parti. I SASSONI E I VESCOVI-CONTI Nei manuali di storia medievale spesso si sostiene che l'istituzione dei vescovi-conti fu un'iniziativa degli imperatori sassoni, intrapresa per limitare il potere del papato e per assicurarsi l'integrità territoriale dell'impero, visto che i vescovi amministravano le città e non i feudi agrari. In realtà erano gli stessi vescovi che chiedevano ai sovrani di poter sostituire i nobili laici nelle funzioni politico-amministrative delle città. Il primo vescovo italiano a ricevere il titolo di "conte" fu quello di Parma, Uberto, che si rivolse a Ottone I nel 962, pretendendo le prerogative che spettavano al potere regio e alla funzione pubblica (così recita il contratto). Il pretesto è offerto dal fatto che il conte laico tendeva a danneggiare gli interessi della diocesi. Quindi sul piano locale il vescovo voleva quello stesso potere politico che il papa pretendeva a livello mondiale. La differenza stava nel fatto che mentre il papa otteneva il potere dalle famiglie aristocratiche di Roma che se lo contendevano, Uberto invece non voleva spartire il potere con nessuno e chiedeva al sovrano il privilegio di esercitare un dominio diretto sulla città, senza dover rendere conto a nessuno. In pratica Ottone I trasferì al potere giurisdizionale del vescovado i beni e i servi di tutto il clero e di tutti gli abitanti della città. Il vescovo veniva a sostituirsi al conte nel Palazzo urbano. Sono notevolissimi i poteri che vengono concessi: politico-amministrativi (praticamente ogni funzione pubblica, sia dentro che fuori città, per un raggio di tre miglia), giudiziari (da notare che solo il vescovo poteva partecipare all'assemblea giudiziaria convocata periodicamente da Ottone) e persino polizieschi (l'ordine pubblico) e militari (il potere sulle mura delle città). I poteri economico-finanziari erano enormi: controllo delle strade regie, dei corsi delle acque, di tutto il territorio coltivato e incolto, dei pascoli, dei boschi ecc. Gli storici ovviamente sostengono che tali vescovi erano molto corrotti e che la riforma gregoriana costituiva per la chiesa una necessità vitale. In realtà si era potuti giungere a una situazione così anomala proprio perché i vescovi non facevano altro che imitare il loro pontefice, che non a caso vide, grazie a quella riforma, aumentare il proprio potere politico a dismisura. Fonti
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