STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


L’IDEA DI PENTARCHIA NELLA CRISTIANITA’

Sant'Atanasio (Scuola di Novgorod, XV sec.) e Sant'Agostino (Michael Pacher, 1435-84)

Il concilio di Nicea (325)

Testo originale (estratti)

IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo.

Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita.

VI. Della precedenza di alcune sedi, dell'impossibilità di essere ordinato vescovo senza il consenso del metropolita.

In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l'opinione della maggioranza.

VII. Del vescovo di Gerusalemme.

Poiché è invalsa la consuetudine e l'antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della metropoli.

XV. Del clero che si sposta di città in città.

Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una città all'altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e seguisse l'antico costume, questo suo trasferimento sarà senz'altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono.

XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono eletti.

Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa, siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici, non devono in nessun modo essere accolti in un'altra chiesa; bisogna, invece, metterli nell'assoluta necessità di far ritorno alla propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia considerata nulla.

Fino al concilio di Nicea vi erano nell’ambito della cristianità tre sedi prevalenti: Roma, Alessandria e Antiochia, corrispondenti alle tre maggiori metropoli dell’impero romano.

Le sedi erano paritetiche tra loro, nel senso che nessun vescovo esercitava alcun potere particolare sui propri colleghi: la struttura ecclesiastica si configurava come una grande federazione di chiese locali, personalizzate nei loro rispettivi vescovi, gestite da istanze collegiali e sostanzialmente affini nel credo teologico fondamentale, anche se proprio col concilio di Nicea si cominciano ad affrontare importanti eresie, che minano le basi della cristianità.

L’organizzazione ecclesiastica tendeva a uniformarsi alle divisioni amministrative dell’impero (province). L’integrità e la cattolicità completa di ciascuna chiesa locale richiedeva la comunione con le altre chiese locali, non veniva assicurata da una istanza monarchica superiore, né laica né ecclesiastica. Era l’unità delle fede comune che garantiva la coerenza di teoria e prassi. L’autorità imperiale, a partire da Costantino, diventerà necessaria per rendere ufficiali i concili, riconoscendo loro valore normativo vincolante per tutti.

Tuttavia, nella prassi, ogni vescovo della cristianità riconosceva ai gerarchi delle tre sedi suddette una certa autorità de facto, prevalentemente morale, per ragioni storiche. Solo che la chiesa romana, dopo il III secolo, cominciò ad applicare, progressivamente, alle sedi di tutto l’ecumene gli stessi rapporti gerarchici che aveva con le chiese locali occidentali, mirando così ad affermare un concetto di “chiesa universale” in cui essa avrebbe dovuto svolgere il ruolo (giuspolitico) di garante dell’unità.

Il concilio di Nicea, infatti, non ebbe a che fare solo con l’eresia ariana, ma anche col problema di come regolamentare delle competenze territoriali che s’andavano estendendo oltre i tradizionali confini provinciali: cosa che riguardava non solo la sede romana ma, per imitazione, anche quella alessandrina.

A Nicea in sostanza si decise che la posizione preminente della diocesi di Roma in occidente poteva replicarsi anche in Africa (Egitto, Libia e Pentapoli o Cirenaica), sotto la giurisdizione della sede di Alessandria, nonché nell’area orientale, sotto la giurisdizione di Antiochia (Theopoli).

Tuttavia, pur non ammettendo alcuna autorità formale al di sopra dei tre vescovi delle tre capitali provinciali (metropoliti), e quindi riconoscendo loro un certo potere sopra un’area più vasta (eparchia o metropolia), il concilio stabiliva nel contempo che il contenuto effettivo di questa autorità doveva restare limitato a una determinata area territoriale (diocesi civile) e non poteva essere esercitato oltre un certo livello: p.es. la nomina dei vescovi era ancora di competenza dei concili provinciali, anche se andava formalmente approvata dal metropolita.
Tra l’altro al riconoscimento particolare di queste tre sedi il concilio aggiunse quello onorifico della sede di Gerusalemme (Aelia Capitolina), a motivo del suo carattere religioso di “città santa”: la sede tuttavia restava ancora gerarchicamente subordinata alla metropoli di Cesarea di Palestina.

Il concilio di Costantinopoli (381)

Testo originale (estratti)

Quanto all'amministrazione delle singole chiese ha forza di legge l'antica norma, come sapete, e la disposizione dei santi padri di Nicea: che, cioè, in ciascuna provincia, e, se essi vorranno anche i vescovi confinanti con loro, si facciano le ordinazioni come richiede l'utilità delle chiese.
Sappiate che, conforme a queste disposizioni, vengono amministrate le nostre chiese, e sono stati nominati i sacerdoti delle chiese più insigni. Della chiesa novella, per cosi dire, di Costantinopoli, che da poco, per misericordia di Dio, abbiamo strappato alle bestemmie degli eretici, come dalla bocca di un leone, abbiamo ordinato vescovo il reverendissimo e amabilissimo in Dio Nettario. Ciò è stato fatto al cospetto del concilio universale, col consenso di tutti, sotto gli occhi dell'imperatore Teodosio, carissimo a Dio, di tutto il clero, e con l'approvazione di tutta la città.
Dell'antica e veramente apostolica chiesa di Antiochia di Siria, nella quale per prima fu usato il venerando nome di cristiani, i vescovi della provincia e della diocesi dell'oriente, radunatisi, consacrarono vescovo, canonicamente, il reverendissimo e da Dio amatissimo Flaviano, con l'approvazione di tutta la chiesa, che, unanime onorava quest'uomo. L'ordinazione è stata riconosciuta conforme alla legge ecclesiastica anche dalle autorità del concilio.
Vi informiamo, inoltre, che il reverendissimo e carissimo a Dio Cirillo è vescovo della madre di tutte le chiese, la chiesa di Gerusalemme. A suo tempo egli è stato consacrato, conforme alle norme ecclesiastiche, dai vescovi della provincia, e spesso, in diverse circostanze, ha lottato strenuamente contro gli Ariani.
Poiché, dunque, queste cose sono state compiute da noi legalmente e canonicamente, preghiamo la reverenza vostra di volersi rallegrare con noi, uniti scambievolmente dal vincolo dell'amore che viene dallo Spirito e dal timore di Dio che vince ogni umana passione, e antepone l'edificazione delle chiese all'amicizia ed alla benevolenza verso i singoli. In tal modo, in pieno accordo nelle verità della fede, e fortificata in noi la carità cristiana, cesseremo di ripetere l'espressione già biasimata dagli apostoli: Io sono di Paolo, io sono di Apollo; e io sono di Cefa, ma saremo tutti di Cristo, che non può esser diviso in noi; e, se Dio ce ne farà degni, conserveremo indiviso il corpo della chiesa e compariremo tranquilli dinanzi al tribunale di Dio.

Canone II

Del buon ordinamento delle diocesi, e dei privilegi dovuti alle grandi città dell'Egitto, di Antiochia, di Costantinopoli; e del non dover un vescovo metter piede nella chiesa di un altro.
I vescovi preposti ad una diocesi non si occupino delle chiese che sono fuori dei confini loro assegnati né le gettino nel disordine; ma, conforme ai canoni, il vescovo di Alessandria amministri solo ciò che riguarda l'Egitto, i vescovi dell'Oriente, solo l'oriente, salvi i privilegi della chiesa di Antiochia, contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell'Asia, amministrino solo l'Asia, quelli del Ponto, solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia.
A meno che vengano chiamati, i vescovi non si rechino oltre i confini della propria diocesi, per qualche ordinazione e per qualche altro atto del loro ministero. Secondo le norme relative all'amministrazione delle diocesi, è chiaro che questioni riguardanti una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le direttive di Nicea. Quanto poi alle chiese di Dio fondate nelle regioni dei barbari, sarà bene che vengano governate secondo le consuetudini introdotte ai tempi dei nostri padri.

Canone III

Che dopo il vescovo di Roma, sia secondo quello di Costantinopoli.
Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d'onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma.

Il trasferimento della capitale dell’impero da Roma a Costantinopoli (330) permette a quest’ultima di liberarsi della dipendenza gerarchica, a livello ecclesiastico, dalla sede di Eraclea e di affiancarsi in breve tempo alle altre quattro sedi.

Al concilio ecumenico di Costantinopoli, convocato dall’imperatore Teodosio per chiudere definitivamente la questione ariana, si suddivide l’oriente in cinque circoscrizioni ecclesiastiche, corrispondenti alle cinque diocesi civili: Egitto (sotto Alessandria), Oriente (sotto Antiochia), Asia (sotto Efeso), Ponto (sotto Cesarea di Cappadocia) e Tracia (prima sotto Eraclea, poi sotto Costantinopoli). Antiochia mantiene la diocesi d’oriente con le chiese della Georgia e della Persia.

I vescovi dell’occidente non parteciparono neppure all’incontro sinodale, per cui fino alla seconda metà del VI sec. non lo riconobbero come ecumenico.

Ciò che susciterà non poche polemiche sarà il canone relativo all’assegnazione alla sede di Costantinopoli (la Nuova Roma) di un primato d’onore subito dopo l’Antica Roma. Il declassamento al terzo posto non piacque affatto alla sede di Alessandria, che, nelle sue rimostranze, ottenne l’appoggio del papato almeno sino all’869 (anno del Costantinopolitano IV); tuttavia dopo Calcedonia (451) il patriarcato di Alessandria fu spezzato dallo scisma e la grande maggioranza seguì il monofisismo (copti).

Lo stesso papato, protestando energicamente contro i privilegi concessi alla Nuova Roma, collegherà il primato di una sede esclusivamente al proprio carattere “apostolico”. Infatti, temendo che Bisanzio potesse un giorno ambire al primo posto d’onore, il papato affermò che Roma era stata la sede di Pietro e Paolo (poi dirà solo di Pietro), Antiochia era stata la sede di Pietro prima di Roma, Alessandria era stata la sede di Marco, redattore del “vangelo di Pietro”. Sicché ora Roma aveva ogni diritto di considerarsi come la principale sede ecclesiastica di tutto l’ecumene cristiano.

Costantinopoli ribatterà a queste tesi dicendo di essere stata fondata da Andrea il protoclito, fratello di Pietro, e in ogni caso rifiuterà sempre di far dipendere l’importanza di una sede ecclesiastica dalle sole proprie tradizioni apostoliche (Gerusalemme in tal senso avrebbe dovuto essere considerata più importante di Roma).

Per i teologi bizantini la centralità di una sede ecclesiastica poteva dipendere da molteplici fattori contingenti, da quelli culturali a quelli politici: alla sede romana in fondo era stato riconosciuto un primato d’onore appunto perché essa era stata anche la sede dell’imperatore e del senato: per quale motivo non si poteva riconoscere a Bisanzio il secondo posto d’onore ora ch’era diventata la nuova capitale dell’impero?

La leadership di una capitale, quando veniva formalizzata nella legislazione conciliare, era già nella realtà un’evidenza acquisita. Per questo si pensò ad un certo punto di considerare Costantinopoli più importante di Alessandria e di Antiochia e non meno importante di Roma. Peraltro mentre Roma era presente in un territorio devastato dalle incursioni barbariche, di religione o pagana o ariana, Costantinopoli faceva invece riferimento a un impero romano-cristiano relativamente omogeneo.

In occidente il concetto di apostolicità era stato abbinato da Ireneo e Tertulliano a quello di successione apostolica per imbrigliare gli eretici, cioè per dimostrare che andavano considerate apostoliche solo le sedi che potevano garantire una regolare e legittima successione dopo il loro fondatore.

Col tempo però il principio di apostolicità era stato usato dalla chiesa romana per rivendicare una certa autorità giurisdizionale, che la faceva politicamente diventare più “romana” che “apostolica”.

Questo modo di comportarsi trovava dissensi nello stesso occidente. Il vescovo Cipriano infatti s’accorse che la successione apostolica rivendicata dal papato veniva di fatto a contrapporsi a quella collegiale dei vescovi, sicché egli arrivò a dire che “tutti i vescovi occupano la cattedra di Pietro”. La successione diretta di Pietro in sostanza andava considerata in maniera simbolica, anche se aveva effetti reali nella realtà locale.

La cosa più singolare è che la chiesa romana considerava i poteri di Pietro come trasmissibili automaticamente e individualmente ai propri successori di Roma: come se il papa fosse un sovrano il cui potere si riceveva per via dinastica!

Lo dimostra il fatto che al concilio di Sardica si stabilì ufficialmente il potere giurisdizionale (politico) della sede romana e l’imperatore Graziano, nel 378, lo ratificò. Il papa veniva a porsi come “vicario del basileus” nella parte occidentale dell’impero.

Il concilio di Calcedonia (451)

Testo originale (estratti)

Canone VI

Nessun chierico deve essere ordinato assolutamente.
Nessuno dev'essere ordinato sacerdote, o diacono, o costituito in qualsiasi funzione ecclesiastica, in modo assoluto. Chi viene ordinato, invece, dev'essere assegnato ad una chiesa della città o del paese, o alla cappella di un martire, o a un monastero. Il santo Sinodo comanda che una ordinazione assoluta sia nulla, e che l'ordinato non possa esercitare in alcun luogo a vergogna dì chi l'ha ordinato.

Canone II

Che non si consacri un vescovo per denaro.
Se un vescovo fa una sacra ordinazione per denaro, e ridotto, così, ad una vendita ciò che non si può vendere, avesse consacrato per lucro un vescovo, o un corepiscopo, o un presbitero, o un diacono, o qualsiasi altro del clero, o avesse promosso qualcuno, per denaro, all'ufficio di amministratore, o di pubblico difensore, o di guardia, o qualsiasi altro ministero per turpe desiderio di lucro, egli si espone - se il fatto è provato - al pericolo di perdere il suo grado. D'altra parte, quegli che ha ricevuto l'ordinazione non dovrà assolutamente riportare alcun vantaggio da una ordinazione o promozione fatta per guadagno; venga quindi, deposto dalla sua dignità, o dall'ufficio che ha ottenuto con denaro. Se poi qualcuno fa da mediatore in azioni così vergognose e in così illeciti guadagni, se si tratta di un chierico, decada dal proprio grado, se si tratta di un laico o di un monaco, sia colpito da anatema.

Canone III

Un chierico o un monaco non deve occuparsi di cose estranee.
Questo santo Sinodo è venuto a conoscenza che alcuni che appartengono al clero per turpe guadagno fanno i locatari dei beni degli altri, e si danno ad affari mondani, e, mentre non si danno alcun pensiero del servizio del Signore, corrono invece qua e là per le case dei secolari, e per avarizia assumono il maneggio delle altrui proprietà. Stabilisce, allora, il santo e grande Sinodo che nessuno, in seguito, vescovo, o chierico o monaco possa prendere in affitto beni o anche offrirsi amministratore in affari mondani, a meno che venga chiamato, senza potersi esimere, dalle leggi alla tutela. dei fanciulli o quando il vescovo della città incarica qualcuno di occuparsi delle cose ecclesiastiche, o degli orfani e delle vedove, che non abbiano chi si cura di loro, o di quelle persone che più degli altri abbiano bisogno del soccorso della chiesa, per amore di Dio. Se qualcuno, in avvenire, tentasse di trasgredire quanto stabilito, costui sia sottoposto alle pene ecclesiastiche.

Canone V

Un chierico non deve passare da una chiesa ad un'altra.
Quanto ai vescovi e chierici che passano da una città ad un'altra, si è deciso che conservino tutto il loro vigore quei canoni che sono stati stabiliti dai santi padri su questo argomento.

Canone IX

I chierici non devono adire i tribunali secolari.
Se un chierico ha una questione con un altro chierico non trascuri il proprio vescovo per adire i tribunali secolari. La causa, invece, sia prima sottoposta al vescovo, oppure, col suo consenso, ad arbitri scelti di comune accordo dalle due parti. Se qualcuno agisce contro queste decisioni, sia soggetto alle pene canoniche. Se un chierico, poi, avesse qualche questione contro il proprio o altro vescovo, sia giudicato presso il sinodo provinciale. Se, finalmente, un vescovo o un chierico avessero motivo di divergenza col metropolita stesso della provincia, si rivolgano o all'esarca della diocesi, o alla sede della città imperiale, Costantinopoli, e presso di questa si tratti la causa.

Canone XII

Un vescovo non deve essere fatto metropolita con lettere imperiali, né una provincia deve essere divisa in due.
Siamo venuti a sapere che alcuni, contro ogni norma ecclesiastica, si sono rivolti alle autorità ottenendo che con una pragmatica imperiale una provincia fosse divisa in due, con la conseguenza che in una stessa provincia vi siano due metropoliti. Questo santo sinodo stabilisce che per l'avvenire niente di simile possa esser fatto da un vescovo sotto pena di decadenza dal proprio rango. Quelle città, però, che già avessero ricevuto con lettere imperiali l'onorifico titolo di metropoli godranno del solo onore, così pure il vescovo che governa quella chiesa, salvi, naturalmente, i privilegi della vera metropoli.

Canone XXVI

Ogni vescovo deve amministrare i beni della propria diocesi attraverso un economo.
Poiché in alcune chiese, come abbiamo sentito dire, i vescovi amministrano i beni ecclesiastici senza un economo, disponiamo che ogni chiesa che ha un vescovo abbia anche un economo, scelto dal proprio clero, il quale amministri i beni della chiesa sotto l'autorità del proprio vescovo. Ciò, perché l'amministrazione della chiesa non sia fatta senza controllo, e, di conseguenza, non vengano dilapidati i beni ecclesiastici, e non ne nasca il disprezzo per il sacerdozio stesso. Se il vescovo non agirà in conformità a queste disposizioni, andrà soggetto alle leggi divine.

Canone XXVIII

Voto sui privilegi della sede di Costantinopoli.
Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone [III] or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma.
Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell'antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella.
Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell'Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli.
E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall'arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l'uso, e presentati a lui.

Il concilio di Calcedonia è costretto a prendere atto di una situazione amministrativa della chiesa cristiana poco dignitosa: l’alto clero tendeva ad abusare sempre più del proprio potere. E per porre rimedio a questo riconosce alla sede di Costantinopoli poteri di regolamentazione sempre più significativi, essendo inefficaci quelli di Roma.

Al concilio vengono distaccate da Antiochia le province della Palestina (Israele e Giordania) per attribuirle a Gerusalemme, costituita in patriarcato a se stante. E si confermano all’arcivescovo di Costantinopoli la giurisdizione sul Ponto, l’Asia (Siria e Libano) e la Tracia, cioè il diritto di ordinare i vescovi (metropoliti) per tali esarcati, nonché il diritto di giudicare in appello le cause delle tre diocesi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme e infine il diritto di nominare i vescovi “inter barbaros” in oriente. Tutti i titolari delle cinque sedi pentarchiche hanno il titolo di “patriarca”.

A Calcedonia in sostanza si completa l’evoluzione delle sedi in cinque patriarcati. Il papato non perde nulla nell’area occidentale, ma ora deve rinunciare a rivendicare qualunque cosa nell’area orientale dell’impero.

Al di fuori dell’impero romano si sviluppano i catholicati di Mesopotamia (Persia) e di Armenia, ma poiché diventano il primo nestoriano, il secondo monofisita, di essi non si parlerà più nei concili ecumenici successivi. Diventa autonomo anche il catholicato di Georgia.

In base alla deliberazione del canone 28 alla sede di Costantinopoli, quale città imperiale e dunque nuova Roma, vengono accordati uguali privilegi di quelli dell'antica Roma.

Costantinopoli deve dunque apparire grande non solo sul piano civile, in quanto le sono attribuiti “privilegi civili uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma” ma deve “apparire altrettanto grande anche nel campo ecclesiastico, essendo la seconda dopo Roma”. La concezione politico-religiosa della chiesa imperiale ha qui la meglio sia sul principio petrino del papato (basato su un’interpretazione distorta del passo matteano 16,18), come sull'antica centralità della sede alessandrina.

Papa Leone I protestò contro questa deliberazione, facendo valere il principio politico-ecclesiastico del primato apostolico-petrino, affermando che non l'importanza politica di una città doveva determinare la sua importanza nella chiesa, ma piuttosto la sua fondazione apostolica: Roma derivava la sua dignità ecclesiale da Pietro e Paolo e non dal suo rango di capitale dell'impero.

A suo parere anche la seconda e la terza posizione erano già fissate per l'eternità. A Roma segue Alessandria e poi Antiochia. Questa era la cosiddetta teoria delle tre sedi petrine, secondo la quale, oltre a Roma, anche Alessandria ed Antiochia ricoprivano un rango particolare nella chiesa in quanto risalenti direttamente a Pietro.

Questo pontefice fu il primo a formulare in maniera esplicita il senso politico-giurisdizionale del primato di Roma. Con lui infatti il papato rivendica espressamente la “plenitudo potestatis” sulla chiesa universale. Essendo l’unico “vicarius Petri”, in quanto diretto successore ed erede dell’apostolo, considerato – a torto – capo della chiesa primitiva, i primati delle altre circoscrizioni ecclesiastiche non potevano che dipendere da quello di Roma, e nessun altro patriarca poteva avere la “pienezza” della potestà ma solo una sua “parte”, al punto che la sede romana era l’unica a non doversi sentire obbligatoriamente legata alle decisioni dei concili, a meno che questi non fossero convocati e presieduti dallo stesso pontefice.

E’ evidente che, stante queste tesi, Costantinopoli non avrebbe dovuto neppure essere elencata nei canoni conciliari, e il fatto ch’essa dichiarasse d’essere stata fondata da Andrea il protoclito sarebbe servito a ben poco, essendo noto che Andrea era stato crocifisso a Patrasso in Grecia, anche se fu sicuramente l’apostolo del mondo greco.

In realtà l’importanza della sede di Costantinopoli era già enorme a quel tempo, sul piano sia politico che ecclesiastico: non a caso tutti i primi sette concili ecumenici si svolgeranno o direttamente a Costantinopoli, o subito vicino, come Calcedonia e Nicea, o, comunque, sempre in Anatolia, come Efeso. Dopo il trasferimento della capitale si sarebbe tranquillamente potuto mettere al primo posto Costantinopoli nell’elenco delle principali sedi ecclesiastiche: se non lo si fece, fu semplicemente per non turbare la suscettibilità del clero romano.

Giustiniano (527-65)

Sotto il regno di Giustiniano si ha la codificazione della pentarchia patriarcale. E’ lui che dal 531 utilizza il titolo di “patriarca” per indicare soltanto i vescovi delle cinque sedi. Ormai i titoli di “arcivescovo” e “patriarca” si equivalgono e sono superiori a quello di “metropolita”.

Giustiniano è convinto che il papato avrebbe fatto di tutto per realizzare il suo sogno di riunificare l’impero sotto un unico potere e un’unica fede, ma il papato rifiutò di collaborare alla realizzazione di questo progetto (Renovatio Imperii), avendo intenzione di governare nell’area occidentale con gli stessi poteri del basileus.

Giustiniano era anche disposto a riconoscere al papato il potere di giurisdizione su tutte le chiese d’occidente e probabilmente gli avrebbe concesso molto di più se la “renovatio” fosse stata realizzata. Ma non poteva far questo né contro la volontà degli altri patriarcati, né, tanto meno, contro se stesso, cioè contro la prerogativa di una certa autonomia politica nei confronti di qualunque istituzione ecclesiastica.

Gli sforzi profusi per realizzare tale progetto di riunificazione furono enormi e non sortirono alcun effetto in occidente, anzi, finirono con indebolire i confini orientali dell’impero, sempre più minacciati dalla pressione dei popoli non cristiani.

Non solo, ma la tendenza di Giustiniano a legiferare anche in campo ecclesiastico lo portava ad essere accusato di “cesaropapismo”. Il che inevitabilmente faceva della pentarchia una teoria a favore dell’autonomia politica della chiesa.

Ingenuamente teologi di spicco come Massimo Confessore, Tarasio, Niceforo e Teodoro Studita, opponendosi al cesaropapismo in nome della pentarchia, non s’accorsero che la sede romana stava utilizzando il medesimo concetto di pentarchia per affermare il proprio “papocesarismo”.

Dopo Giustiniano

Il concilio ecumenico Costantinopolitano III (680-81) confermerà le decisioni espresse nel canone 3 del concilio ecumenico Costantinopolitano I e nel canone 28 del concilio di Calcedonia.

A partire dal Costantinopolitano III un concilio veniva considerato ecumenico quando vi partecipavano rappresentanti di tutti e cinque i patriarchi.

Col passare del tempo (VIII-IX secolo) la pentarchia viene sempre più ideologizzata: i cinque patriarchi sono le cinque colonne su cui è costituita la chiesa, su loro poggia l'infallibilità della chiesa: essi non possono sbagliare tutti insieme.

Nell'ambito della pentarchia è a Roma che si riconosce ancora il primo posto (primus inter pares), ma è evidente che la situazione di fatto sta assumendo contorni preoccupanti per i destini della cristianità.

L’imperatore Leone III (717-41) entra in rotta di collisione con papa Gregorio II (715-31) per la questione iconoclastica. La scomunica di Leone viene confermata anche dal successore Gregorio III (731-41), che nel 731 riunisce un sinodo apposito per condannarne il comportamento. Come contromossa l'imperatore bizantino decide di portare la Grecia ed il sud dell'Italia sotto l'egida del patriarca di Costantinopoli e, a tal fine, promuove una campagna militare nel 737.

Come noto, l’ultimo tentativo da parte imperiale di legiferare sulle questioni dogmatiche sarà proprio quello della distruzione delle immagini sacre. A quel tempo i maggiori teologi bizantini avevano preso le difese della sede romana, che s’era opposta nettamente al basileus, ma nessuno pensò mai di accettare l’idea che tale sede potesse vantare un proprio primato sulle altre sedi ecclesiastiche in nome di un diritto divino o di una esclusiva apostolicità, tanto meno se questa veniva usata in senso personalistico, identificando l’apostolo Pietro coi suoi diretti successori al soglio pontificio. Nessun teologo ortodosso s’è mai spinto ad accettare un primato giuspolitico e quindi giurisdizionale della sede romana sulle altre sedi e persino sullo stesso potere imperiale.

E’ profondamente sbagliato quindi sostenere che l’idea di pentarchia, se poteva essere utilizzata contro l’impero, onde difendere l’autonomia teologica della chiesa, non avrebbe mai potuto essere utilizzata contro l’idea di primato politico della chiesa romana.

Di fatto il papato, con Adriano II (867-72), riconosce la legittimità giuridica degli altri quattro patriarcati solo in occasione del concilio Costantinopolitano IV dell’869-70 e in quello di Sofia dell’879. Sino ad allora il papato ammetteva nell’elenco solo Antiochia e Alessandria e non riconosceva affatto il titolo di “patriarca ecumenico” al metropolita di Costantinopoli. Adriano II si sentiva unico erede e successore di Pietro, titolato a governare su tutta la cristianità, al fine di garantirne l’assoluta unità monarchica.

Ma già prima, col papa Nicolò I (858-67), nel sinodo romano dell’864, si era deciso che nessun concilio ecumenico poteva essere convocato senza l’autorizzazione di Roma. Va qui ricordato che l'imperatore Michele III (842-67) si era opposto al primato papale, chiedendo la revoca della scomunica contro Fozio e accusando la chiesa romana di eresia per la formula del Credo relativa alla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (Filioque). Nel 867 un sinodo a Costantinopoli arrivò a scomunicare papa Niccolo I, che s’era permesso di dichiarare decaduto il patriarca Fozio.

Papa Giovanni VIII (872-82) s’era proclamato “vicario di Cristo”, cioè suo unico rappresentante sulla terra e considerava Roma “caput” di tutta la cristianità e dell’impero.

Vi era dunque materia sufficiente per scontrarsi apertamente con Bisanzio. Tuttavia gli imperatori, generalmente, preferivano non giungere mai a rotture esplicite con la sede romana, proprio perché s’illudevano di poter ottenere aiuti militari contro il mondo musulmano.

Concilio Costantinopoli IV (869-70)

Testo originale (estratto)

Canone 12 [Versione latina] I canoni apostolici e sinodali vietano nella maniera più assoluta le nomine e le consacrazioni di vescovi fatte sotto la pressione o per ordine delle autorità secolari; in accordo con tali canoni anche noi stabiliamo e decidiamo che, se un vescovo ha ricevuto la consacrazione a tale dignità per astuzia o imposizione dei potenti, deve essere assolutamente rimosso, in quanto, non dalla volontà di Dio e secondo la disciplina e la legge della chiesa, ha voluto o ha accettato di possedere il dono di Dio, ma piuttosto dalla volontà della carne, dagli uomini e per la mediazione degli uomini.

Canone 12 [Versione greca] È pervenuta ai nostri orecchi (l’affermazione) che un sinodo non può aver luogo senza la presenza dei governanti. In nessun passo però i canoni divini stabiliscono che i governanti secolari convengano nei sinodi, ma i soli vescovi; perciò non riscontriamo neppure che ci sia stata la loro presenza, eccetto nei concili ecumenici. In realtà non è per nulla giusto che i governanti secolari siano testimoni di fatti che sono di competenza dei sacerdoti di Dio.

Canone 17 [Versione latina] D’altra parte non abbiamo nemmeno voluto ascoltare l’abominevole affermazione fatta da gente ignorante secondo la quale il Sinodo non può essere celebrato senza la presenza dell’autorità secolare; mai fino ad oggi i sacri canoni hanno prescritto la convocazione dei principi secolari ai sinodi, bensì soltanto quella dei vescovi. Così noi costatiamo che essi non furono mai presenti ai sinodi, salvo che non si trattasse di concili ecumenici: infatti non è conveniente che le autorità secolari siano testimoni di ciò che talvolta può accadere ai sacerdoti di Dio.

Canone 21 [Versione latina] La parola di Dio che Cristo ha rivolto ai santi apostoli e ai suoi discepoli: "Chi accoglie voi accoglie me" [Mt 10,40], e "chi disprezza voi disprezza me" [Le 10,16], noi crediamo sia stata rivolta anche a tutti coloro che, dopo di loro e a loro somiglianza, sono divenuti sommi pontefici e principi dei pastori nella chiesa cattolica. Pertanto ordiniamo che nessuno dei potenti di questo mondo oltraggi o tenti di rimuovere dalla propria sede coloro che occupano la carica di patriarca, ma al contrario accordino loro onore e rispetto: in primo luogo al santissimo papa dell’antica Roma, poi al patriarca di Costantinopoli, e infine a quelli di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. E nessuno altro rediga scritti o discorsi contro il santissimo papa dell’antica Roma, sotto il pretesto di crimini da lui commessi, come ha fatto recentemente Fozio e molto prima di lui Dioscoro.
Chiunque si comporterà con tanta insolenza e audacia da recare ingiuria per scritto o a voce, seguendo l’esempio di Fozio e Dioscoro, contro la sede di Pietro, il principe degli apostoli, riceverà una condanna uguale e identica alla loro.
Se poi qualche autorità civile o qualche potente tentasse di cacciare il papa dalla sede apostolica o qualcuno degli altri patriarchi, sia colpito da anatema.
Inoltre se sarà convocato un concilio ecumenico e vi sarà qualche sospetto o controversia nei riguardi della santa chiesa di Roma, converrà, con il dovuto rispetto e deferenza, informarsi sul punto controverso e accogliere una soluzione che giovi a sé o agli altri, ma mai avere l’audacia di pronunciare una sentenza contro i sommi pontefici dell’antica Roma.

Canone 13 [Versione latina] Se qualcuno usasse una tale temerarietà da sollevare secondo (il modo di) Fozio e Dioscoro per scritto o verbalmente reazioni eccessive contro la cattedra di Pietro, il principe degli apostoli, riceva la stessa condanna (espressa) a quelli; se poi, essendo stato convocato un concilio ecumenico, è risultato un qualche dubbio circa la chiesa dei romani, si può con prudenza e con la dovuta modestia porre domande intorno alla questione in ballo e accogliere la soluzione e o essere aiutati o aiutare, non tuttavia alzare audacemente accuse contro i sommi sacerdoti della Roma più antica.

Il quarto Concilio di Costantinopoli si tenne dal 5 ottobre 869 al 28 febbraio 870 in due sessioni, la prima è riconosciuta dai cattolici, la seconda dagli ortodossi.

Gli originali greci del quarto Concilio di Costantinopoli sono purtroppo andati smarriti. L'estratto che riportiamo è tratto dalla versione datane dal bibliotecario Anastasio.

Si può comunque facilmente notare come la prassi di modificare i testi ufficiali, facendo sparire gli originali, abbia cominciato a diventare consueta nell’ambito della chiesa romana (il falso più clamoroso sarà proprio quello della Donazione di Costantino, con cui si riuscirà a convincere i franchi ad assumere il titolo di imperatori del sacro romano impero, in competizione con quello legittimo del basileus).

In questi testi appare evidente come la sede romana non voglia più avere rapporti con la sede ecclesiastica di Costantinopoli e pretenda di governare in occidente in maniera non solo ecclesiastica ma anche politica.

Dopo lo scisma del 1054

Dopo lo scisma del 1054 e la riforma teopolitica gregoriana, i bizantini arriveranno a negare qualunque primato, anche quello etico, alla sede romana e il patriarcato di Costantinopoli occuperà il primo posto tra le chiese ortodosse, seguito in ordine onorifico dalle altre chiese e patriarcati.

Il concetto di pentarchia viene addirittura usato dagli ortodossi in chiave anti-latina, in quanto che essa, a causa dello scisma romano, era diventata “tetrarchica”.

Successivamente la pentarchia verrà osteggiata dalle chiese nazionali indipendenti o autocefale (Georgia, Bulgaria, Serbia, Russia…), proprio perché i bizantini tendevano a impedire la formazione di chiese autonome dai quattro patriarcati.

Pentarchia e primato sono comunque apparsi sempre inconciliabili agli ortodossi, in quanto si veniva a negare la pari potestà e dignità a tutti i patriarchi. Al principio di una monarchia romana dalle forti accentuazioni assolutistiche, l’oriente bizantino ha sempre opposto il principio della collegialità, che trovava appunto conferma nella struttura di una chiesa universale come comunione di chiese locali.

Il primato che gli ortodossi riconoscevano a Roma aveva un riferimento al primato politico della capitale dell’impero, primato che per loro veniva progressivamente meno quanto più le tribù barbariche, di religione pagana o ariana, sconvolgevano l’unità ideologica e politica dello stesso impero.

Il primato di Roma andava inteso in senso onorifico, cronologico, etico, certamente non politico-giurisdizionale né, tanto meno, dogmatico. I bizantini consideravano il primato sempre all’interno di una visione sinodale-conciliare-collegiale della cristianità.

Non è mai stato riconosciuto alla sede romana un magistero dottrinale superiore a quello delle altre sedi patriarcali, e meno che mai una pretesa infallibilità della fede, tanto più che nelle controversie dottrinali cristologiche il contributo teologico di Roma è sempre stato del tutto irrilevante. Sino all’eresia filioquista le divergenze tra oriente e occidente cristiano vertevano su questioni pratiche, come l’amministrazione dei sacramenti, la celebrazione delle festività, ecc.

L’autorità indiscussa nel campo della dottrina era solo la fede trasmessa dai Padri nei concili. Ancora oggi la chiesa romana rifiuta questo principio in nome del fatto ch’essa si ritiene “unica chiesa di Cristo”.

Titoli ecclesiastici dell'Ordine episcopale secolare (www.alateus.it/gerarchia.htm)

VESCOVI ED EPARCHI
'Vescovo' deriva da epískopos, soprintendente, 'eparco' da epí, sopra e árchein, comandare. Sono tutti termini greci antichi.
Questi vescovi, detti 'diocesani' o 'residenziali' per distinguerli dai 'titolari' sono le guide spirituali d'una diocesi (od eparchia, in Oriente); devono aver ricevuto l'ordine sacro dell'episcopato ed esser in comunione con il Sommo Pontefice.

VESCOVO TITOLARE
È un titolo puramente onorifico conferito di solito a prelati di curia romana od ausiliarî (cioè che aiutano il vescovo in una diocesi) per dare loro il grado di vescovo senza coinvolgere diocesi veramente esistenti. Nominalmente sarebbe il capo di una diocesi esistente solo sulla carta perché da tempo soppressa od abbandonata. Fino al XX secolo era detto 'vescovo in partibus infidelibus' cioè “vescovo di una diocesi nei territorî infedeli” perché i nomi di queste diocesi platoniche erano quelli di città oggi ortodosse od islamiche.

Altri vescovi
I vescovi coadiutori sono degli ausiliarî con diritto di successione al vescovo che assistono; i vescovi emeriti sono gli ex vescovi d'una sede che han dovuto abbandonare per età, malattia od altro.

I principi vescovi
Nel medioevo accade che a certi vescovi residenziali ed a certi abati venissero concesso in feudo il territorio della sua sede: si parlò così di “vescovi-conti” o “principi vescovi”.

ARCIVESCOVO MAGGIORE
'Arcivescovo Maggiore' è il titolo che spetta al capo di una Chiesa cattolica di rito non romano, al quale però non è stato concesso il nome di 'patriarca' perché la sua sede ha meno prestigio od antichità di quelle patriarcali. Come i patriarchi, essi vengono eletti da un sinodo dei vescovi della loro Chiesa autonoma, però a differenza dei patriarchi gli arcivescovi maggiori devono esser riconfermati dal papa.

ARCIVESCOVO TITOLARE
È come i vescovi titolari, ma con un grado onorifico superiore; generalmente questa dignità vien concessa a prelati del Vaticano od a nunzî papali.

ARCIVESCOVO (RESIDENZIALE)
Nel rito latino, questo titolo spetta ai vescovi metropolitani, con qualche eccezione: per es., in Italia c'è una quindicina di arcivescovi suffraganei (cioè sottoposti ad un altro arcivescovo), quasi tutti nel Sud; Udine, Lucca e Gaeta, invece, sono diocesi senza suffraganee, che quindi dovrebbero essere solo vescovadi ma che però son state elevate dal papa al grado arcivescovile.(4) In genere tutte le più importanti città cattoliche hanno un arcivescovo.
L'arcivescovo ha una «limitata giurisdizione» sui suoi vescovi suffraganei.

PRIMATE
'Primate', da primus, è un titolo onorifico riservato al vescovo della diocesi anticamente più importante di un Paese; il primato oggi non comporta altro che alcuni privilegi di etichetta, ma nei tempi in cui le comunicazioni con Roma erano molto lente ed insicure ed in cui l'infallibilità papale non era un dogma, il primate rivestiva un certo ruolo nella conduzione delle Chiese locali.

PATRIARCA
“Patriarca” è il titolo del vescovo a capo di una Chiesa autonoma o d'una federazione di diocesi (eparchie) locali, con giurisdizione su tutti i vescovi di tali patriarcati.
Il Papa è il vescovo di Roma e patriarca della Chiesa cattolica di rito latino (o cattolica romana). Egli è il più alto di grado fra tutti gli altri patriarchi ed è a capo del collegio dei vescovi di tutta la cristianità cattolica. Molta della sua autorità (e dell'autorità della S. Sede) gli deriva de jure dalla sua qualifica di Patriarca dell'Occidente (e quindi capo della Chiesa romana), prima che dall'esser il capo visibile dell'insieme delle Chiese cattoliche.
È anche un Capo di Stato.
“Papa” è un titolo non ufficiale; i suoi titoli ufficiali sono: Sommo Pontefice della Chiesa Universale, vescovo di Roma, vicario di Cristo, successore di S. Pietro Capo degli Apostoli, Patriarca dell'Occidente, Primate d'Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana, servo dei servi di Dio.

PATRIARCA MINORE
Il 'patriarca minore' (o 'titolare') è un titolo onorario concesso ad alcuni arcivescovi di rito romano, ma senza l'autorità che hanno i patriarchi veri e proprî (vedi sotto).

CARDINALE
'Cardinale' è un titolo onorifico concesso dal papa; sono cardinali di diritto i capi dei vari dicasteri vaticani ed i vescovi delle sette diocesi suburbicarie di Roma: in base al concordato, essi sono automaticamente cittadini vaticani anche se risiedono fuori di esso. Il diritto canonico così li definisce:«essi costituiscono il senato del pontefice romano; sono i suoi principali consiglieri e i suoi collaboratori nel governo della Chiesa». In concreto il titolo di cardinale dà a chi lo possiede il diritto di partecipare al conclave per l'elezione del nuovo papa.
'Cardinale' deriva da incardinatus, perché incardinato ad una chiesa di Roma (cioè teoricamente dovrebbe essere il parroco di una chiesa dell'Urbe (="titolo") come S. Agostino, Santa Maria sopra Minerva, ecc. oppure vescovo di una delle sette sottodiocesi attorno a Roma come la Sabina, Ostia, ecc.)

ESARCA
Derivante dal greco antico exarche's, cioè “soprintendente”, era un termine usato anche in campo civile (gli esarchi di Ravenna erano i governatori bizantini della Romagna).
L'esarca governa, appunto, un esarcato, cioè una porzione del popolo di Dio che per particolari circostanze non è stato eretto a diocesi od eparchia, in qualità di delegato dell'autorità che l'ha creato e non in virtù di una propria potestà episcopale.

VICARIO APOSTOLICO
Il vicario apostolico è l'equivalente cattolico romano dell'”esarca” orientale; si tratta di un prelato nominato dal papa per governare spiritualmente un territorio che non è ancora diventato una diocesi per diversi motivi, come la mancanza di ministri del culto o di risorse materiali.

PREFETTO APOSTOLICO
È un prete – ma non un prelato - colle stesse responsabilità di un Vicario apostolico.

PREFETTO DI UNA PRELATURA PERSONALE
È un vescovo che guida una “prelatura personale” , cioè una società di chierici secolari stabilita dal papa per particolari funzioni apostoliche.

PAPA cronologia.leonardo.it/umanita/papato/cap065.htm

Il titolo Papa (dal greco pappas = nel suo originale significato il termine indica l'infantile papà) venne dapprima usato in oriente riferendosi alla paternità spirituale dei vescovi, abati e metropoliti. Nel V secolo si diffuse via via anche in occidente come titolo riservato al vescovo di Roma; indicato in questa sede come successore di Pietro, godendo così di quel primato derivato da quello attribuitogli da Cristo allo stesso Pietro in seno al collegio degli apostoli; ma poi anche fondatore della prima chiesa cristiana in Roma.

Bibliografia

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
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Aggiornamento: 01/05/2015