STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


MICHELE BERTI DA CALCI,
LE ERESIE MEDIEVALI E L'IDEA DI MARTIRIO

Francesco Traini, Il trionfo di s. Tommaso d'Aquino (chiesa di S. Caterina, Pisa), part.

Premessa storica

Sul piano storico, la decadenza della chiesa cattolico-romana è iniziata con la svolta costantiniana e soprattutto teodosiana, ma essa ha colpito in maniera profonda detta chiesa nel passaggio dall'alto al basso Medioevo, dapprima nei suoi livelli politico-istituzionali, poi in quelli sociali e popolari.

La chiesa ha cominciato a fare del grandissimo dominio economico di cui disponeva un pretesto per imporre sul mondo allora conosciuto la propria egemonia politica, nel momento stesso in cui ha ritenuto che senza una svolta autoritaria non avrebbe potuto conservare il potere acquisito nell'alto Medioevo. Di qui la rottura del 1054 con gli ortodossi, l'avvio delle crociate, la riforma gregoriana, la pratica diffusa del nepotismo e della simonia, l'accentramento dei poteri nelle mani del papato, la costituzione dello Stato della chiesa, la persecuzione degli eretici, ecc.

Tutti i movimenti ereticali sino alla Riforma costituiscono il tentativo di rivedere, restando all'interno dei confini della chiesa, questa evoluzione storica, che pareva irreversibile. Nessuno di essi, tuttavia, riuscì a mettere seriamente in discussione né la svolta autoritaria del papato e della gerarchia ecclesiastica, né il mutamento delle dinamiche sociali in direzione dello sviluppo borghese (chiaramente espresso dallo sviluppo comunale e delle città marinare).

La riforma protestante praticamente scoppierà quando i movimenti ereticali rinunceranno all'idea di poter trasformare in senso democratico la gestione gerarchica del potere politico-religioso. Quest'ultimo, dal canto suo, non volle recepire nulla delle istanze ereticali, per cui ad un certo punto si troverà immerso fino al collo in una ambiguità insostenibile: sul piano dei principi si continuavano ad affermare le tesi più conservative, mentre sul piano sociale si scendeva a compromessi con i ceti borghesi emergenti.

Tuttavia la Riforma, dietro il miraggio del rinnovamento radicale (che comporterà la rottura dell'unità religiosa), non farà che estendere le dinamiche della corruzione economica agli strati sociali più popolari, sostenendo le idee della borghesia commerciale e imprenditoriale. Infatti la Riforma in luogo della mancata rivoluzione democratico-sociale pose da un lato quella intellettuale e morale dell'individuo singolo che si contrappone al collettivo, alla memoria storica, alle tradizioni ecc. e, dall'altro, si limitò a istituzionalizzare una prassi tutt'altro che democratica. L'abbinamento di cristianesimo e capitalismo comporterà una netta prevalenza del lato mercantile nella coscienza cristiano-borghese del nuovo credente.

Ovviamente il fatto che in Europa occidentale si sia passati, sul piano ideologico, da concezioni religiose dell'esistenza a concezioni sempre meno religiose fino a quelle del tutto laiche, non sta di per sé a significare un qualche superamento della corruzione. Il passaggio dal religioso al laico è avvenuto nel mentre si perpetuava la corruzione, anzi questa si è largamente diffusa tra le masse, non in forza della laicizzazione ma a causa della mancata rivoluzione sociale.

L'IDEA DI MARTIRIO

Note di metodo storiografico

La vicenda trecentesca di Michele Berti da Calci, frate minore, è in un certo senso emblematica delle grandi difficoltà che deve superare lo storico allorché di accinge ad esaminare le esemplificazioni pratiche di quelle concezioni di vita secondo cui "la verità può essere testimoniata fino al martirio".

In effetti, una delle grandi tentazioni dell'individualismo religioso (e cristiano in particolare) è sempre stata quella di voler far coincidere "verità" e "martirio", ovvero quella di voler far dipendere la credibilità della prima dalla realtà del secondo.

Kierkegaard è forse l'esempio più eloquente e anche il teorico più significativo dell'equazione "verità=martirio", o meglio "martirio=verità", poiché Kierkegaard attribuiva un netto primato alla prassi. Ponendo il martirio davanti alla verità, è evidente che il punto di vista con cui guardare le cose cambia. Per il danese il "testimone della verità" era tale proprio in quanto perseguitato e il martirio era la riprova della verità della sua fede. Viceversa, se si pone la verità davanti al martirio si vuole in sostanza sostenere che l'una può facilmente portare all'altro in un contesto che non la riconosce. Col che si dà per scontato che la verità professata sia l'unica possibile. Nel primo si ha materialmente bisogno del martirio per dimostrare la verità delle proprie idee, nel secondo si afferma che la mancata affermazione di certe idee porta facilmente al martirio. L'integralismo è lo stesso, solo che in un caso è individualistico (ed è di matrice protestante), nell'altro è corporativo (ed è di matrice cattolica).

E' molto difficile per uno storico valutare fino a che punto sia "sensato" morire per un idea. E' anzi quasi impossibile giudicare il valore di certe scelte che in definitiva vengono compiute a livello di coscienza individuale.

Nel caso di Calci infatti non si ha a che fare con la testimonianza di un popolo o di una parte di esso a favore di questa o quella verità, ma con la testimonianza di un individuo singolo, come p.es. nei casi di Tommaso Moro e di Serveto.

Lo storico può facilmente scrivere parole di fuoco contro i persecutori, appellandosi alla libertà di coscienza o di parola, o ad altri diritti che, se vogliamo, fanno parte più della mentalità moderna che antica; può fare analisi politiche e ideologiche sfruttando il senno del poi, con cui facilmente poter smascherare i torti degli uomini di potere, e può fare altre cose indegne della sua professione. Ma una cosa, nonostante tutta la sua buona volontà, gli riuscirà sempre difficile: valutare le intenzioni soggettive.

Astrattamente parlando, infatti, chi potrebbe dire con assoluta sicurezza che la ritrattazione di Galilei fu eticamente meno valida della non-ritrattazione di Giordano Bruno? Come si può impostare un discorso "astratto" quando la coscienza individuale è così terribilmente concreta?

Paolo di Tarso, che certamente non fu uno -come p.es. il protomartire Stefano- disposto a equiparare martirio e verità, in quanto non perdeva mai occasione di appellarsi ai tribunali di Cesare sfruttando la sua cittadinanza romana, disse a chiare lettere che se era bene la presenza dei perseguitati, non era però bene la presenza dei persecutori, lasciando così intendere che chiunque volesse testimoniare la verità doveva sempre sincerarsi di verificare il valore dei mezzi usati, ovvero l'opportunità delle modalità adottate.

Egli cioè era consapevole che la verità di per sé non fa giusti, in quanto esiste un compito pedagogico da rispettare, quello appunto della persuasione ragionata, paziente, finalizzata a coinvolgere in un progetto comune il maggior numero possibile di persone.

Oltre a ciò lo storico dovrebbe considerare che qualunque personalizzazione del rapporto "persecutore-martire" non ha senso sul piano storiografico. Nel senso cioè che come il martire può essere divenuto tale perché in quel momento rappresentava una verità ben più grande di quella testimoniata soggettivamente, così il persecutore può aver svolto un ruolo rovesciato al servizio della menzogna, ammesso e non concesso che si possa stabilire nettamente il confine tra le due cose.

Se uno storico non sa scorgere dietro i comportamenti soggettivi le cause oggettive che li hanno relativamente condizionati: cultura, posizione politica, conflitti sociali e di classe ecc., è meglio che cambi mestiere. Egli infatti non solo deve avere grande esperienza nell'analisi dei fattori oggettivi, indipendenti dalla volontà umana, ma deve anche essere in grado di capire fino a che punto questa volontà avrebbe potuto ovviare a quei condizionamenti ponendosi in maniera autonoma. Insomma i suoi livelli di competenza professionale e di sensibilità umana devono essere di molto superiori alla media.

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La psicanalisi non va tanto per il sottile nei confronti di chi in nome di un'idea è disposto a sacrificare anche la propria vita. "Manie di persecuzione", "paranoia", "complessi di colpa", "delirio di onnipotenza", "vittimismo"... sono talmente tante le definizioni che non riuscirebbe a sottrarvisi neppure una persona del tutto normale.

Tuttavia, se c'è una cosa in cui la psicanalisi manifesta nel modo più evidente i suoi limiti, è proprio nell'incapacità di saper "storicizzare le idee", cioè nel saper individuare il nesso che lega "idee personali" con "istanze collettive". Quando cerca legami di tal genere, la psicanalisi non fa che allargare alle masse quelle nevrosi o psicosi già individuate nell'individuo singolo.

Per la psicanalisi (almeno quella freudiana) il collettivo non è che la somma di tante individualità più o meno isolate: tutto viene fatto dipendere dall'inconscio, dall'infanzia, dal rapporto coi genitori... e nulla o quasi nulla dipende dalla cultura, dai valori, dalle istanze sociali di emancipazione che si sono ereditate dal passato o in cui ci si trova a vivere nel presente.

Posta l'analisi in questi termini, è praticamente impossibile non attribuire una qualche forma di devianza a quelle testimonianze della verità che si discostano dai canoni interpretativi ufficiali. Il "diverso" viene facilmente etichettato come "folle".

Se lo storico ragionasse in termini così individualistici, dovrebbe poi continuamente chiedersi il motivo per cui esista un certo "percorso storico". Infatti, costatando l'incredibile sviluppo di opposte teorie nel corso della storia, lo storico dovrebbe essere indotto a pensare che l'uomo è soltanto un fastello di contraddizioni senza senso.

Sotto questo aspetto verrebbe quasi da pensare che la ricerca del martirio può anche servire, per talune persone, a darsi una forma simulata di identità, una sorta di identificazione del sé secondo una logica di contrapposizione, del tipo: "gli altri mi odiano, dunque io sono". Ovviamente per queste persone, che certo del tutto normali non sono, l'indifferenza è parola tabù, un vero e proprio horror vacui.

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Se uno volesse considerare la morte del Cristo come un modello da imitare, gli basterebbe agire da terrorista o da fanatico di qualche religione o causa politica, per essere facilmente esaudito. Questo non per dire che il Cristo fosse un terrorista, ma per dire che quando uno cerca, come modello da imitare, una morte violenta, qualcosa di esaltato nella sua mente deve esserci.

I modelli da imitare dovrebbero essere esperienze di vita non di morte, ed esperienze di vita il più possibile collettive, condivise da altri. E' molto più gratificante, anche se più faticoso, vivere un'esperienza di vita secondo le dinamiche della "vita" che non secondo quelle della "morte". Chi pensa di poter riscattare un'esistenza insulsa col privilegio del martirio, forse chiede un po' troppo all'intelligenza altrui.

Una morte cruenta dovrebbe essere evitata in tutti i modi (compatibilmente alla dignità della persona), poiché non c'è violenza che non abbruttisca l'animo. Persino i carnefici che infliggono torture sono vittime della logica della violenza, nel senso che devono fare "violenza" a un istinto di bene insito in ogni essere umano.

Sotto la paura del dolore e della morte si è disposti a fare o a dire cose che in condizioni normali non verrebbero neppure pensate. Una qualunque violenza a se stessi, alle proprie inclinazioni di bene, segna la coscienza in maniera indelebile.

Gli uomini non sono naturalmente violenti, o comunque quando lo sono ciò avviene in maniera istintiva, come nell'infanzia, allorché la somiglianza col mondo animale è molto accentuata. Man mano che si cresce si comprende facilmente che la violenza genera altra violenza, ovvero che la paura della forza non è mai un deterrente sicuro per impedire l'uso della violenza.

Apparentemente a noi sembra accada l'opposto, ovvero che i bambini siano molto più buoni degli adulti. Il fatto è che quando si vive in società profondamente basate sugli antagonismi di classe, la violenza appare un fatto normale e, invece di attribuirla a cause storico-sociali, la si attribuisce alla natura.

Se gli uomini avessero una psicologia infantile, basata nettamente sull'istinto, senza alcuna mediazione razionale, non riuscirebbero a vivere in alcuna società antagonistica, in quanto la violenza, i conflitti, gli omicidi sarebbero all'ordine del giorno: tutti vorrebbero avere una fetta di libertà o di proprietà.

Per quale ragione invece queste società durano così a lungo? Per la semplice ragione che i pochi che riescono a dominare sanno che gli uomini possono sopportare i soprusi senza reagire. Un bambino dev'essere educato a questa passività. Le rivoluzioni infatti scoppiano quando la violenza ha raggiunto un livello tale da risultare assolutamente insopportabile. E quando ciò avviene, spesso chi infligge violenza si trova impreparato ad affrontare la reazione, ha bisogno di un certo tempo prima di rendersi conto che per salvaguardare il proprio dominio deve attrezzarsi diversamente. Questi sono processi che si ripetono costantemente nella storia.

GIOVANNI XXII

Il papato del XIV secolo cercò di affermare con ogni mezzo l'ideologia teocratica, poiché si era reso conto che lo sviluppo comunale in senso borghese aveva preso una strada troppo indipendente dalle tradizioni della chiesa. Ormai il partito dei ghibellini aveva non meno seguaci di quello dei guelfi.

Lo sviluppo di un modus vivendi di tipo mercantile mal si adattava a rigide regole gerarchiche e soprattutto a considerazioni etico-religiose troppo restrittive. La borghesia voleva essere lasciata libera di dedicarsi ai propri traffici senza dover rendere troppo conto alle autorità costituite. Essa voleva avere sul piano sociale una libertà di manovra equivalente a quella che il papato si riservava sul piano politico.

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Papa Giovanni XXII (1316-1334) viene unanimemente considerato dagli storici come il fondatore della potenza finanziaria del Vaticano. Egli introdusse il sistema fiscale delle commende mandando in rovina numerose chiese. Tutti gli uffici e le dignità capitolari, sempre molto ambite perché permettevano cospicue rendite, divennero oggetto di commenda: per averle bisognava pagare una tassa a vita. Con lui il nepotismo ebbe una notevole diffusione.

Come già Clemente V, egli si era inoltre riservato il reddito del primo anno dei "benefici ecclesiastici" vacanti (le cosiddette "annate"); anzi, ebbe l'accortezza di moltiplicare artificiosamente i benefici spostando a suo arbitrio i prelati da una sede vacante all'altra, sicché ognuno doveva pagare le annate. Istituì anche il Tribunale della Sacra Rota, pur di incrementare al massimo le entrate della sua sede francese. (Non a caso Dante mette questo papa nel girone dei simoniaci, accanto a Bonifacio VIII e Clemente V.)

Egli aveva ottenuto il vescovado di Avignone grazie all'appoggio di Roberto d'Angiò (1278-1343), che, figlio del re Carlo II, aveva ottenuto il governo di Napoli, era praticamente il capo dei guelfi contro Enrico VII e fu anche signore di Firenze (1313-21) e di Genova (1318-28).

Appena eletto papa, Giovanni XXII emanò la bolla In nostram (1317), con cui si arrogava il diritto di comandare su tutta la terra (durante il suo pontificato ben sette regni si misero sotto la sua protezione, pagando il relativo tributo: Aragona, Portogallo, Inghilterra-Irlanda ecc.) e pretese che Roberto d'Angiò venisse considerato come vicario imperiale in Italia. Ludovico IV il Bavaro (1287-1347), re di Germania dal 1314, naturalmente si oppose e fu subito scomunicato dal pontefice.

I francescani spirituali si misero dalla parte di Ludovico e con loro l'intellettuale Marsilio da Padova, che si propose come suo teorico. Il papa rispose scomunicando entrambi: i primi con la bolla Cum inter nonnullos (1323), mediante cui proclamava "divino" il diritto di proprietà; il secondo chiedendo che venisse messo al bando il testo Defensor pacis. Inoltre canonizzò immediatamente Tommaso d'Aquino. (Da notare che contro la pretesa di "povertà assoluta", rivendicata dagli spirituali, il papato si era già pronunciato, condannando come eretico chiunque non si limitasse ad insegnare che la povertà altro non era che il mero distacco morale dai beni materiali).

Ludovico scese il Italia nel 1327, salutato dai ghibellini, al fine di rivendicare i suoi diritti. L'anno dopo viene incoronato imperatore in s. Pietro da Sciarra Colonna col titolo di "senatore e capitano del popolo". Era un atto rivoluzionario perché fatto senza il consenso della chiesa, cioè semplicemente in nome del popolo romano.

Il papa usò di nuovo l'arma della scomunica, che però essendo lanciata dalla sede di Avignone, risultò poco efficace. Tuttavia iniziarono le persecuzioni contro gli spirituali: Guglielmo da Occam e Michele da Cesena furono costretti a rifugiarsi presso l'imperatore, il quale ad un certo punto prese la decisione d'intentare un processo per eresia a carico del pontefice. Questi venne deposto e in sua vece l'imperatore fece eleggere un antipapa, Nicolò V, che confermò la sua incoronazione. Nicolò, tuttavia, non avendo altri appoggi popolari che quello dei Minori e degli altri scomunicati, non se la sentì di proseguire e si dimise.

Roma stessa, stanca di dover pagare pesanti tributi a Ludovico, preferì tornare sotto gli angioini. Sicché Ludovico decise di tornare in Germania nel 1330, dove fu deposto nel 1346 da Carlo IV di Lussemburgo.

Le conseguenze più gravi di questa vicenda furono pagate dai frati spirituali.

MICHELE BERTI DA CALCI

L'anonimo del '300 che scrisse la Storia di fra' Michele minorita (ed. La Fiaccola) era sicuramente un suo confratello che, ritrattando di fronte alle torture, ebbe salva la vita. Il testo narra la vicenda della prigionia, del processo, delle torture e dell'esecuzione capitale del frate francescano, avvenuta nel 1389 a Firenze.

Frate Michele sosteneva una cosa condivisa dalla corrente degli "spirituali" dell'Ordine dei minori: il fatto che né Cristo né gli apostoli erano mai stati proprietari di alcunché e che tali quindi dovevano essere anche il papa e tutto il clero.

In pratica il frate opponeva all'ipocrisia di un clero cristiano nella dottrina e pagano nei costumi, il radicalismo della "povertà assoluta", attribuendo a tale condizione il privilegio di una migliore autenticazione della fede.

Frate Michele era evidentemente un estremista, poiché, al fine di dimostrare ancora realistica l'esigenza di vivere un'esperienza fondamentalmente cristiana, negava a questa esperienza qualunque rapporto col mondo.

La povertà non veniva da lui concepita tanto come una forma di essenzialità e di lotta contro gli sprechi, gli abusi, il superfluo, né tanto come l'occasione per la ricerca di una vera giustizia sociale, in cui il benessere fosse condiviso dalle masse, e neppure tanto come un modo per ricercare con le cose, l'ambiente, gli esseri umani un rapporto più normale e naturale, quanto piuttosto come una modalità univoca per affermare un'identità altrimenti impossibile. Parafrasando Cartesio si potrebbe dire che il suo motto poteva riassumersi in questa formula: "Sono assolutamente povero, quindi sono cristiano".

Sotto questo aspetto è indubbio che l'ideologia cristiana ch'egli sosteneva, più individualista che collettivista, più etica che politica, aveva molte più affinità col vangelo del Battista che non con quello del Cristo. La comunità cristiana primitiva (nazarena o postpasquale) non ha mai predicato la "povertà assoluta" ma semmai la "comunione dei beni".

Il Calci infatti si opponeva non solo all'uso politico-religioso dei beni strumentali, mondani, considerato sempre antitetico all'immagine di una chiesa spirituale, ma anche a qualunque uso mondano delle cose, in quanto la politica (cioè la gestione del bene comune) veniva rifiutata in sé, a prescindere dall'identità istituzionale.

Il suo non era soltanto un invito alla povertà assoluta come modello di vita, ma anche un invito a disinteressarsi dell'ingiustizia creata dal potere temporale. La chiesa doveva rinunciare non solo alla proprietà di qualunque bene o sostanza, ma anche a contestare la gestione politica di detti beni da parte delle forze secolari.

Probabilmente se il Calci si fosse limitato a predicare la povertà assoluta, non sarebbe incappato nelle maglie della giustizia. Il fatto è che accusava il papato d'essere eretico.

L'ideale di "povertà assoluta" da sempre viene considerato dalla chiesa come di tipo eremitico, da viversi in luoghi isolati, dove le esigenze sono al minimo, dove il soggetto può sceglierlo o come ideale di vita personale, se permanente, o come forma di ascesi, in via transitoria.

Il buon senso ha sempre escluso che questo ideale potesse essere predicato alle masse come modello di vita sociale. I movimenti ereticali l'avevano fatto proprio allo scopo di organizzare una forma di contestazione dei poteri istituzionali, e non a caso tra i loro membri i ceti prevalenti erano quelli borghesi e piccolo-nobiliari, non quelli di origine contadina, già sufficientemente avvezzi ai disagi di ordine socioeconomico.

Accusare il papato d'essere "eretico" per aver emanato bolle contro l'ideologia della "povertà assoluta", intesa come modello universale di vita, e pretendere d'essere ascoltati facendo leva sul fatto che con la sua palese corruzione il papato non suscitava alcuna simpatia, non poteva certo essere una tattica vincente.

E' vero che il Calci riteneva possibile "l'uso del fatto" in luogo della proprietà del bene, ma l'uso senza la proprietà implica sempre una gestione minimale delle cose, che non permette di realizzare alcunché di significativo o di stabile. Implica soprattutto una dipendenza della gestione da una volontà eteronoma, non controllabile. E' significativo in tal senso che in nessuna parte del testo si accenni all'uso collettivo della proprietà.

Può un uomo proporre un ideale impossibile solo perché chi governa è così corrotto da non rendere possibile la realizzazione di alcun ideale?

Alla fin fine il Calci arrivava ad opporsi non solo al papato ma anche ai ceti cristiano-borghesi, senza vedere né nei contadini né nel proletariato urbano alcun valido referente per l'alternativa al sistema che s'andava socialmente sviluppando nelle città comunali e teorizzando nelle università.

La sua esecuzione era in un certo senso scontata. L'integralismo cattolico medievale, tradizionalmente intollerante nei confronti della libertà di opinione (specie se questa si concretizzava in movimenti contestativi, come appunto quello degli spirituali), accettava delle deroghe solo nei confronti di quella prassi borghese che per affermarsi non necessitava di mettere in discussione né il potere del papato né la sua ideologia.

Sarebbe interessante delineare una cronologia molto dettagliata delle vittime dell''intolleranza della chiesa romana, dalla svolta costantiniana sino all'epoca moderna.

L'eresia dolciniana

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
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Aggiornamento: 01/05/2015