LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE

Impero inglese

I

Il colonialismo iniziato da Spagna e Portogallo nel XVI secolo, ha cominciato a prendere il nome di "imperialismo" verso il 1870, grazie soprattutto a due nuovi protagonisti europei: la Francia e l'Inghilterra.

A questo imperialismo andò associandosi quello statunitense in America latina e in altri territori del Pacifico, e quello nipponico in alcuni territori asiatici.

Agli inizi del Novecento la storiografia non poteva non avere una visione mondiale degli argomenti che voleva trattare. L'Europa occidentale era diventata la madrepatria di un immenso impero coloniale, che coinvolgeva il mondo intero, e che tale resterà almeno sino alla fine della seconda guerra mondiale, quando il ruolo di questa parte d'Europa verrà ereditato dagli Stati Uniti.

Gli storici fanno iniziare il Novecento con l'Esposizione Universale di Parigi, la più grande vetrina mondiale di tutto il progresso tecnico-scientifico sviluppatosi nella seconda metà dell'Ottocento: un periodo per il quale si parla, non a caso, di "seconda rivoluzione industriale", considerando la prima quella del secolo precedente, in cui si era cominciato a utilizzare massicciamente il ferro, il carbone, le macchine a vapore e il telaio meccanico.

La scienza e la tecnica erano così sviluppate in Europa occidentale che si soprassedeva a tutte le contraddizioni sociali scoppiate a causa dei rapporti produttivi capitalistici e ancor meno si tenevano in considerazione quelle, molto più acute, che il capitalismo avanzato aveva creato nelle proprie colonie.

Praticamente la rivoluzione tecnico-scientifica era considerata sinonimo di progresso sociale e civile, cioè l'Europa occidentale e gli Usa si consideravano un modello da esportare sia sul piano economico che su quello dei valori etici, culturali, giuridici e politici. La percezione che si aveva del progresso agli inizi del Novecento, era che sarebbe stato illimitato. Si era quindi convinti che, prima o poi, tutte le contraddizioni inerenti ai rapporti di lavoro si sarebbero risolte.

A dir il vero nel periodo 1873-96 vi era stata una grave crisi di sovrapproduzione, in quanto i mercati non erano ancora in grado di assorbire l'enorme quantità di merci prodotte. Per far fronte a questa crisi molte nazioni erano ricorse al protezionismo, cioè all'imposizione di dazi doganali sulle merci importate, con aliquote che andavano dal 10 al 20%. Tutte le nazioni più forti economicamente avevano accentuato l'imperialismo, conquistando, senza tanti scrupoli, nuove colonie. Si erano anche formate gigantesche concentrazioni finanziarie e industriali (i monopoli, detti anche trust o cartelli) che praticamente controllavano l'intera filiera produttiva, dalle materie prime al prodotto finito, e quindi interi mercati.

In una situazione del genere si stava cominciando a capire che i mercati, lasciati a se stessi, cioè in balia della pura concorrenza e del libero scambio, non avevano la capacità di autoregolarsi efficacemente. Di qui l'esigenza di costituire dei monopoli, dove la concorrenza tra loro fosse ridotta al minimo.

Contemporaneamente aumentò il ruolo degli Stati nazionali. Essi cioè cominciarono a intervenire direttamente nell'economia, emanando leggi a favore del protezionismo e delle politiche imperialistiche aggressive, e soprattutto assicurando enormi commesse, con soldi pubblici, alle aziende più grandi. Ecco perché a partire dal 1875 si inizia a parlare di capitalismo monopolistico di Stato. A quella data le concentrazioni monopolistiche nel mondo erano solo quattro; nel 1904 erano già diventate 305, e nel 1930 ben 2000, nei settori-chiave del carbone, del petrolio, dell'acciaio, dello zucchero, ecc.

Quando si formano questi trust tende progressivamente a separarsi il possesso dei capitali investiti dalla gestione dell'impresa. Infatti nel consiglio di amministrazione non vi sono soltanto i fondatori storici dell'impresa, ma anche i rappresentanti degli investitori di capitali, cioè dei grandi finanzieri, dei piccoli risparmiatori, delle banche, ecc., i quali avevano acquistato quote di proprietà dell'azienda sul mercato azionario delle borse. Questi rappresentanti sono i cosiddetti "manager", cioè tecnici di alto livello, provenienti da studi economici, ingegneristici o di altro genere.

Poiché questi monopoli avevano costantemente bisogno di ingenti capitali per espandersi il più velocemente possibile sull'intero pianeta, il ricorso al credito bancario fu sempre più massiccio: ecco perché i maggiori istituti di credito riuscirono a entrare nei consigli di amministrazione delle imprese, orientandone la produzione. È così che si forma una ristrettissima oligarchia di banchieri e industriali in grado di controllare buona parte del sistema industriale.

Il ruolo della banca era diventato così fondamentale che nella seconda metà dell'Ottocento s'impose la necessità di avere solide banche centrali, capaci di controllare le riserve auree dei loro rispettivi paesi, garantendo il valore della moneta e i rapporti di cambio con le monete estere. Esse dovevano fissare i tassi d'interesse per il prestito del denaro, detenevano la prerogativa di battere moneta ed emettevano titoli di Stato (buoni del tesoro) per finanziare la spesa pubblica. In Italia la banca centrale fu fondata nel 1893.

In meno di un secolo l'Europa era passata da 190 milioni di abitanti (1815) a 423 milioni. Si era contratta, è vero, la natalità, ma lo sviluppo della medicina, le migliori condizioni igienico-sanitarie e quelle alimentari permettevano un'aspettativa di vita più significativa. Parigi, che nel 1800 aveva 547.000 abitanti, nel 1910 aveva raggiunto i 2,8 milioni; Londra era passata nello stesso periodo da 1.117.000 a 4,5 milioni; Berlino da 172.000 a 2,1 milioni. L'Europa aveva il 24% della popolazione mondiale, in grado di produrre oltre la metà di tutti i beni economici del pianeta (insieme agli Stati Uniti la produzione industriale dell'Europa era pari all'85% di quella mondiale). Quasi il 90% dei capitali investiti nel mondo proveniva da quest'area. Dalla fine dell'Ottocento al 1913 la ricchezza complessiva dell'Europa occidentale era incrementata di oltre il 40%: il prodotto interno lordo aveva ritmi superiori all'1,5% annuo. Su 10 navi commerciali, otto battevano bandiera europea.

La chiave del progresso tecnico stava nei seguenti settori: elettricità (i motori elettrici sostituiscono quelli a vapore, si costruiscono elettrodotti per trasportare energia, l'energia idroelettrica viene incontro ai paesi poveri di carbone, l'illuminazione elettrica sostituisce quella a petrolio); acciaio (molto più resistente del ferro) e alluminio (molto più leggero del ferro); petrolio, che nel motore a scoppio viene usato come benzina o come diesel; chimica (i cui fertilizzanti sostituiscono i concimi organici in agricoltura, per non parlare dei coloranti artificiali usati nel tessile); telegrafo, telefono e radio, che rivoluzionano i mezzi di comunicazione. Agli inizi del Novecento si cominciano a far decollare i primi aerei (è del 1909 la prima trasvolata della Manica).

La classe sociale che ha pagato enormemente il prezzo di questo sconvolgente progresso è stata quella contadina, rovinata dalla concorrenza dei prodotti agrari industrializzati. Nel solo primo decennio del Novecento sono emigrati verso gli Stati Uniti, il Sudamerica, l'Australia e la Nuova Zelanda circa 11 milioni di europei. Dal 1850 alla prima guerra mondiale gli emigrati europei furono 50 milioni. In Gran Bretagna i contadini erano diventati solo il 12% della popolazione (ben 17 milioni di contadini inglesi, scozzesi e irlandesi si diffusero nell'immenso impero della corona); in Francia però ne restavano ancora il 56% e se da qui emigravano, sceglievano non solo gli Usa e il Canada (Quebec), ma anche le colonie nordafricane (Tunisia, Algeria, Marocco...). In questo periodo si trasferirono all'estero, soprattutto nel continente americano, ben 14 milioni di contadini italiani.

Lo spostamento di così ingenti masse di popolazione, unitamente alle esigenze del colonialismo e ai crescenti traffici commerciali mondiali contribuirono allo sviluppo dei trasporti (soprattutto della rete ferroviaria) e alla costruzione di tre importanti canali navigabili: quello di Suez (1869), che unisce il Mediterraneo al mar Rosso; quello di Corinto in Grecia (1893), che collega il Golfo di Corinto col mar Egeo, e quello di Panama (1914), che collega l'Atlantico col Pacifico. Le merci potevano circolare in misura sempre maggiore, in uno spazio sempre più ampio e a costi sempre più bassi.

Francia e Inghilterra giocavano la parte del leone nella spartizione imperialistica del pianeta. In particolare si parla di "età dell'imperialismo" in riferimento a quel periodo che va dall'ultimo ventennio dell'Ottocento al 1914 (il termine lo si usava esplicitamente in Inghilterra, in quanto la regina Vittoria aveva assunto il titolo, nel 1876, di "imperatrice delle Indie").

Dal 1800 al 1878 le potenze coloniali avevano assunto il controllo di 17 milioni di kmq di territori extraeuropei; nei tre decenni successivi ne aggiunsero altri 22 milioni. In questa situazione il concetto di "nazionalismo", che nell'Ottocento aveva assunto una valenza positiva, in quanto, in suo nome, ci si era voluti liberare di domini imposti dall'esterno (p.es. dalle truppe d'occupazione napoleoniche o austriache), ora invece assume una valenza egemonica aggressiva.

In forza di questo nazionalismo l'intero continente africano viene suddiviso dagli europei in tempi ridottissimi, praticamente dal 1880 al 1910. Quando gli inglesi occuparono l'Egitto nel 1882, agli inizi del Novecento erano già arrivati in Sudafrica, seguendo una linea verticale che vide coinvolti Sudan, Uganda, Kenya e Rhodesia. In Sudafrica (quella volta Repubblica del Transvaal e Stato Libero dell'Orange) sottomisero i boeri (coloni di origine olandese) mediante una guerra durissima (1899-1902), che portò alla creazione dell'apartheid. Pur di controllare le ricchissime miniere d'oro e di diamanti, gli inglesi non si fecero scrupoli nell'eliminare anche i civili: di quelli rinchiusi nei campi di concentramento (circa 150-200.000) ben 32.000 morirono, cioè più dei 22.000 militari inglesi e 8000 militari boeri messi insieme.

La Francia invece partì dall'Algeria (1830), per poi allargarsi verso il Senegal, la Costa d'Avorio, la Tunisia, il Marocco, il Dahomey, il Sudan occidentale, il Congo occidentale, il Madagascar.

L'Italia penetrò in Eritrea e in Somalia (1882), poi in Libia nel 1911, sottraendola ai Turchi, infine in Etiopia nel 1934.

La Germania occupò Togo, Camerun, una parte della Guinea meridionale, Tanzania e Namibia (ribattezzate, quest'ultime, Africa orientale tedesca e Africa sud-occidentale tedesca), ma occupò anche le isole Salomone, le Marshall e le Caroline nel Pacifico.

Il Belgio occupò il Congo nel 1885, per sfruttarne le foreste, il caucciù e l'avorio. Proprio questa conquista obbligò gli Stati europei a tenere una conferenza internazionale a Berlino, in quanto anche Francia e Portogallo erano interessati al Congo. La conferenza confermò il possesso belga, ma condannò la tratta degli schiavi e obbligò il Belgio ad accettare la libertà di commercio nel bacino del Congo e la libertà di navigazione nei fiumi africani. Inoltre sancì che tutta l'Africa (esclusa l'Etiopia) doveva essere egemonizzata dagli europei. La suddivisione dei territori venne spesso fatta "a tavolino", senza tener conto degli insediamenti dei nativi. Le rivolte tribali anticoloniali non furono sufficientemente forti per impedire questa tragica spartizione, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi.

La conquista dell'Asia invece fu più complessa, non solo perché le società qui erano più evolute di quelle africane, ma anche perché gli interessi degli europei si scontravano con quelli di due rivali: gli Stati Uniti e il Giappone.

Il più grande impero asiatico restava quello inglese, che comprendeva tutta l'India (inclusi gli attuali Pakistan e Birmania), la Malesia, la Nuova Guinea, arrivando sino all'Australia e alla Nuova Zelanda.

La Francia invece si era concentrata in Indocina (Vietnam, Laos e Cambogia).

Gli Usa, dopo aver economicamente occupato tutta l'America latina, si erano estesi nell'isola di Guam, nell'arcipelago delle Hawaii (1898) e nelle Filippine (sottratte, quest'ultime, nel 1898 agli spagnoli).

Nonostante che nel 1899, su iniziativa dello zar Nicola II, si fosse tenuta all'Aja la prima conferenza internazionale per la pace, con la partecipazione di 26 Stati, con cui si vietò l'uso di gas asfissianti, gli eccidi indiscriminati, i saccheggi delle violenze ai danni dei civili, i comportamenti disumani verso i prigionieri (tutte cose però che non si pensava potessero valere anche nelle guerre di tipo coloniale), la situazione internazionale era già molto tesa prima dello scoppio della Grande Guerra.

I frutti immediati dell'imperialismo occidentale erano stati i seguenti: la guerra ispano-americana (1898); quella anglo-boera (la prima nel 1880-81, la seconda nel 1899-1902); l’intervento armato in Cina nel 1900-1901, che pose fine alla dinastia imperiale; la guerra russo-giapponese nel 1904-1905; le crisi della Bosnia e del Marocco, che portarono quasi allo scoppio di un conflitto mondiale; la guerra italo-turca nel 1911-1912; l’intervento armato contro i movimenti rivoluzionari in Persia e nel Messico; le guerre balcaniche nel 1912-1913 e altro ancora.

In Cina nel 1900 scoppiò la rivolta anticoloniale dei Boxers (contadini e lavoratori organizzati in comunità segrete xenofobe) contro gli stranieri che stavano distruggendo l'impero cinese. Gli insorti furono eliminati e, con essi, la dinastia imperiale, sostituita con una repubblica che durerà sino al 1949, quando diventerà comunista.

Il Giappone, dichiarando guerra alla Russia nel 1904, riuscì ad annettersi, l'anno dopo, la parte sud della Manciuria, l'isola di Sakhalin e Port Arthur e ne approfittò per controllare anche la Corea. Fu la prima moderna guerra industriale ed era la prima che vide una potenza asiatica vincere una europea.

Impero francese

II

Nell'area occidentale l'industria statunitense cresceva a ritmi superiori rispetto a quella europea. E nella stessa Europa la Germania, in alcuni settori produttivi (acciaio, macchinari, armi, in una parola l'industria pesante) aveva già superato l'Inghilterra, e tale superiorità appariva ai governi tedeschi incompatibile col fatto che la Germania non disponesse di un impero coloniale equivalente a quello di Francia e Inghilterra. Questo infatti sarà uno dei fattori scatenanti della prima guerra mondiale. D'altra parte la Germania, grazie alla Prussia, si era unificata per ultima in Europa, nel 1870, e questo la obbligava a dover recuperare in fretta i ritardi accumulati in direzione dello sviluppo capitalistico.

I ritmi industriali degli Stati Uniti tendevano ad essere superiori a quelli europei perché gli industriali avevano sviluppato il taylorismo. Frederick W. Taylor (1856-1915) era un ingegnere americano che escogitò una nuova organizzazione nel modo di produrre oggetti in serie. Praticamente il sistema di lavoro industriale era basato sulla divisione delle operazioni complesse, compiute da un singolo operaio specializzato, in segmenti di operazioni semplici a tempo fisso, costantemente ripetute da più operai equivalenti nelle competenze. In tale maniera la manodopera, grazie al forte impiego di macchine sofisticato, poteva anche non essere qualificata e quindi poteva essere sottopagata, meglio controllata e facilmente sostituita se non rendeva a sufficienza entro i parametri previsti. L'operaio diventava del tutto spersonalizzato, un mero ingranaggio della macchina. La fabbrica che meglio realizzò questo modo di produrre fu quella automobilistica di Henry Ford, la cui "catena di montaggio" costituì un parametro per tutti i paesi capitalistici.

Con lo sviluppo enorme dell'industria decolla anche la moderna società dei consumi. Da un lato infatti la produzione standardizzata poteva ridurre i prezzi di molte merci, dall'altro lo sfruttamento intensivo delle colonie poteva permettere un aumento dei salari agli operai, che così diventavano non solo produttori ma anche consumatori di beni che andavano al di là della semplice soddisfazione di esigenze primarie. Il caso emblematico dell'aumentato benessere economico fu appunto l'automobile. Per poterne vendere a milioni, Henry Ford decise di produrre nel 1910 un'utilitaria, e due anni dopo fece altrettanto la Fiat della famiglia Agnelli.

Intanto andavano diffondendosi nelle grandi città quelli che oggi vengono chiamati "supermarket" o "ipermarket", dove si poteva comprare di tutto e dove scompariva il rapporto diretto e fiduciario tra acquirente e il singolo negoziante, e dove ci si poteva incontrare per passare il tempo libero. Il primo grande centro commerciale fu aperto a Parigi nel 1852; a Milano invece nel 1865, che nel 1917 si chiamerà "La Rinascente", grazie ai fratelli Bocconi, che inventarono in Italia, nel 1880, la vendita per corrispondenza.

Naturalmente lo sviluppo della società dei consumi determinò la nascita della pubblicità, la quale, insieme alla rivoluzione tecnologica della rotativa a nastro continuo e all'uso della linotype (una macchina per la composizione tipografica automatica, inventata nel 1884), favorì enormemente la diffusione della carta stampata. I giornali divennero i principali strumenti di propaganda dei partiti, dei governi e dei movimenti di opinione.

L'aumentato benessere comportò anche una riduzione del tempo lavorativo: le 10-12 ore al giorno per sei giorni alla settimana agli inizi dell'Ottocento scesero a 40 ore settimanali un secolo dopo, grazie alle lotte del movimento operaio. Il resto era tempo libero, su cui si concentrò l'industria dello svago e dello spettacolo, del consumismo ad oltranza. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento nascono il calcio, il pugilato, il ciclismo, il cinema, le prime olimpiadi moderne e l'idea di andare in vacanza per motivi turistici.

Nella seconda metà dell'Ottocento, sino alla prima guerra mondiale, appare evidente che esiste non solo una competizione molto forte tra Stati capitalistici avanzati, ma anche la tendenza, da parte di quest'ultimi, di annettersi i vecchi imperi semi-feudali in via di dissoluzione, sempre più influenzati dagli stili di vita occidentali. Questi imperi tardo-feudali sono quello russo, quello cinese, quello ottomano e quello austro-ungarico. Tuttavia l'idea di "impero" tende a riproporsi negli stessi Stati capitalistici in virtù del colonialismo. Nazioni come Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti e Giappone agiscono come se fossero degli imperi.

In particolare gli inglesi svolgono il ruolo di direttore d'orchestra dell'economia mondiale almeno sino al 1914, quando i loro investimenti all'estero erano pari a quelli di Usa, Francia e Germania messi insieme. Poco prima della guerra mondiale quegli stessi paesi li avevano però già raggiunti, se non superati, in settori strategici come l'acciaio, il petrolio e le automobili. Inoltre nel primo quinquennio del Novecento le esportazioni europee, per la prima volta, avevano superato le importazioni di materie prime dall'America, dall'Asia e dell'Africa: questo era un segno che anche le aree non europee si stavano fortemente sviluppando.

III

Verso la fine del XIX sec. il marxismo conquista l’egemonia nel movimento operaio internazionale. Tenendo presente l’esperienza fallimentare della Comune di Parigi, Marx e Engels avevano sviluppato ulteriormente la dottrina della dittatura del proletariato e del ruolo del partito politico della classe operaia. Contemporaneamente sorsero i partiti operai, i partiti socialdemocratici e nel 1889 venne fondata la I Internazionale, il cui ispiratore fu Engels. Il centro del movimento rivoluzionario, dopo la sconfitta della Comune di Parigi, passò dalla Francia alla Germania, dove la classe operaia creò il partito socialdemocratico più forte e influente.

L’influenza dell’ideologia borghese si fece però sentire in maniera significativa nell'ambito della II Internazionale e della socialdemocrazia tedesca, che, ad un certo punto, smisero d'avere un carattere rivoluzionario, preferendo assumerne uno di tipo riformistico.

Nella lotta accanita accesasi tra le due correnti, quella rivoluzionaria e quella opportunista, la posizione marxista più conseguente venne presa dalla giovane socialdemocrazia russa, con a capo V. I. Lenin. Già nel 1903 in Russia si era verificata la frattura tra i marxisti rivoluzionari e gli opportunisti ed era nato il bolscevismo come corrente autonoma di pensiero politico.

Centro del movimento rivoluzionario mondiale divenne la Russia. La rivoluzione russa del 1905 - la prima rivoluzione popolare dell’epoca dell’imperialismo - ebbe un contenuto democratico-borghese. Suo principale avversario fu lo zarismo, una delle colonne della reazione non solo europea, ma anche asiatica, e alleato del capitale finanziario internazionale.

L’influenza della prima rivoluzione russa rafforzò la tendenza rivoluzionaria in tutto il movimento operaio europeo. Dai tempi del cartismo, l’Inghilterra non aveva mai visto un movimento di scioperi imponente come quello del 1910-1913. Grossi scioperi, talvolta accompagnati da scontri armati, avvennero anche in Germania, Francia, Italia, Belgio, Spagna e Stati Uniti.

La rivoluzione del 1905-1907 e la conseguente espansione del movimento operaio diedero un forte impulso alla lotta per la liquidazione dei residui del feudalesimo, per le libertà democratiche e l’autodecisione dei popoli in molti Stati dell’Europa. Ampi strati di contadini (in Russia, in Romania e in altri paesi) lottarono contro le sopravvivenze della servitù della gleba e il giogo del capitale finanziario.

Alla II Internazionale spettava il compito di dirigere l’impeto rivoluzionario e l’azione per impedire la guerra imperialistica e organizzare il movimento internazionale dei lavoratori. Ma la II Internazionale si allontanò sempre più dalle posizioni rivoluzionarie e la borghesia imperialistica riuscì a crearsi un appoggio nell'"aristocrazia operaia", alla quale venivano date le briciole dei sovrapprofitti coloniali. La direzione dell’Internazionale capitolò, passo dopo passo, di fronte agli opportunisti dichiarati.

Di tutti i partiti operai di una certa importanza solo i bolscevichi ruppero decisamente con gli opportunisti, e solo loro riuscirono a realizzare una rivoluzione comunista. Questo carattere determinato del socialismo rivoluzionario accelerò sicuramente la tendenza della borghesia occidentale ad affidarsi a soluzioni autoritarie o estremistiche, come p.es. una guerra mondiale.

Vedi scheda su Imperialismo


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 22/09/2014