LA STORIA CONTEMPORANEA
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Aspetti economici dell'Italia durante la I Guerra Mondiale Premessa Motivi economici (la contesa dei mercati fra le nazioni più industrializzate, ciascuna desiderosa di nuovi sbocchi per le proprie merci e i propri capitali in costante aumento) furono le principali cause del primo conflitto mondiale, così come di natura principalmente economica furono poi le ragioni della vittoria dell'Intesa. Se allo scoppio del conflitto la superiorità e la preparazione militare degli Imperi Centrali era indiscutibile, la resistenza opposta dall'Intesa e la conseguente guerra di trincea giocò, coi suoi tempi lunghi, a sfavore degli Alleati: circondate per mare e per terra, Germania e Austria-Ungheria videro via via esaurirsi i viveri e spegnersi le loro produzioni per mancanza di materie prime, mentre Francia e Inghilterra, grazie ai propri imperi coloniali e all'appoggio degli Stati Uniti, poterono al contrario gettare sui campi di battaglia risorse sempre maggiori. Fu così che nell'autunno del 1918 il collasso economico obbligò alla resa gli Imperi Centrali a dispetto di eserciti, sulla carta, ancora poderosi. La situazione prebellica italiana L'Italia il 3 agosto 1914 dichiarò ufficialmente la propria neutralità, ma lo stesso giorno le notizie del moltiplicarsi delle mobilitazioni generali e delle dichiarazioni di guerra tra le potenze europee fecero esplodere il panico, generando una corsa agli sportelli bancari di dimensioni così preoccupanti da obbligare il governo a emanare il giorno seguente una moratoria che vietava alle banche di credito (eccezion fatta per quelle di emissione: Banca d'Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di pagare più del 5% dell’importo dei depositi e 50 lire per i depositi inferiori a 1000 lire. Il decreto, pur criticato come un ostacolo al libero mercato, rimase in vigore fino al 31 marzo 1915, perché si riteneva probabile una futura entrata in guerra dell'Italia. Nel frattempo i partiti politici, la stampa e l'opinione pubblica si divisero tra sostenitori del neutralismo e ferventi interventisti a fianco o contro gli Imperi Centrali. Tra i primi, insieme a cattolici, socialisti e liberali, la voce più importante era quella dell'ex presidente del Consiglio Giolitti, il quale era perfettamente al corrente dell'impreparazione delle nostre forze armate (a fatica eravamo usciti vittoriosi in Libia) e ammoniva che i conti delle Stato sarebbero saltati nel tentativo di adeguare e sostenere i nostri reparti in una guerra di tipo moderno; inoltre capiva che il nostro modesto apparato industriale e la penuria di materie prime ci avrebbero fatto dipendere dall'estero, generando un grande debito pubblico, cosa che poi puntualmente avvenne. Viceversa, tra gli interventisti più agguerriti c'erano i dirigenti di alcuni comparti dell'industria pesante (Ansaldo di Genova in testa), che ritenevano che profitti concreti sarebbero arrivati solo con l'entrata in guerra e per questo appoggiavano l'eterogeneo insieme di forze, fra loro anche ostili, che reclamavano l'intervento: nazionalisti, liberali di destra antigiolittiani, irredentisti, interventisti democratici e sindacalisti rivoluzionari. Nonostante la dichiarazione di neutralità il governo ritenne opportuno procedere in tempi brevi al rafforzamento di esercito e marina, e ciò mentre un costoso contingente doveva essere mantenuto in Libia: tra agosto e ottobre le spese per le forze armate ebbero un incremento di 181 milioni di lire e in novembre vennero spesi ulteriori 400 milioni. Per reperire fondi esorbitanti il governo intraprese la via del debito pubblico e delle anticipazioni da parte degli istituti di emissione, onde evitare ulteriori inasprimenti fiscali. Nel gennaio del 1915 venne aperta la sottoscrizione pubblica del primo dei sei prestiti nazionali ai quali si ricorrerà durante la guerra. Per la loro emissione venne scelta la Banca d'Italia, il più importante dei tre istituti autorizzati allora a emettere banconote, la quale per i i compiti straordinari di carattere economico che svolse durante il conflitto, vedrà iniziare la sua trasformazione da istituto di natura privata con funzioni pubbliche a banca centrale pubblica del nostro paese, cosa che avverrà pienamente nel 1936. L'avventura interventista Il 26 aprile 1915 il governo italiano firma segretamente (1) a Londra il "contratto" di alleanza con l'Intesa. Il contratto non prevedeva alcuna assegnazione all'Italia di materie prime e materiale bellico, bensì solo l'impegno da parte dell'Inghilterra a concedere un prestito al nuovo alleato di non meno di 50 milioni di sterline. Tuttavia tale prestito obbligava l'invio in Inghilterra di oro italiano, perciò il nostro governo, sicuro di una guerra breve, si rifiutò di ricorrere alle riserve auree, e il negoziato s'interruppe. Un nuovo incontro tra i ministri del Tesoro dei due paesi ebbe luogo a Nizza il 4 e il 5 giugno successivi, quando Roma era già entrata nel conflitto: il compromesso venne raggiunto e previde un credito complessivo di 60 milioni di sterline, rateato settimanalmente fino al 31 dicembre 1915, contro una rimessa d'oro pari solo al 1/6 del credito; i restanti 5/6 dovevano essere coperti con buoni del tesoro italiano. L'oro sarebbe stato restituito all'Italia dopo il rimborso delle anticipazioni. In novembre un accordo supplementare prevedeva un ulteriore prestito di 122 milioni di sterline. Roma accettava di trasferire in oro la decima parte di questo ulteriore credito e s'impegnava a spendere 57 milioni del prestito sul mercato britannico; quest'ultima obbligazione rappresentava una notevole limitazione agli approvvigionamenti delle nostre truppe, dato che l'industria britannica poteva soddisfare solo in parte le necessità dei paesi alleati. L'inizio delle ostilità, come calcolato dagli interventisti, produsse un rilancio delle attività più direttamente collegate al conflitto. Le procedure degli appalti per le forniture delle forze armate vennero snellite e i relativi pagamenti da parte dello Stato divennero piuttosto rapidi e spesso la pubblica amministrazione accordava addirittura anticipi. L'urgenza di rifornimenti non consentiva un controllo dei prezzi e della qualità dei prodotti, per cui i profitti di imprenditori e speculatori furono enormi e immediati. La spesa per le forniture militari, già raddoppiata in termini reali tra il 1915 e il 1916, aumentò ancora di un terzo circa nel 1917. Beneficiati da questo fiume di denaro furono anche imprese straniere: basti pensare che nemmeno la produzione agricola nazionale era sufficiente a coprire i bisogni bellici, tanto che nel '17 a Torino scoppierà una rivolta popolare, repressa nel sangue, contro la mancanza di viveri. Il denaro necessario all'acquisto di una così grande massa di equipaggiamenti bellici venne coperta per i due terzi, indebitandosi sia all'interno sia all'estero. All'interno lo Stato riuscì a spingere i privati cittadini a sottoscrivere i titoli del debito pubblico sia offrendo un buon tasso d'interesse, sia facendo appello ai sentimenti patriottici, mentre le imprese furono stimolate da incentivi economici: fu così che il passivo totale venne coperto per il 72% da debito interno. Intanto la divisa italiana si deprezzò costantemente, soprattutto per il continuo ampliarsi dello squilibrio tra importazioni ed esportazioni (rispetto alla sterlina del 20% nel 1915, del 5% nel 1916 e del 22% nel 1917). I1 24 ottobre 1917 la disfatta di Caporetto aggravò ulteriormente la situazione economica e partorì il governo Orlandi. Il nuovo ministro del tesoro, Nitti, cercò di ridurre i guadagni dei fornitori e le manovre speculative delle banche, ritenute responsabili della svalutazione monetaria. Così l'11 dicembre 1917 venne creato l'Istituto Nazionale per i Cambi con l'Estero, un vero e proprio monopolio di stato per i cambi, servito dagli istituti di emissione e dalle maggiori banche di credito ordinario, obbligate a prestare allo Stato, in cambio di una ricompensa, uffici e personale. Tuttavia l'INCE non riuscì a frenare la caduta della lira: nel 1918 il franco svizzero raggiunse quota 2,3 lire (il cambio prebellico era pari a 1). Solo la cooperazione finanziaria con gli Stati Uniti servì a imprimere un'inversione di tendenza. Nella seconda metà del '18 si verificò un apprezzamento della sterlina di circa il 30%, e la divisa svizzera ridiscese a 1,3 in novembre, il mese che vide la fine dell'immane carneficina (più di 8 milioni e mezzo di morti e 21 milioni di feriti, nella quasi totalità compresi tra i 20 e 40 anni: una perdita di risorse fisiche e intellettuali incalcolabile). Le conseguenze della guerra in Europa... Il vecchio continente usciva dalla guerra in uno stato di rovina generale e di forte dipendenza economica e finanziaria dalla nuova potenza mondiale, gli Stati Uniti d'America. Il commercio intereuropeo era crollato. Sulle ceneri degli Imperi centrali erano nati nuovi Stati determinando nuove monete e barriere doganali. I macchinari industriali erano ormai logori, dopo quattro anni impiegati a lavorare senza soste e revisioni. Gli innumerevoli invalidi di guerra, inservibili alla produzione, erano un ulteriore peso per la collettività. La necessità di continuare a importare, soprattutto dalle Americhe, molto più di quanto non si riuscisse a pagare con le esportazioni, produsse in ogni paese il rialzo continuo dei prezzi e dunque un'inflazione galoppante. Su questo punto gli USA avrebbero potuto venire incontro agli ex alleati, ma, insieme al conflitto, Washington considerava terminata anche la solidarietà finanziaria. Infine gli iniqui trattati di pace non mirarono a una ripresa economica europea, ma furono dettati esclusivamente dalla volontà punitiva dei vincitori, condannando il vecchio continente a una prolungata crisi produttiva, sociale e politica, che sfocerà in una nuova e ancor più distruttiva guerra. ... e in Italia L'Italia, dal canto suo, aveva dovuto sostenere uno sforzo gigantesco in rapporto alle proprie possibilità: è stato calcolato che il costo della guerra ammontò a ben un terzo del Pil dell'intero periodo '15-'18. Così il nostro paese, pur vincitore, si trovò nelle condizioni economiche, politiche, sociali e morali tipiche delle nazioni sconfitte. Nel '18 si registrò in Italia il più alto tasso di inflazione, toccando punte del 20%, i prezzi quindi salirono alle stelle, polverizzando i capitali dei piccoli risparmiatori, mentre i salari non riuscivano a tener testa al carovita e all'aumentata pressione fiscale. Il bilancio statale aveva un deficit di 23.345 milioni di lire nell'esercizio '18-'19, contro i 214 del '13-'14. Nel 1920 la lira subì un'ulteriore svalutazione del 100% su dollaro e sterlina. L'indebitamento estero raggiunse una cifra pari a cinque volte il valore delle nostre esportazioni. Ancora dopo l'armistizio, l'impellente bisogno di valuta per poter continuare a importare generi fondamentali aveva spinto Stringher a chiedere un ulteriore prestito inglese, riuscendo a ottenere un'ultima apertura di credito di 50 milioni di sterline, parte dei quali destinati però al pagamento degli interessi maturati sui prestiti precedenti. La guerra infine aveva accentuato la già alta concentrazione monopolistica della grande industria e favorito la sua compenetrazione col capitale bancario. Nella primavera del '18, ad esempio, forti della liquidità realizzata attraverso le commesse statali, i fratelli Perrone (Ansaldo), avevano dato la scalata alla Banca Commerciale, mentre Agnelli (Fiat) e Gualino (Snia) al Credito Italiano, al cui capitale già partecipava l'Ilva. Ciò non solo poneva i potentati economici in condizione di esercitare molta influenza sugli apparati statali, ma esponeva anche a grandi rischi diverse aree economiche in caso di dissesto di una capo-gruppo. Un caso clamoroso fu la crisi dell'Ansaldo nel 1921, che portò al fallimento della Banca Italiana di Sconto, rovinando migliaia di piccoli e medi risparmiatori. In breve, la situazione sociopolitica del nostro paese, caratterizzata da disoccupazione e scioperi, occupazione delle fabbriche, minaccia della rivoluzione sociale e crisi dello stato liberale, fu il terreno fertile su cui il fascismo avrebbe presto insediato il proprio potere. Note 1) Verrà reso noto solo nel 1917, perché i bolscevichi, giunti al potere in Russia dopo la rivoluzione d'Ottobre, lo pubblicarono sul quotidiano Izvestija, insieme ad altri documenti diplomatici segreti allo scopo di denunciare le trame della politica estera zarista. |