STORIA ROMANA


STORIA E SVILUPPO DELLA CIVILTA' LATINA

Fu la contesa tra allevatori e contadini che fece nascere tra i romani la monarchia, e la leggenda di Romolo e Remo ne è la ricostruzione mitologica.

Come tutte le monarchie antiche, arcaiche, l'agricoltura, ovvero la popolazione stanziale, ebbe la meglio sull'allevamento, ovvero la popolazione nomade. Come ciò sia potuto accadere è difficile dirlo: non possono essere stati fenomeni meramente quantitativi, come p.es. l'aumento della popolazione, a determinare una svolta così radicale. Ovvero all'accrescere dei fenomeni quantitativi ad un certo punto deve aver fatto seguito una decisione qualitativa che s'è posta in maniera drammatica, in aperta violazione di consuetudini condivise dalla comunità di villaggio (la leggenda suddetta non è molto diversa, sotto questo aspetto, da quella di Caino e Abele).

Un patrizio coi suoi avi

Si possono fare alcune ipotesi: gli allevatori erano divenuti un elemento di freno allo sviluppo del villaggio; la parte più debole tra gli allevatori decise di diventare stanziale; la scoperta dell'agricoltura portò il villaggio a sottovalutare l'importanza dell'allevamento…

Si può inoltre dire che le popolazioni stanziali, per avere la meglio su quelle nomadi anche sul piano culturale, ebbero bisogno di darsi delle motivazioni ideologiche, o meglio mitologiche, con cui spiegare il loro atteggiamento prevaricatore. Di qui le leggende sulla discendenza troiana dei romani, anzi dei latini, o sulle origini semidivine del fondatore Romolo.

Il fatto che molti re romani siano stati di origine etrusca si può forse spiegare pensando che gli etruschi erano allora la popolazione italica più forte e Roma dovette scendere a patti con loro. Ma è anche possibile accettare l'ipotesi che furono proprio le popolazioni stanziali ad aver bisogno degli etruschi per potersi imporre su quelle nomadi, dedite all'allevamento e contrarie alla privatizzazione della terra, salvo poi sbarazzarsi degli stessi etruschi a vittoria ottenuta e consolidata.

La nascita e lo sviluppo della monarchia, che durò due secoli e mezzo (753-509 a.C.), comportò l'espansione progressiva dei romani a danno delle popolazioni limitrofe, senza che per questo si riuscì a risolvere il principale conflitto sociale interno, quello tra le classi abbienti, i patrizi, e le classi proletarie, i plebei.

Il più importante dei cosiddetti “sette re” fu senza dubbio Servio Tullio, che divise la popolazione in cinque classi di reddito, al fine di assicurare allo Stato delle entrate sicure, che non dipendessero unicamente dalle conquiste militari.

I nullatenenti erano destinati a rimanere tali, poiché erano esclusi da qualunque diritto e persino dalla possibilità di arruolarsi nell'esercito. Quest'ultimo, a sua volta, era organizzato su base classista: nella spartizione del bottino i cavalieri ottenevano di più rispetto ai fanti con armatura pesante, e questi di più rispetto a quelli con armatura leggera.

Il passaggio dalla monarchia alla repubblica aristocratica fu determinato dall'ampliarsi del potere economico di quelle classi che non potevano vantare una discendenza di alto rango. Il potere era semplicemente determinato dal possesso fondiario. Oppure fu determinato dal fatto che le classi aristocratiche, divenute molto potenti sul piano economico, volevano sbarazzarsi della tutela politica degli etruschi.

Molto probabilmente gli etruschi poterono essere cacciati solo dopo che le classi abbienti promisero ai plebei il riconoscimento di taluni diritti o privilegi. Forse da qui è nato il fenomeno del clientelismo: se il plebeo aiutava il patrizio a rivendicare i propri diritti, questi poteva ricompensarlo con forme di assistenza o riconoscendogli la facoltà di esercitare alcuni diritti.

Per “plebeo” non bisogna ovviamente intendere lo “schiavo”, ma semplicemente il lavoratore privo di proprietà terriera, quella che appunto faceva la differenza tra le classi. Plebeo poteva essere l'artigiano, il piccolo commerciante, così come il piccolo coltivatore.

Probabilmente la monarchia fu abbattuta dalle classi plebee politicamente organizzate dalle classi patrizie di nuova ricchezza, che non potevano vantare una sicura discendenza nobiliare.

L'accordo tra patrizi e plebei in funzione anti-etrusca e forse anche in contrasto coi poteri forti delle classi più agiate e conservatrici, durò circa una ventina d'anni: già nel 486 a.C. i plebei non avevano più alcuna possibilità di essere eletti come consoli. Non è un caso che dopo la fine della monarchia il governo venisse affidato a due consoli: con questa forma di governo le classi patrizie potevano dimostrare la propria democraticità agli occhi di quelle plebee.

Tuttavia, ogni rivoluzione politica viene presto tradita se non si risolvono le contraddizioni sociali. Ai plebei occorse più di un secolo (leggi Licinie-Sestie del 367 a.C.) prima di essere riammessi alle maggiori cariche pubbliche. Per ottenere ciò essi dovettero organizzarsi politicamente e lottare in maniera unita.

Le conquiste principali furono le Dodici Tavole (leggi scritte), l'istituzione del Tribunato (una sorta di sindacato con funzioni politiche), il diritto alla secessione (una sorta di rifiuto di combattere contro un nemico comune ed esterno), il diritto ai matrimoni misti (interclassisti).

Il difetto principale dell'amministrazione del governo repubblicano stava nel carattere delegato della democrazia e nel fatto che le classi più povere restavano comunque escluse dall'esercizio di qualunque forma di potere istituzionale. P.es. nell'assemblea più allargata (i Comizi centuriati) erano assenti tutti coloro che non avevano un reddito sufficiente a garantirsi un equipaggiamento militare.

I Comizi centuriati, nonostante questa forte limitazione nella base sociale, avrebbero potuto garantire maggiore democrazia alle istituzioni rispetto a quanto avrebbe potuto fare il Senato, dove la carica era a vita e dove poteva accedere solo chi aveva svolto funzioni pubbliche (magistrato ecc.).

Di fatto però i Comizi centuriati avevano un potere piuttosto formale, in quanto mentre il Senato serviva per garantire e ampliare un potere già acquisito sul piano economico, i Comizi centuriati avrebbero dovuto servire per contrastare tale potere o per permettere alle classi meno agiate di conquistarlo o di vederselo aumentare. Il che non avvenne. Nella democrazia qualunque forma di delega della rappresentanza riduce di fatto il livello di partecipazione del cittadino nel contesto locale in cui opera.

Il fallimento politico dei Comizi centuriati rispetto alle prerogative del Senato porterà allo svuotamento progressivo del concetto di democrazia e all'involuzione verso la dittatura imperiale.

Peraltro, i Comizi centuriati avevano anche un difetto politico congenito, che impediva un'equa rappresentanza democratica: tutto il popolo romano era stato suddiviso in base al censo in 193 centurie, ciascuna delle quali poteva esprimere solo un voto. Le classi più ricche disponevano di 98 voti e quindi della maggioranza assoluta.

Si può in un certo senso dire che il fallimento politico dei Comizi centuriati portò Roma a trasformarsi in un soggetto imperialistico nei confronti delle popolazioni limitrofe.

Questa dinamica politico-militare si ripeterà nei secoli futuri a livelli sempre più elevati, cioè con gradi più marcati o forme più acute, sino al punto in cui oltre un certo limite non sarà più possibile andare.

Che questa democrazia non funzionasse è dimostrato anche dal fatto che in politica estera fu proprio in questo periodo che Roma scatenò l'offensiva più forte contro le popolazioni italiche (150 anni per occupare tutto il Lazio, dal 509 al 350 a.C.: un tempo così lungo perché in concomitanza scoppiarono dure lotte intestine tra patrizi e plebei).

E comunque la storia di Roma è stata continuamente contrassegnata dal fatto che proprio nel momento in cui sembrava essere più garantita la democrazia, quello invece era il momento in cui s'imponevano dinamiche totalitarie. E queste sono tanto meno cruente in politica interna quanto più possono esserlo in politica estera.

Quando si dice che la repubblica ha conosciuto delle forme di democrazia superiori a quelle del periodo monarchico e imperiale, non bisogna mai dimenticare di sottolineare che la democrazia ivi presente aveva non solo i limiti delle democrazie parlamentari e delegate, ma anche quelli relativi alle discriminazioni sociali basate sul reddito e soprattutto sulla proprietà. Proprio le leggi delle Tavole autorizzavano a schiavizzare il debitore insolvente o persino a eliminarlo fisicamente se nessuno voleva pagare per lui.

Già nel III sec. a.C. Roma dominava tutta l'Italia, con esclusione della parte nord e delle isole. Le concessioni che i patrizi fecero ai plebei servirono anche per assicurarsi l'appoggio di quest'ultimi nelle conquiste militari contro le popolazioni italiche. E' interessante notare, in questo senso, che quanto più le popolazioni italiche reagivano all'invasione romana, tanto più i patrizi erano disposti a concedere i diritti rivendicati dai plebei: sarà questa la strategia vincente contro i cartaginesi di Annibale.

Le conquiste territoriali dei romani furono così grandi in tutto il periodo repubblicano che la Roma imperiale praticamente pensò di poter vivere di rendita per i secoli futuri. La più grande illusione fu proprio quella di credere che le popolazioni sottomesse avrebbero accettato il dominio romano solo perché questo presumeva di mostrare la propria superiorità con l'esercizio del diritto, con l'esperienza bellica, con le capacità di costruzioni edilizie, ecc.

In realtà la persistenza delle contraddizioni socio-economiche porterà le popolazioni sottomesse (specie quelle di confine) a parteggiare per i popoli invasori.

Roma si illuse enormemente nel credere che le cosiddette “popolazioni barbariche”, una volta sottomesse o cacciate dai loro territori, avrebbero accettato con rassegnazione la loro sorte. Sarebbe interessante verificare quanto il lato “barbaro” di tali popolazioni fosse una caratteristica ad esse endogena o non anche una conseguenza dei secoli di terrore causato dallo strapotere di Roma. Le invasioni in epoca medievale furono certamente terrificanti, ma non meno dell'oppressione che Roma esercitò su queste popolazioni per almeno mezzo millennio.

Roma cercò di accattivarsi le simpatie di tali popolazioni concedendo diritti sempre maggiori, reclutandole nelle file degli eserciti, riconoscendo qualunque culto religioso, ma tutto ciò servì solo a rallentare l'inevitabile crollo.

E' sicuramente sbagliato sostenere che la causa principale del crollo fu dovuta alle invasioni barbariche. Il motivo principale furono le interne contraddizioni, di tipo sociale ed economico, la mancata soluzione delle quali comportò l'indebolimento generale dell'impero nei confronti della pressione esterna.

Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che le invasioni barbariche furono una risposta alla mancata soluzione di quelle contraddizioni: non la risposta più adeguata ma certamente una nuova risposta a quelle contraddizioni.

I barbari aumentarono il tasso di democrazia della società romana o comunque diedero una forma sociale a un concetto di democrazia che al massimo si esprimeva in forme giuridiche e solo parzialmente politiche.

La redistribuzione della proprietà permetterà la trasformazione della schiavitù in servaggio e permetterà anche un certo progresso tecnologico nella lavorazione della terra.

Si può forse dire che dopo le guerre puniche, che pur furono le più importanti per i destini dell'impero, Roma aveva praticamente segnato il proprio destino. Queste guerre, infatti, invece di servire ad allargare la base sociale del futuro impero, la restrinsero enormemente, a tutto vantaggio e dei proprietari terrieri, che divennero grandi latifondisti, e dei grandi mercanti (l'ordine equestre).

Le province furono considerate come terra di conquista di grado inferiore a quelle italiche, una sorta di proprietà esclusiva delle classi più agiate. Si arrivò a questo proprio perché dette classi volevano recuperare nei territori più lontani (o per loro mezzo) ciò che erano state costrette a cedere nella madrepatria, a causa delle lotte sociali.

L'enormità dei latifondi, che si trovavano anche in Italia, determinò la fine dei piccoli proprietari terrieri, la loro trasformazione in operai salariati se non in schiavi, in mercenari o, peggio, in delinquenti.

L'ultima chance che Roma ebbe di ripensare la politica favorevole al latifondo fu quella offerta dai tentativi di riforma agraria dei fratelli Gracco, ma l'opposizione fu netta.

E' indicativo di quanto dovette essere esteso il latifondo il limite massimo di proprietà che i Gracchi posero ai senatori: 125 ettari, che potevano tranquillamente raddoppiare se esisteva prole.

Significativo altresì il fatto che quando l'ultimo Gracco cercò di allargare la base sociale dell'impero concedendo la cittadinanza romana a tutti gli italici (coi privilegi annessi), persino la plebe di Roma gli si rivoltò contro. Questo a testimonianza dei rapporti clientelari che i grandi proprietari di beni e di terre erano già riusciti a creare nel corso delle conquiste imperiali.

La cittadinanza fu concessa solo in occasione della guerra sociale (90-88 a. C.), ma a condizione di salvaguardare intatto il patrimonio terriero: un potere che per essere conservato avrà sempre più bisogno di una dittatura politica, la quale, per imporsi, avrà bisogno di apparire solo formalmente a favore della plebe e contraria allo strapotere del Senato, ma che nella sostanza continuerà a fare gli interessi dei possidenti di beni mobili e immobili, vecchi e nuovi.

Di particolare rilievo il fatto che la gestione dell'impero assumerà sempre più sul piano politico una veste militare, permettendo così ai ceti senza proprietà di potersi emancipare.

Il capo dell'impero era da un lato il rappresentante della classe senatoria, che a sua volta rappresentava i ceti più agiati, ma nel contempo era anche il rappresentante di quelle esigenze che per via militare ambivano a riconoscimenti politici ed economici.

Le guerre civili inaugurate da Mario e Silla andarono oltre la contesa politica tradizionale e sconfinarono sul terreno più difficile da gestire del conflitto politico-militare e istituzionale. I leaders politici dei partiti avversi erano diventati anche capi militari.

Questo comportava una svolta nei rapporti di forza istituzionali, poiché l'esercito, da organo meramente esecutivo al servizio del Senato, cioè dello Stato, si stava trasformando in un organo esecutivo parallelo allo Stato, quindi con potere decisionale autonomo, in grado addirittura d'interferire nella strategia della leadership politica imperiale.

L'esercito non tutelava soltanto gli interessi dei proprietari fondiari, ma anche quelli dei cavalieri (equites), i “nuovi ricchi” i cui interessi imprenditoriali spesso configgevano con quelli agrari dei latifondisti.

L'esercito non aveva solo lo scopo di assicurare la gestione imperiale delle colonie, difendendone i confini dalle popolazioni cosiddette “barbariche” e sedando i tumulti interni, ma anche quello di controllare che le discriminazioni sociali a danno di plebe e schiavi non sfociassero in aperta ribellione (o non finissero coll'incentivare le rivolte degli stessi schiavi, come quella capeggiata da Spartaco).

Con Mario l'esercito diventa un mezzo di emancipazione economica dei ceti marginali e sono proprio questi ceti che, paradossalmente, difendono le istituzioni e le classi agiate. Questi paradossi sono tipici di quelle civiltà che vogliono risolvere le contraddizioni sociali, giunte a un grado estremo di acutezza, con gli stessi mezzi generati dalle medesime contraddizioni.

L'esercito subì una trasformazione radicale, in quanto già alla fine della repubblica, si trovava ad essere più legato al profitto ricavato dalle guerre, dai saccheggi, ecc. che non al concetto di difesa della patria o di difesa di alcune categorie sociali.

L'esercito stava per diventare una miriade di eserciti, ognuno dei quali si sentiva autorizzato ad agire in relativa autonomia. E questo proprio nel momento in cui il diritto romano si stava universalizzando e la concessione della cittadinanza romana a tutti i cittadini dell'impero di fatto rendeva instabile ogni privilegio della capitale.

La progressiva militarizzazione dell'impero non era solo in funzione della pressione “barbarica” lungo il limes, ma era dettata anche da esigenze di politica interna.

Interessante fu il fatto che a partire da Costantino la sfera politico-militare capì che per continuare a tutelare gli interessi dei ceti più abbienti occorreva darsi una veste anche culturale e religiosa che apparisse quanto più possibile democratica: di qui la scelta per il cristianesimo.

Senza volerlo l'impero aveva posto una delle basi istituzionali dei futuri regni barbarici, e cioè l'alleanza di Stato e cristianesimo (vedi ipertesto).


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Periodizzazione
Fasi principali della storia romana
Le origini della repubblica romana
Enrico Galavotti

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014