CONTRO ULISSE
Demitizzare un modello negativo

L'ULISSE DI DANTE

La scelta della pena

Nell'ottava bolgia, delle dieci dell'ottavo cerchio del suo Inferno, Dante condanna senza mezzi termini i consiglieri fraudolenti della sua Firenze. Li paragona a "lingue di fuoco", perché ha voluto creare un contrappasso adeguato alla complessità della colpa di questi "ladron", che ingannarono le loro vittime (soprattutto con l'arte oratoria), nascondendo dietro false intenzioni il loro vero scopo, per cui adesso sono costretti a restare nascosti per sempre da un fuoco che li brucia dolorosamente, rubando l’immagine della loro forma fisica, così come nella loro vita essi furono ladri della buona fede altrui.

La fiamma che li avvolge assume addirittura i connotati fisici delle anime in pena, al punto d'assomigliare a una lingua che, guizzando, emette suoni articolati.

L'incontro con Ulisse

Ma quando viene a sapere che tra i dannati vi è pure Ulisse (in compagnia dell'amico Diomede), l'atteggiamento di Dante cambia completamente.

Al pari degli altri dannati, Ulisse viene presentato come un uomo chiuso in se stesso, anche se in quel momento è desideroso di parlare coi due inaspettati ospiti (Dante e Virgilio).

Di fronte alla grandezza d'un personaggio del genere, osannato da tutta la letteratura greca e latina, Dante si sente piccolo e avverte di dover fare molta attenzione a misurarsi con lui. Anzi, temendo troppo il confronto con un personaggio del genere, il poeta non s'arrischia neppure d'interrogarlo e lascia che al suo posto lo faccia Virgilio.

Siccome ha deciso di metterlo all'Inferno, deve poter dimostrare questa sua scelta in maniera "oggettiva" o, se vogliamo, "etica", senza indulgere troppo nell'artificio letterario e senza lasciarsi dominare dalla passione politica.

I motivi della condanna

Ulisse viene condannato per motivi sia politici che morali:

  • perché, insieme a Diomede, con l'inganno convinse Achille a guerreggiare contro i troiani, inducendolo ad abbandonare la sposa Deidamia, che morì di crepacuore;
  • perché escogitò l'inganno del cavallo per conquistare Troia (Dante accetta la leggenda di Virgilio secondo cui i romani sono discendenti di Enea profugo di Troia);
  • perché Ulisse e Diomede rubarono alla città sconfitta il Palladio (statua di Atena), mostrando così il loro disprezzo per le cose sacre;
  • perché rinunciò all'affetto paterno per il figlio, alla pietà filiale per il padre, all'amore doveroso per la moglie, semplicemente per inseguire sogni di avventura, al fine di "divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore"(XXVI, 97-99);
  • perché convinse i suoi compagni marinai a tentare una folle impresa, che mai nessuno aveva rischiato: quella di costeggiare l'Africa sino alla punta estrema. In tal senso la condanna sfiora l'accusa di empietà, cioè di ateismo, in quanto il limite delle colonne d'Ercole (presso lo stretto di Gibilterra) era stato posto dagli stessi dèi (sulle colonne, secondo i latini, era scritto: “Non plus ultra”).

Ma perché, se i motivi sono così espliciti e ben delineati, Dante non ha neppure il coraggio di parlare con Ulisse? Per quale motivo si è sentito indotto a inventare l'escamotage secondo cui Ulisse, essendo un grande eroe greco, non si sarebbe abbassato a parlare con un poeta che scriveva in volgare fiorentino?

Ulisse viene messo all'Inferno per delle colpe che costituirono tra gli intellettuali, i politici, i militari... dell'antichità un motivo di vanto o comunque una necessità del tutto scusabile, specie se in condizioni di guerra o di pericolo; per delle colpe che forse avrebbero dovuto essere controbilanciate dai suoi meriti personali (Ulisse in fondo era simbolo del coraggio, della ragione, dell'astuzia, della ricerca, della curiosità, della esplorazione...); per delle colpe che per un eroe "pagano" erano tali sino a un certo punto e forse per le quali avrebbe meritato il Purgatorio.

Non a caso nel Paradiso Dante formula un'angosciosa domanda a proposito dell’uomo nato al di fuori dei confini del cristianesimo ("Un uom nasce a la riva / de l’Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo né chi legga né chi scriva; / e tutti suoi volere e atti buoni / sono, quanto ragione umana vede" - XIX 70-4), una domanda che dimostra un’apertura tutt’altro che convenzionale verso i non cristiani, un’apertura fondata sulla ragione, non sul dogma: "ov’è questa giustizia che ‘l condanna? / ov’è la colpa sua, se ei non crede?" (XIX 77-8). (1)

Il fascino del condannato

Proprio in questa cantica vi è una delle terzine più famose di tutto l'Inferno e forse di tutta la Commedia. Sono parole ("orazion picciola") che Dante fa dire a Ulisse quando questi voleva convincere i suoi compagni ad avventurarsi verso l'oceano: "Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza"(XXVI, 118-120). E' grande qui Dante quando porta il lettore a chiedersi come definire un uomo che proprio mentre afferma tali grandi parole, nega la vera virtù e la conoscenza utile a vivere un'esistenza davvero umana?

Dante sa bene d'aver subito in gioventù il fascino della personalità dell'eroe omerico, esattamente come tutti gli intellettuali che l'avevano preceduto, da Orazio a Seneca, a Cicerone, che avevano sottolineato di Ulisse il patrimonio di conoscenze e di saggezza conquistato nel suo avventuroso viaggio e ne avevano fatto il simbolo della virtù (humanitas) intesa come profondo ed insaziabile desiderio dell'uomo della conoscenza, anche se per questo egli deve ritardare il nostos, cioè il ritorno in patria.

Orazio definisce Ulisse “modello di virtù e di sapienza” (“conobbe i costumi degli uomini... e soffrì molte asperità nel vasto mare”, Epistole). Seneca accosta Ulisse ed Ercole celebrandoli come uomini “vincitori di ogni genere di paure”(Costanza del sapiente). Soprattutto Cicerone, commentando l'episodio dell'incontro di Ulisse con le Sirene dice dell'eroe: “le Sirene gli promettono la conoscenza: non deve quindi meravigliare se ad Ulisse, questa apparisse più cara della patria, tanto era desideroso di conoscenza” (Sul sommo bene e sul sommo mal).

Il motivo di fondo per cui Dante mette Ulisse all'Inferno non è semplicemente per il suo ateismo o per il fatto che avesse una concezione del tutto formale della religiosità, ma per il fatto che nel proprio ateismo egli non tenesse in alcuna considerazione gli umani sentimenti.

Non dobbiamo dimenticare che Dante, pur non essendo un cattolico integralista, non era neppure un laico come Marsilio da Padova (1275 - 1343), suo conterraneo. Egli è consapevole di non poter condannare all'Inferno un uomo che tentò di attraversare lo stretto di Gibilterra, ma il dovere "religioso" gli impone di doverlo fare, in quanto l'Ulisse ateo mandò a morte i suoi compagni. E così per le altre colpe.

Peraltro, il fatto che qui Dante rispetti tutte le consegne di Virgilio è la dimostrazione ch'egli aveva nei confronti della tradizione un atteggiamento più ossequioso di quello di Ulisse.

La fine del condannato

Dante, che pur non ha chiesto nulla all'eroe greco, gli fa raccontare un viaggio che neppure i redattori dell'Odissea ebbero mai il coraggio di narrare, e che influenzerà buona parte della letteratura a lui successiva. Egli infatti fa premettere a Ulisse due cose che tutto fanno pensare meno che all'idea di dover condannare all'Inferno un navigatore così coraggioso ancorché ateo: l'"orazion picciola", di cui s'è detto, e la constatazione del limite fisico dei marinai, i quali, a conti fatti, non riuscirono nell'impresa, secondo l'opinione di Ulisse, soltanto perché "già vecchi e tardi (nei movimenti)"(v. 106). Anche se qui Dante si serve di questa dichiarazione per sostenere che il folle viaggio fu intrapreso in piena consapevolezza.

Che Dante concluda in maniera romanzata (alla Moby Dick, per intenderci), senza proferire parola alcuna di commento, e soprattutto senza fare alcun cenno ai delitti e alle nefandezze ben più gravi di cui si macchiò Ulisse, è indicativo del fatto che tra lui e Omero s'era insinuata una sorta di "attrazione fatale", ereditata dagli intellettuali greci e latini e che verrà tramandata a tutti gli intellettuali successivi, sino alla stroncatura senza soluzione di continuità del Pascoli.

Ulisse è l'unico personaggio importante della Commedia che non appartenga alla storia contemporanea di Dante, facendo parte del mito: la sua funzione è dunque soprattutto simbolica, e corrisponde narrativamente, con coerenza stilistica e retorica, alla metafora del mare, con le sue acque invitanti e infide, che non solo in Dante ma in tutta la tradizione culturale del Medioevo, rappresenta la conoscenza, il sapere e la ricchezza: attraversarlo o comunque tentare di solcarlo è quindi un tentativo coraggioso di superare i limiti delle conoscenze precedenti e delle precedenti civiltà agricolo-pastorali.

E' un'impresa che, nell'immaginario medievale, può essere facilitata dall’approvazione divina, come nel caso appunto di Dante, che apprende i segreti delle cose attraverso il viaggio nell’aldilà; oppure, come nel caso di Ulisse, condannata in partenza al fallimento, proprio perché si pone come sfida alla virtù divina.

Ulisse è una specie di specchio negativo di Dante. Dal punto di vista della conoscenza, entrambi sono degli eroi, degli scopritori. Tuttavia Dante è, per così dire, un esploratore approvato da dio, mentre Ulisse è un ribelle, un temerario che osa imporre la propria volontà agli dèi. La presunzione umana rappresenta un inconcepibile sovvertimento dell'ordine dell'universo, e come tale è una forma di "follia". Infatti, l'aggettivo folle, come segnale preciso di questa volontà assurda per chi è sostenuto dalla fede e dalla grazia, compare al v. 125, a definire la natura insana dell'impresa di Ulisse.

L'autore, dunque, sente vicina alla propria l'esperienza di Ulisse (che può rappresentare quella dei filosofi laici che - come lo stesso Dante giovane - si lasciarono tentare da una conoscenza che fosse dei tutto indipendente dal valore della fede religiosa). Ma Dante credette di salvarsi in tempo dal fallimento, tornando alla fede. In questo senso, il personaggio di Ulisse lo rispecchia, ma solo per gli aspetti negativi che lo segnarono in passato e che al tempo in cui scrive la Commedia egli ha ormai superato.

Anonimo fiorentino, Il naufragio della nave di Ulisse, 1390-1400 ca., Biblioteca Apostolica Vaticana, MS lat. 4776, Città del Vaticano

Da un lato quindi Dante deve condannare, formalmente, l'eroe greco per empietà e irresponsabilità, dall'altro però, nascostamente, non può fare a meno di elogiarlo, per aver saputo di molto anticipare i tempi, al punto che dedica al racconto del tragico naufragio ben 37 versi su 142.

Conclusione

Il finale della cantica non sembra affatto un epilogo conseguente alla condanna politica e morale riportata in precedenza; anzi sembra un chiaro invito a riprendere la rotta indicata da Ulisse. Sono talmente tante le indicazioni astronomiche e marittime, che Dante non fa che plaudire, indirettamente, al coraggio del piccolo Portogallo, il quale arriverà presto a scoprire che la direzione del vento dominante cambiava con la latitudine e con la stagione, e a inventare gli strumenti utili alla navigazione una volta attraversato l'equatore, che rendeva appunto vana la stella Polare. (2)

Proprio ai tempi di Dante, infatti, i marinai portoghesi avevano cominciato a fare la stessa cosa di Ulisse, al punto che col principe Enrico il Navigatore (1394-1460) si ufficializzò definitivamente, dietro il solito pretesto di una crociata anti-islamica, il diritto alla conquista dei territori cosiddetti "ignoti" e l'esigenza di trovare tutti i mezzi e modi possibili per aggirare l'impero islamico e raggiungere l'Oriente.

Mercanti genovesi e fiorentini, dopo l'espulsione delle forze islamiche dal Portogallo meridionale, seppero qui creare nuovi mercati così fiorenti che tutti i porti lusitani divennero importanti stazioni commerciali sulle rotte dell'Atlantico settentrionale, specie nel rapporti con Fiandre e Inghilterra.

Al tempo di Dante Lisbona era uno dei maggiori porti europei. Ai mercanti italiani ovviamente seguirono ben presto i banchieri, finché nella zona sud si costituirono vere e proprie colonie italiane, che per la loro abilità finanziaria fruivano d'immunità fiscali e giurisdizionali da parte dei sovrani lusitani.

Tali comunità non fecero che avvalersi delle cognizioni nautiche degli islamici e trasferire nell'Atlantico meridionale quelle esperienze, tecniche, abilità di cui avevano dato prova sul versante settentrionale.

Nel XIII secolo l'Africa era già oggetto di conquista e non solo di commerci. Si volevano insediare scali commerciali sulle coste di Tunisia, Algeria e Marocco, dove era possibile trovare anche oro, spezie e schiavi.

Si sa con certezza che pescatori portoghesi erano approdati alle Azzorre verso la metà del 1300.

L'approdo alla montagna del Purgatorio, che per l'Ulisse ateo ed egocentrico fu tragico epilogo e per il Dante credente e tradizionalista ulteriore tappa verso l'empireo, fu in realtà la premessa per una storia molto più prosaica e crudele, in quanto le imprese marinaresche dei portoghesi e poi degli spagnoli, pur condotte sotto la "protezione divina", finirono con lo sconvolgere l'intero pianeta, aprendo la strada alla nascita del colonialismo e del capitalismo.

Non a caso l'inglese Alfred Tennyson (1809-1892) ebbe tutt'altra interpretazione dell'ultimo viaggio di Ulisse. Il suo Ulisse torna sì a Itaca, ma per ripartirne subito dopo. Infatti né il ritrovato focolare domestico, né la riconquistata funzione di sovrano offrono vere soddisfazioni; anzi, la stessa Itaca, oggetto della nostalgia dell'Ulisse omerico, è divenuta per l'eroe di Tennyson isola inospitale ("sterili rocce"). Non può appagarsi di una vita tranquilla, scandita da ritmi sempre uguali, chi ha vissuto l'avventura della scoperta.

Ulisse, benché anziano, vuole riprendere a navigare e, ritrovati alcuni compagni di viaggio, prospetta loro nuove avventure, nonché la possibilità della morte per mare ("forse è destino che i gorghi del mare ci affondino"); ma l'infrazione del limite, che in Dante portava necessariamente alla punizione, non è vista da Tennyson come eccesso di ardimento.

Anzi, egli insiste sulla tempra eroica di Ulisse, elogiando la sua volontà di "lottare e cercare e trovare né cedere mai". Laddove Dante non poteva concepire l'esito dell'ultima avventura di Ulisse se non in termini di distruzione e di annientamento, Tennyson - che vive nella moderna epoca borghese, in una nazione le cui flotte solcano i mari, impegnata in un progetto di espansione che esige le doti di determinazione e tenacia - fa del suo eroe l'emblema dello spirito pionieristico, della scoperta arrischiata, non solo giustificabile, ma più che lecita, anzi esemplare.

W B. Stanford, commentando l'immagine di Ulisse fornita dai versi di Tennyson, scrisse: "Un moderno Ulisse è nato, un santo patrono pagano per una nuova età di ottimismo scientifico e di espansione coloniale".


(1) Jorge Luis Borges, in Nove saggi danteschi, Adelphi, afferma che certamente Ulisse ha intrapreso un viaggio folle, impossibile, ma l’angoscia, la partecipazione palese di Dante sono quasi troppo profonde e intime. Dante non è l’anti-Ulisse, poiché fa un viaggio non meno “folle” di quello dell'eroe greco, che però egli vuol far risultare autorizzato da dio. Per Borges, Dante è un Ulisse cristianizzato: il folle volo del poeta toscano è la scrittura del libro stesso. Dante era un teologo che in nome di dio si arrogava il diritto di decidere il bene e il male per l'eternità. In tal senso Ulisse, essendo precristiano, non può essere condannato per il proprio ateismo, ma solo per delle colpe morali universali.
Già Lotman (Ulisse e l'originale doppio di Dante), alla domanda sul perché Ulisse il navigatore blasfemo fosse stato messo nel girone dei consiglieri fraudolenti e non invece in quello di coloro che si sono ribellati a dio, rispondeva che la colpa più grave di Ulisse era stata, secondo Dante, quella di aver barato con i "segni" (p.es. il cavallo di Troia), ed era stato punito per la sua audacia di navigatore da una natura che, pur essendo responsabile della sua morte, non poteva agire come vendicatrice di dio, almeno non più dopo Dante. (Il viaggio di Ulisse nella Divina Commedia di Dante, Testo e contesto. Semiotica dell'arte e della cultura, Bari, Laterza, 1980). (torna su)

(2) Perché stupirsi di questo rapporto tra Dante e i marinai portoghesi visto che nella XVII cantica egli ha addirittura anticipato Galilei?
Ella sen va notando lenta lenta; / rota e discende, ma non me n'accorgo / se non che al viso e di sotto mi venta. (Inferno, canto XVII).
In questa terzina c'è l'esatta descrizione del principio elaborato da Galileo Galilei (1632) della cosiddetta invarianza galileiana, lo stesso che poi è alla base della teoria della relatività. Si tratta della sensazione che prova un viaggiatore seduto su un treno che non riesce a capire se il treno è effettivamente in movimento. (torna su)

canto XXVI - La bolgia dei consiglieri di frode - Dante


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia antica
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Aggiornamento: 01/05/2015