|
|||
![]()
|
IL PERCORSO DELL'IDEA DI SOPHROSYNEIl termine sophrosyne stava a indicare nei periodi più antichi della storia greca l’idea della saggezza, una qualità consistente essenzialmente nella temperanza, nella moderazione e nel retto comportamento dell’uomo che, consapevole della propria inferiorità rispetto agli dei, ne accetta i decreti con rassegnazione. Tale qualità si portava dietro, come logica conseguenza, un comportamento equilibrato, che rifugge dagli eccessi e che quindi, in qualche modo, potremmo definire “razionale”. Un tale concetto non era dunque strettamente legato all’idea di sapere (sophia), identificandosi essenzialmente con un atteggiamento etico. Quando, di ritorno dalla guerra di Troia, Aiace Oileo impreca contro gli dei per le difficoltà del suo rimpatrio (tanto che Poseidone per vendetta lo fa affogare), si comporta in modo arrogante e stolto, dando prova così di non essere saggio. La sua colpa non deriva da un’assenza di conoscenza, ma dall’incapacità di seguire un comportamento improntato a moderazione. Già a partire dall’epoca arcaica tuttavia (VII secolo a.C.), l’idea di sophrosyne comincia ad assumere un significato nuovo, in coincidenza con l’evoluzione della cultura greca in un senso sempre più razionalistico. La saggezza come istanza etica inizia infatti da allora a essere concepita sempre di più come complementare a una conoscenza di tipo teorico, riguardante la natura profonda delle cose. Non può insomma esservi più saggezza senza che vi sia al contempo sapienza: il saggio deve essere sapiente! Certo, egli resta pur sempre innanzitutto colui che agisce in modo retto, ragionevole, restando cioè lontano dagli eccessi, nel giusto mezzo. Ma la sua saggezza non può comunque più prescindere dalla conoscenza, dalla sophia. Una tale trasformazione del concetto di sophrosyne, massimamente visibile qualora si considerino le manifestazioni del pensiero filosofico (dai Pitagorici, a Eraclito, per arrivare a Socrate e, ancor più in là, a Platone), è presente anche, seppure senza dubbio in una forma diversa, nell’opera di Eschilo. Né ciò deve stupirci, dal momento che questi non era un filosofo ma un drammaturgo, ragion per cui la conoscenza cui aspirava non aveva né poteva avere un carattere teoretico. Essa era piuttosto una consapevolezza che si collocava al termine di un’esperienza di dolore (l’evento tragico) e che consisteva essenzialmente nel riconoscimento delle leggi etiche alla base del Cosmo da lui precedentemente violate (pathei mathos). Pur non ponendosi dunque egli (come Eraclito, Parmenide, ecc.) il problema di sviluppare una teoria cosmologica, né (come Socrate o Platone) di definire in termini precisi e razionali l’essenza della Verità, della Giustizia, del Bene, ecc., il suo fine era pur sempre quello di giungere alla comprensione dell’origine profonda del dolore umano, ovvero delle leggi che regolano il rapporto tra uomo e dio. Già a partire da Sofocle tuttavia, la fiducia nel poter giungere a una – sia pur imperfetta – comprensione dei fondamenti etici del Cosmo, pare essere svanita. L’eroe sofocleo (sia egli Edipo, Aiace, Creonte…) si trova condannato a una solitudine, a un’emarginazione totale che è sì conseguenza di un peccato originario, la sua superbia o dismisura, ma che resta comunque inspiegabile in termini razionali, umani. Egli si trova cioè gettato in un universo di dolore senza che ciò possa, quantomeno secondo i criteri della ragione umana, essergli imputato. Il che implica che la Giustizia divina, l’ordine che presiede alle sorti del Cosmo, restino per lui un enigma indecifrabile. Né questa profonda sfiducia è superata da Euripide, il quale infatti, pur indagando le ragioni (aitiai), i moventi psichici alla base del crimine e del peccato umano, sembra considerare quest’ultimo più come un destino che possiede il singolo individuo, che non come una scelta consapevole e ad egli realmente imputabile. L’accecamento, la perdita della giusta via (sophrosyne) resta dunque anche per Euripide un fatto inspiegabile e misterioso, come il Male che attanaglia la vita degli uomini. Il caos allora dilaga, e la fiducia nell’esistenza di un ordine alla base dell’Essere finisce per affievolirsi, senza pur tuttavia mai scomparire del tutto. Resta infatti sempre viva malgrado tutto, e nonostante alcuni momenti di scoramento e di dubbio, una timida fede nell’esistenza di un ordine superiore e trascendente, dovuto agli dei, seppure per sua natura incomprensibile per l’uomo. È solo con le Baccanti che, a mio avviso, questa fede viene definitivamente, ovvero esplicitamente, accantonata. In essa infatti il divino perde quei connotati di ordine e di moralità che fino ad allora Euripide aveva cercato di attribuirgli, e ciò proprio nel momento in cui esso viene fatto coincidere sulla scena con Dioniso: dio dell’estasi sensuale e dell’eccesso, del Disordine rigeneratore. Euripide pare insomma, in questa tragedia, abbandonare del tutto l’idea di sophrosyne quale era stata fino ad allora universalmente concepita, cioè come moderazione e continenza, da intendersi peraltro come virtù essenzialmente civili o politiche. Penteo manca infatti di sophrosyne proprio nella misura in cui rimane ostinatamente ancorato a valori di moderazione e di razionalità. E tale appunto è la sua colpa, simile peraltro a quella di Edipo: il fatto di presumere di sapere. Egli continua nel corso dell’opera a credere incondizionatamente in tali valori (e ciò, evidentemente, anche dal momento che essi sono il fondamento ideale dell’organismo politico di cui è sovrano), anche quando si rivelano ormai la negazione stessa della saggezza. Il mondo difatti – come gli dimostra Dioniso – non è retto da Sapienza e Ordine, neppure da un ordine e da una sapienza incomprensibili all’uomo in quanto divini, bensì piuttosto da un eterno Caos distruttore e rigeneratore. E assieme all’idea di un tale Ordine, crollano tutta una serie di altre certezze, a loro volta intrinseche alla civiltà classica, che né Sofocle né lo stesso Euripide avevano mai osato (quantomeno mai così radicalmente) porre in discussione. Le Baccanti appaiono dunque come l’esito estremo di un processo – quello della disgregazione del razionalismo e dell’umanesimo classici – i cui inizi risalgono, per quanto riguarda la tragedia, a Sofocle. Tale opera rappresenta l’assoluto trionfo del dionisiaco sull’apollineo, della spontaneità priva di regole sulla ragione regolatrice: una caratteristica che la rende qualcosa di assolutamente originale all’interno dell’intero panorama delle tragedie classiche, e non solo di esse. Come notò lo stesso Nietzsche, essa pare costituire, nelle intenzioni dell’autore, una sorta di tardivo ravvedimento, un tentativo di ritorno alle origini spirituali del teatro, a quei rituali ancestrali e irrazionali che vedevano nell’uccisione di un capro lo strumento per propiziarsi la divinità. Più di qualsiasi altra tragedia dunque, le Baccanti lasciano intravedere in chi le ha scritte un nostalgico desiderio di ritorno al passato, e ad un passato molto lontano, quasi mitico. Le Baccanti di Euripide e il declino della polis classica - Un confronto con le Eumenidi di Eschilo - La rivincita degli esclusi |