OVIDIO PUBLIO NASONE, ARACNE (VI libro delle Metamorfosi) - Il commento
La dea del Tritone aveva seguito con attenzione il racconto
delle Muse, elogiando il canto e giustificandone l'ira.
Ma poi, tra sé: "Lodare va bene, ma anch'io voglio essere lodata,
non lascerò che si disprezzi la mia divinità impunemente!".
E s'impegnò a perdere Aracne di Meonia, che (l'aveva udito)
non voleva riconoscerle il primato nell'arte
di tessere la lana. Non per ceto o stirpe lei era famosa,
ma per maestria d'arte. Suo padre, Idmone Colofonio,
tingeva imbevendola con porpora di Focea la lana;
morta era invece la madre, una popolana
come il marito. Ma Aracne, malgrado fosse nata da famiglia
umile e nell'umile Ipepe abitasse, con la sua maestria
s'era fatta un gran nome nelle città della Lidia.
Per ammirare la meraviglia dei suoi lavori, avvenne
che le ninfe del Timolo lasciassero i loro vigneti
e che quelle del Pactolo lasciassero le loro acque.
E non solo era un piacere ammirare i tessuti finiti,
ma la loro creazione, tanta era la grazia del suo lavoro.
Sia che iniziasse a raccogliere la lana grezza in matasse
o, filandola con le dita, un dopo l'altro ne ammorbidisse
con largo gesto i bioccoli simili a nuvolette,
sia che ruotasse il fuso levigato con lievi tocchi del pollice
o con l'ago ricamasse, era chiaro che l'ammaestrava Pallade.
Ma lei lo negava e indispettita dal carisma della maestra:
"Che gareggi con me!" diceva. "Se vince, starò alla sua mercé".
Vecchia si finge Pallade, di falsa canizie spruzza le tempie
e in più si sostiene a un bastone come se avesse le membra inferme.
Poi prende a parlare: "Non tutto è male da evitare
in tarda età: più s'invecchia e più cresce l'esperienza.
Ascolta il mio consiglio: aspira pure ad essere
la migliore fra i mortali nel tessere la lana,
ma inchinati a una dea, e di ciò che con arroganza hai detto
chiedi in ginocchio venia: se l'invochi, non ti negherà il perdono".
Con sguardo torvo Aracne sospende la tessitura
e trattenendo a stento le sue mani, il volto acceso d'ira,
senza riconoscerla replica a Pallade in questi termini:
"Una demente, ecco quello che sei, rimbambita dalla vecchiaia:
vivere troppo a lungo nuoce, eccome! Queste chiacchiere
propinale a tua nuora o a tua figlia, se per caso ne hai una!
Io so cavarmela benissimo da sola e perché tu non creda
d'aver frutto coi tuoi moniti, sappi che la penso come prima.
Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?".
E allora la dea: "E' venuta!", dice; lascia l'aspetto di vecchia
e si mostra come Pallade. Di fronte alla dea si prostrano
le ninfe e le giovani di Lidia: soltanto lei non si sgomenta,
ma sussulta, questo sì, e suo malgrado un rossore improvviso
le accende il volto per subito dopo dileguarsi,
così come ai primi cenni dell'aurora il cielo s'imporpora
e in breve tempo, quando sorge il sole, poi si sbianca.
Si ostina nel suo proposito e per insensata brama di gloria
corre alla sua rovina: la figlia di Giove infatti non rifiuta,
non l'ammonisce più, più non rinvia la gara.
Senza indugio si sistemano ognuna dalla propria parte
e col filo sottile tendono entrambe un ordito.
L'ordito è avvinto al subbio, il pettine separa i fili,
con l'aiuto delle dita la spola affusolata
inserisce la trama che, passata attraverso i fili,
è compressa con un colpo dai denti intagliati nel pettine.
Lavorano entrambe di lena e, fermata la veste intorno al petto,
muovono esperte le braccia con tant'arte da non sentir fatica.
Impiegano, per tessere, la porpora tinta nei bronzi di Tiro
e colori a sfumature così tenui da distinguerle appena,
come l'arcobaleno che dipinge, quando la pioggia rifrange
il sole, con una grande parabola un lungo tratto di cielo,
ma non permette a chi guarda, benché risplenda di mille colori
diversi, d'individuare il passaggio dall'uno all'altro,
tanto i contigui s'assomigliano pur differendo ai margini.
Filamenti d'oro sono intessuti nell'ordito
e sulla tela prendono forma storie remote.
Pallade effigia il colle di Marte nella cittadella di Cècrope
e l'antica contesa sul nome da dare alla contrada.
Dodici numi, e Giove in mezzo, siedono con aria grave
e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto
la propria identità; l'aspetto di Giove è quello di un re.
Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente
il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare
un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata.
A se stessa assegna uno scudo, un'asta dalla punta acuminata,
un elmo e l'egida per proteggere il capo e il petto;
e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia
genera l'argentea pianta dell'ulivo con le sue bacche;
e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria.
Ma perché la rivale comprenda da qualche esempio
cosa dovrà aspettarsi per quella sua folle audacia,
aggiunge ai quattro angoli altrettante sfide,
vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti.
In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo,
ora gelidi monti, un tempo esseri mortali,
che avevano usurpato il nome degli dei maggiori.
Dall'altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei:
avendola vinta in una gara, Giunone impose
che diventasse una gru e s'azzuffasse col suo popolo.
Poi effigia Antigone, che una volta osò competere
con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone
fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte
poterono impedire che, spuntatele le penne,
come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco.
Nell'angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie,
abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne,
e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna tutti i margini con rami d'ulivo, emblema di pace,
e con la pianta che le è sacra conclude l'opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dal fantasma
di un toro, e diresti che è vero il toro, vero il mare;
la si vede che alle spalle guarda la terra
e invoca le compagne, e come, per paura d'essere lambita
dai flutti che l'assalgono, ritragga timorosa le sue gambe.
E raffigura Asterie che ghermita da un'aquila si dibatte,
raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina;
e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro
ingravida di due gemelli l'avvenente figlia di Nicteo;
che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione;
che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo,
in pastore Mnemòsine, in serpe screziato la figlia di Cerere.
Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco
penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi
gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte;
te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma
conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli
del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino.
Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così
l'ambiente. E c'è pure Febo in veste di contadino,
e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone,
e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo.
C'è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva,
come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Lungo l'estremità della tela corre un bordo sottile
con fiori intrecciati a viticci d'edera.
Neppure Pallade o Invidia avrebbero potuto denigrare
quell'opera. Ma la bionda dea guerriera si dolse del successo,
fece a brandelli la tela che illustrava i misfatti degli dei
e, con in mano la spola fatta col legno del monte Citoro,
più volte in fronte colpì Aracne, figlia di Idmone.
La sventurata non lo resse e fuor di senno corse a cingersi
il collo in un cappio: vedendola pendere n'ebbe pietà Pallade
e la sorresse dicendo: "Vivi, vivi, ma appesa come sei,
sfrontata, e perché tu non abbia miglior futuro, la stessa pena
sarà comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti".
Poi, prima d'andarsene, l'asperge col succo d'erbe
infernali, e al contatto di quel malefico filtro
in un lampo le cadono i capelli e con questi il naso e le orecchie;
la testa si fa minuta e così tutto il corpo s'impicciolisce;
zampe sottili in luogo delle gambe spuntano dai fianchi;
il resto è ventre: ma da questo Aracne emette un filo
e ora, come ragno, torna a tessere la sua tela.
Tutta la Lidia è in fermento, nelle città di Frigia si diffonde
l'eco della vicenda e in ogni luogo non si parla d'altro.
Prima di sposarsi, quando giovinetta abitava
sul Sìpilo in Meonia, Nìobe aveva conosciuto Aracne;
tuttavia la punizione della sua conterranea non l'indusse
a sottomettersi agli dei e a usare un linguaggio più misurato.
Molte cose l'insuperbivano, ma non si compiaceva tanto
dell'ingegno del marito, del lignaggio d'entrambi o dei domini
del loro grande regno (sebbene di tutto ciò si compiacesse),
quanto della sua prole; e si sarebbe potuta dire la madre
più felice del mondo, se tale non si fosse considerata.
Allora l'indovina Manto, figlia di Tiresia,
infervorata da un impulso divino, andava ammonendo
lungo le strade: "Donne tebane, accorrete tutte
a offrire con preghiere devote incenso a Latona
e ai suoi due figli, e cingetevi d'alloro i capelli.
Per bocca mia l'ordina Latona!". Ossequenti tutte le tebane
ornano le proprie tempie con le fronde prescritte
e offrono incenso alle fiamme sacre recitando preghiere.
Ma ecco avanzarsi Nìobe con il folto séguito delle compagne,
splendidamente vestita con stoffe di Frigia trapunte d'oro,
e, per quanto lo consente l'ira, bella. Al movimento elegante
della sua testa ondeggiano i capelli sparsi sulle spalle.
Si ferma e, volgendo intorno lo sguardo sdegnoso, impettita:
"Che follia è mai anteporre dèi solo supposti", dice, "a quelli
che vedete? Perché mai si onora Latona sugli altari
e non si degna d'incenso il mio nume? Figlia di Tantalo sono,
l'unico a cui fu concesso di sedere alla mensa degli dei.
Sorella delle Pleiadi è mia madre; il grandissimo Atlante,
che regge sul collo la volta celeste, è mio nonno; Giove
l'altro mio nonno, che in più mi glorio d'avere come suocero.
Temuta sono dalle genti di Frigia e signora della reggia
di Cadmo; le mura sorte al suono della cetra di mio marito
sono rette, con chi vi vive dentro, da me e dal mio uomo.
In qualunque parte della casa io volga gli occhi,
si ammirano immense ricchezze; a ciò si aggiunga la bellezza mia,
degna veramente di una dea, e in più sette figlie,
altrettanti maschi e presto generi e nuore.
Chiedetevi ora se il mio orgoglio non abbia ragione d'essere,
e non permettetevi di preferirmi Latona,
nata da Ceo, un Titano qualunque, Latona, a cui per sgravarsi
la terra pur vastissima negò a quel tempo il più piccolo luogo.
Né in cielo né in terra né in mare fu accolta la vostra dea;
bandita dal mondo, se ne andava errabonda, finché impietositasi
Delo le disse: "Straniera tu vaghi sulla terra, io sul mare",
e le offrì un malfermo approdo. Così divenne madre
di due figli: un settimo di quelli che ho partorito io!
Sono felice: chi mai potrebbe negarlo? e sempre lo sarò:
anche di ciò chi può dubitarne? L'abbondanza mi rassicura.
Troppo grande sono perché la Fortuna mi possa nuocere:
anche se molto mi togliesse, molto di più dovrebbe lasciarmi.
La mia prosperità allontana i timori. Mettiamo pure
che da questa folla di figli me ne venga sottratto qualcuno:
per quanto spogliata, mai sarò ridotta ad averne solo due,
come Latona. Che differenza c'è fra lei e chi non ha figli?
Via, andatevene da questa cerimonia, e toglietevi il lauro
dai capelli!". Se lo tolgono e lasciano incompiuto il rito:
altro non possono fare che venerare Latona in segreto.
Indignata, la dea, sulla vetta del Cinto,
con questi accenti si rivolse ai suoi due figli:
"Ecco che io, vostra madre, fiera di avervi generato,
io che a nessuna dea, tranne Giunone, cederei la palma,
vedo messa in dubbio la mia divinità: nei secoli
sarò esclusa dal culto, se voi, figli miei, non m'aiutate!
E non è questo solo il mio dolore: la figlia di Tantalo
al sacrilegio ha aggiunto le ingiurie, ha osato posporre voi
ai figli suoi e, usando la stessa lingua perfida di suo padre,
ha affermato (e su di lei si ritorca) che è come se non ne avessi!".
A questo sfogo era Latona sul punto di aggiungere preghiere:
"Basta!", disse Febo, "ritardano solo la pena i tuoi lamenti!".
Lo stesso disse Diana, e solcando in un lampo il cielo,
raggiunsero, nascosti dalle nubi, la rocca di Cadmo.
C'era, sotto le mura, una pianura vasta e aperta,
battuta senza fine dai cavalli: il turbinare delle ruote
e l'inclemenza degli zoccoli ne avevano sconvolto il suolo.
È qui che alcuni dei sette figli di Anfione montano
i loro intrepidi cavalli, premendo groppe ammantate
di porpora e reggendo redini tempestate di borchie d'oro.
Uno di loro, Ismeno, ch'era stato a suo tempo il primo fardello
della madre, mentre costringe in un cerchio perfetto
la corsa del cavallo, domandone la bocca schiumante,
"Ahimè!" grida, e porta ficcata in mezzo al petto
una freccia; dalla mano morente lascia cadere le briglie
e adagio scivola sul fianco dalla spalla destra del cavallo.
Vicino a lui, sentendo nell'aria il tintinnare d'una faretra,
Sìpilo si lancia a briglia sciolta, come un nocchiero che alla vista
di un nembo, presagendo la pioggia, fugge a vele spiegate,
perché in teli afflosciati non si perda il minimo soffio di vento.
A briglia sciolta si lancia, ma inesorabile una freccia
l'insegue e si pianta vibrando nella nuca
uscendogli col ferro nudo dalla gola.
Tutto curvo in avanti com'è, rotola sulla criniera e giù
lungo le zampe in corsa, bagnando del suo sangue ardente la terra.
Lo sventurato Fèdimo e Tantalo, che dal nonno
aveva ereditato il nome, finita la loro cavalcata,
erano passati, lucidi d'olio, agli esercizi giovanili
di palestra, e avvinghiati uno all'altro, petto contro petto,
lottavano fra loro: una freccia scocca dall'arco teso
e, uniti così come sono, li trapassa entrambi.
Insieme lanciano un gemito, insieme si accasciano al suolo
contratti dal dolore, insieme volgono supini
l'ultimo sguardo al cielo, insieme esalano l'anima loro.
Li vede Alfènore che, battendosi per lo strazio il petto,
accorre a sollevare fra le braccia i loro corpi gelidi
e in quell'atto pietoso stramazza: il dio di Delo gli aveva
squarciato il petto sino al cuore con un ferro micidiale,
e quando lui se lo strappa, con l'amo estrae brandelli
di polmone, e il sangue con la vita si disperde nel vento.
A Damasìctone, che ha lunghi capelli, non viene invece inferta
un'unica ferita: colpito in cima alla gamba, dove i tendini
del garretto formano una giuntura elastica,
lui tenta di sfilare con la mano la freccia letale,
ma un'altra gli trafigge la gola penetrando sino alla cocca.
Il sangue poi l'espelle e zampillando verso l'alto
sgorga a fiotti, schizza lontano crivellando l'aria.
Leva inutilmente le braccia in atto di preghiera
Ilioneo, l'ultimo fra loro: "O dei," dice, "tutti quanti voi siete",
ignorando che non tutti sono da supplicare,
"pietà!". L'arciere divino ne fu commosso, ma la freccia ormai
non può tornare indietro. A ucciderlo però
è una ferita irrisoria: la freccia gli scalfisce appena il cuore.
La voce della disgrazia, il dolore di tutti e il pianto dei suoi
non lasciano dubbi alla madre sull'abbattersi della sciagura:
come avessero i celesti potuto e osato tanto, si chiedeva
sbigottita nel suo sdegno, come ne avessero l'autorità.
Dal canto suo Anfione, il padre, s'immerse nel petto
una lama, ponendo fine ai suoi giorni e al suo strazio.
Ahimè, com'era diversa questa Nìobe, che ora muove a pietà
persino i nemici, da quella che un attimo fa scacciava
la gente dagli altari di Latona e incedeva impettita
per le strade della città invidiata dai suoi!
Sui corpi gelidi si accascia e a caso, come capita,
dispensa a tutti i suoi figli gli ultimi baci.
Poi, levando al cielo le braccia illividite:
"Rallégrati", dice, "e sazia il tuo petto col mio lutto!
Rallégrati, avanti, crudele Latona, del mio dolore,
sazia il tuo cuore di belva! Da sette funerali
sono sepolta. Esulta, nemica mia, trionfa per la vittoria!
Ma quale vittoria? Resta sempre più a me nella sciagura mia,
che a te nella tua esultanza: anche dopo tante morti ti supero!".
Questo aveva detto, che si sentì vibrare la corda di un arco:
tutti ne furono atterriti, tutti, ma non Nìobe.
La sventura la rendeva spavalda. Vegliavano le sorelle,
vestite di nero, a chiome sciolte, le spoglie dei loro fratelli.
Nell'atto di estrarre una freccia conficcatasi nelle sue viscere,
una si afflosciò moribonda col viso sul corpo di un fratello;
un'altra, che cercava di consolare la madre disperata,
d'un tratto ammutolì, piegandosi in due per un'occulta ferita:
serrò le labbra, ma l'anima ormai se n'era già fuggita.
Questa stramazza mentre tenta di fuggire, quella spira
sulla sorella; questa si nasconde, quella corre sbigottita.
Sei erano morte di ferite diverse;
restava l'ultima: facendole scudo col corpo e con la veste,
gridò la madre: "Questa, la più piccola, lasciami questa sola!
Di tante non ti chiedo che la più piccola, questa sola!".
E mentre implora, lei per cui implora è uccisa. Senza più nessuno,
si accascia tra i cadaveri dei figli, delle figlie, del marito,
impietrendosi per il dolore: il vento non le muove un capello,
sul volto ha un pallore mortale, nelle sue orbite spente
gli occhi sono sbarrati; nulla di vivo c'è nei suoi tratti.
Persino la lingua, persino quella, nel palato irrigidito
si congela, e le vene perdono la forza di pulsare;
il collo non può più piegarsi, le braccia compiere movimenti,
i piedi camminare; anche dentro le viscere non v'è che pietra.
Eppure piange; e travolta dal turbinare impetuoso del vento
è trascinata in patria. Lì, confitta in cima a un monte,
si strugge e ancor oggi dal marmo trasudano lacrime.
E d'allora tutti, uomini e donne, temono il manifestarsi
dell'ira divina e con maggior zelo tutti tributano onori
al tremendo potere della dea madre di due gemelli;
e come accade, dal fatto recente risalgono ai precedenti.
"Anche nelle terre della fertile Licia", dice uno, "avvenne
un tempo che i contadini a loro rischio spregiassero la dea.
La cosa è poco nota, è vero, per la modestia dei personaggi,
eppure sorprendente. Coi miei occhi ho visto la palude e il luogo
famosi per il prodigio. Mio padre, troppo vecchio ormai
per affrontare il viaggio, mi aveva ordinato di portargli
dalla Licia dei buoi di razza e m'aveva dato per guida
un uomo di quella regione. Mentre con lui perlustravo i pascoli,
ecco balzarmi agli occhi in mezzo a un lago un vecchio altare
annerito dal fuoco dei riti e cinto da un fluttuare di giunchi.
La mia guida si fermò bisbigliando con timore:
"Proteggimi, ti prego", e come lui bisbigliai anch'io "Proteggimi".
Ma poi gli chiesi a chi fosse consacrata l'ara, se a qualche Naiade,
a un Fauno o a una divinità locale. Mi rispose:
"Non è a un dio dei monti, ragazzo mio, che è sacro questo altare:
lo considera suo la dea che un giorno dal mondo fu messa al bando
dalla consorte di Giove, la dea che fu accolta nel suo vagare
da Delo, quando come un'isola galleggiante errava leggera.
Lì, appoggiandosi a una palma e all'albero di Pallade,
Latona mise al mondo due gemelli, a dispetto della matrigna.
E si racconta che di lì, dopo il parto, per sottrarsi a Giunone
fuggisse portandosi in seno i figli, quei due esseri divini.
Raggiunta la patria della Chimera, nel territorio di Licia,
sotto il sole infuocato che ardeva i campi, sfinita dal gran correre,
per il caldo opprimente si sentì riarsa dalla sete:
di tutto il latte le avevano i figli affamati svuotato il seno.
Per ventura vide in lontananza, in fondo a una valle,
un laghetto: laggiù dei contadini raccoglievano
vimini pieni di germogli, giunchi ed alghe di palude.
Avvicinatasi, la figlia del Titano si chinò,
piegando un ginocchio a terra, per attingere l'acqua e bere.
Ma quella masnada glielo vietò, costringendola a replicare:
'Perché mi negate l'acqua? ne hanno diritto tutti.
La natura a nessuno ha dato in proprietà il sole, l'aria
o l'acqua limpida: a un bene comune mi sono accostata
e malgrado ciò vi supplico di farmene dono. Non avevo
intenzione di lavarmi qui corpo e membra affaticate,
ma solo di dissetarmi. Parlo, sì, ma ho la bocca secca
e la gola tutta un fuoco, tanto che a stento vi passa la voce.
Un sorso d'acqua nèttare sarà per me, e ammettere dovrò
d'aver riavuto la vita: con l'acqua me la donerete voi.
E abbiate almeno pietà di questi, che dal mio seno tendono
le loro braccine'. E in quel momento i piccoli le tendevano.
Chi non si sarebbe commosso alle dolci parole della dea?
Quelli invece, di fronte alle preghiere, si ostinano nel divieto
e aggiungono minacce, se non se ne va, e ingiurie per di più.
E come se non bastasse con mani e piedi
intorbidano il lago e con cattiveria dal fondo del suo letto
sollevano la fanghiglia saltando qua e là.
La collera fa dimenticare la sete alla figlia di Ceo:
non supplica più quella gente indegna, oltre non si abbassa
a discorsi che umiliano una dea; alle stelle leva le palme e:
'Che viviate in eterno in questo stagno!' grida.
E il voto si avvera: da allora quelli godono di stare in acqua,
a volte d'immergersi con tutto il corpo nel fondo dello stagno,
altre di sporgere il capo o di nuotare a fior d'acqua,
spesso di sostare sulla riva, spesso di rituffarsi
nel lago gelido. Ma non smettono mai di esercitare
le loro malelingue nelle liti e senza alcun pudore,
anche stando sott'acqua, sott'acqua cercano d'imprecare.
Roca si è fatta la loro voce, le guance tumide si gonfiano
e le stesse ingiurie dilatano ancor più le loro bocche enormi.
Il capo è infossato nelle spalle, il collo sembra che manchi;
il dorso è verde e il ventre, che è quasi tutto il corpo, bianchiccio:
assunto l'aspetto di rane, sguazzano nel fango del pantano"."
Quando quello sconosciuto terminò di narrare
la fine dei Lici, un altro si sovvenne del Satiro che, vinto
dal figlio di Latona in una gara col flauto di Pallade,
fu da questi punito. "Perché mi scortichi vivo?" urlava;
"Mi pento, mi pento! Ahimè, non valeva tanto un flauto!".
Urlava, mentre dalla carne la pelle gli veniva strappata:
altro non era che un'unica piaga. D'ogni parte sgorga il sangue,
scoperti affiorano i muscoli, senza un filo d'epidermide
pulsano convulse le vene; si potrebbe contargli le viscere
che palpitano e le fibre che gli traspaiono sul petto.
Lo piansero le divinità dei boschi, i Fauni delle campagne
e i Satiri suoi fratelli, lo piansero Olimpo a lui sempre caro
e le ninfe, e con loro tutti quanti su quei monti
pascolano greggi da lana e armenti con le corna.
Di quella pioggia di lacrime s'intrise la terra fertile,
che in sé madida le accolse, assorbendole nel fondo delle vene;
poi mutatele in acqua, le liberò disperdendole nell'aria.
Da lui prende il nome quel fiume che tra il declinare delle rive
corre rapido verso il mare, Marsia, il più limpido della Frigia.
Da questi racconti la gente tornò bruscamente
al presente, piangendo Anfione spentosi con tutta la sua stirpe.
L'esecrazione era solo per Nìobe: l'unico a versare lacrime
anche per lei fu Pèlope, a quanto si dice, che dal petto
si stracciò le vesti, mostrando l'avorio della spalla sinistra.
Quando nacque, questa spalla aveva lo stesso colore dell'altra,
la stessa natura corporea; ma si racconta che il padre
lo squartasse con le sue mani e che poi gli dei lo ricomponessero:
ritrovati tutti i pezzi, mancava solo quello che congiunge
collo e capo del braccio. A rimpiazzarlo gliene fu applicato
uno d'avorio e così Pèlope riebbe la sua integrità.
Dai dintorni affluiscono a Tebe uomini illustri, e ai propri re
le città vicine affidano il compito di recare conforto:
Argo, Sparta e Micene nel Peloponneso,
Calidone non ancora invisa alla minacciosa Diana,
la fertile Orcòmeno e Corinto famosa per i suoi bronzi,
la fiera Messene, Patre e la piccola Cleone,
Pilo Nelea e Trezene non ancora in mano a Pitteo,
e tutte le città circondate dai due mari dell'Istmo
e quelle che, poste di fronte ai due mari, si vedono dall'Istmo.
Chi lo crederebbe? l'unica ad astenersi fosti tu, Atene.
Questo dovere ti fu impedito dalla guerra: giunte dal mare,
truppe straniere spargevano il terrore sulle tue mura.
Col suo esercito le sgominò Tereo di Tracia,
accorso in aiuto, e con questa vittoria acquistò gran nome.
Sedotto dal potere che gli davano ricchezze e uomini,
considerato poi che discendeva dal grande Gradivo,
Pandìone a sé lo legò dandogli in sposa Progne. Ma né Giunone,
dea delle unioni, né Imeneo o le Grazie assistettero alle nozze.
Furono le Furie a reggere le fiaccole, trafugandole
a un rito funebre, le Furie a preparare il letto, e un gufo immondo
calò sul tetto, appollaiandosi sopra la camera nuziale.
Con questi auspici si unirono Progne e Tereo, sì, con questi
divennero genitori. Con loro, certo, si felicitò
la Tracia, e loro ringraziarono gli dei, proclamando festivi
sia il giorno in cui Pandìone diede in sposa la figlia
a quel re illustre, sia il giorno in cui nacque Iti.
A tal punto s'ignora ciò che giova! Già per cinque autunni
aveva condotto il Sole l'incessante corso degli anni,
quando con voce carezzevole Progne disse al marito:
"Se un po' ti sono cara, mandami a trovare mia sorella
o lascia che qui lei venga. A tuo suocero puoi d'altra parte
promettere che tornerà presto. Per me rivederla sarebbe
il maggior regalo che puoi farmi". E lui fa calare in mare
le navi e a forza di vele e di remi penetra
nel porto di Cècrope e attracca alla banchina del Pireo.
Ammesso com'è alla presenza del suocero, una stretta
di mano e il colloquio si avvia con gli auspici migliori.
Ma aveva appena iniziato a riferire il messaggio della moglie,
motivo del viaggio, promettendo un pronto ritorno della giovane,
quando apparve Filomela, sfoggiando abbigliamenti splendidi
e forme ancora più splendide, simili a quelle che avrebbero
Naiadi e Driadi, si sente, quando incedono in mezzo ai boschi,
se a loro fosse concessa uguale raffinatezza d'ornamenti.
Alla vista di quella vergine, Tereo s'infiamma,
come se qualcuno appiccasse il fuoco a spighe secche
o incendiasse frasche ed erbe riposte in un fienile.
Seducente è la sua bellezza, certo, ma una libidine innata
concorre ad eccitarlo, tanto incline alla lussuria è in quei paesi
la gente: divampa per vizio congenito e vizio proprio.
L'impulso è quello di corrompere l'affezione delle compagne
e l'onestà della nutrice, o di sedurla a viso aperto
con regali sontuosi, sacrificando magari tutto il regno,
oppure di rapirla e serbarsi la preda a costo di una guerra.
Non c'è niente che non oserebbe, travolto com'è da un amore
senza freni, e il suo petto non sa più contenere le fiamme.
Ogni indugio gli pesa: con parole cariche di desiderio
riprende il messaggio di Progne e in segreto insegue i suoi voti.
L'amore lo rende eloquente, e ogni volta che eccede
nelle preghiere, pretende che tale sia la volontà di Progne.
E aggiunge lacrime, come se anche di queste fosse incaricato.
O dei, di che tenebra fitta è avvolto il cuore dei mortali!
Proprio nell'atto di tramare un crimine, Tereo
passa per uomo giusto e il suo misfatto gli procura elogi.
E Filomela? non l'asseconda forse cingendo con le braccia
le spalle al padre per addolcirlo, e pregandolo, se le vuol bene
(ma è proprio contro il suo bene), di mandarla a trovare la sorella?
Tereo la contempla, accarezzandola e spogliandola con lo sguardo,
e quei baci, quelle braccia intorno al collo, che spia,
sono altrettanti stimoli, fiaccole ed esche per la sua passione:
ogni volta che in un abbraccio lei si stringe al padre,
essere suo padre vorrebbe ed essere più empio non potrebbe.
Cede il padre alle preghiere delle figliole e Filomela in festa
lo ringrazia con calore, pensando, sventurata,
che sia un successo per entrambe ciò che per entrambe sarà lutto.
Ormai non restava a Febo che un piccolo percorso; i suoi cavalli
scalpitavano lungo le pendici dell'Olimpo:
s'imbandisce un banchetto regale e in coppe d'oro si versa il vino;
poi, come è giusto, i corpi s'abbandonano a un placido sonno.
Ma anche allora che Filomela non gli è più accanto, il re dei Traci
brucia per lei e, ripensando al suo volto, ai gesti, alle mani,
così come lo vorrebbe immagina ciò che ancora non ha visto,
e alimenta in sé il suo fuoco con tale smania da perdere il sonno.
Si fa giorno, e Pandìone, stringendo la mano al genero
che riparte, con le lacrime agli occhi gli raccomanda la figlia:
"Genero caro, poiché ragioni d'affetto mi costringono
e questa è la volontà d'entrambe, come la tua, Tereo,
io te l'affido, ma in nome della lealtà, della parentela
e degli dei io t'imploro di vegliarla con l'amore di un padre
e, perché lenisca dolcemente l'angoscia della mia vecchiaia,
di rimandarmela al più presto: eterno mi parrebbe ogni ritardo.
E anche tu, Filomela (già tanto mi manca tua sorella),
se mi vuoi un po' di bene, cerca di tornare al più presto".
Così raccomanda e intanto, mentre bacia la figlia,
tra una parola e l'altra gli scendono lacrime di commozione.
Come pegno di lealtà chiede a entrambi di porgergli le mani,
che stringe fra le sue, poi li prega di salutare l'altra figlia
e il nipotino, che anche lontani sempre ricorda,
e a fatica, con voce rotta dai singhiozzi, dice addio
per l'ultima volta, angosciato dai presentimenti del suo cuore.
Salita Filomela sulla nave variopinta,
non appena i remi guadagnano il mare allontanando la terra:
"Vittoria!" esclama Tereo, "via con me porto i miei sogni!".
Esulta quel barbaro e con rammarico rimanda
il proprio piacere, ma da lei mai un attimo distoglie gli occhi,
come l'uccello di Giove quando nel nido inaccessibile
ha deposto una lepre ghermita dai suoi artigli adunchi:
per la preda non c'è scampo, il rapace cova la sua vittima.
E ormai il viaggio è finito, ormai dalle navi malridotte tutti
sono sbarcati in patria, quando il re trascina in un grande casale
fra le tenebre d'una foresta antica la figlia di Pandìone,
e lì, pallida, tremante, piena di terrore, la chiude,
mentre lei con le lacrime agli occhi chiede dove sia la sorella.
Svelate le sue voglie infami, benché disperata, disperata
lei invochi il padre, la sorella e, più di tutti, gli dei del cielo,
Tereo violenta quella vergine, quella fanciulla sola.
E lei trema atterrita come un'agnella che, scampata alle fauci
di un lupo grigio, nel trauma ancora non si sente sicura,
o come una colomba che con le piume intrise di sangue ancora
si spaura al ricordo degli artigli che l'avevano afferrata.
Poi, quando torna in sé, si strappa i capelli scomposti,
come se fosse in lutto, si percuote in lacrime le braccia
e tendendo le mani, grida: "Barbaro, quale infamia hai compiuto!
Scellerato! neppure le preghiere e le lacrime appassionate
di mio padre t'hanno commosso, o il pensiero di mia sorella,
della mia verginità, dei vincoli coniugali.
Tutto hai sconvolto: rivale di mia sorella io,
bigamo tu: punirmi come nemica, questo si deve.
Perché, infame, non mi uccidi, così che intentato non ti rimanga
alcun delitto? Oh, se l'avessi fatto prima di questo nefando
accoppiamento! immacolata sarebbe rimasta l'ombra mia!
Ma se i celesti scorgono tutto ciò, se il loro potere
conta qualcosa, se non tutto col mio onore è perduto,
un giorno ne sconterai tu la pena. Gettato al vento il pudore,
io stessa racconterò le tue gesta; se concesso mi sarà,
andrò tra la gente; se prigioniera sarò tenuta nei boschi,
lo griderò ai boschi e i sassi chiamerò a testimoni.
Il cielo udrà la mia voce e l'udranno gli dei, se lì ve ne sono!".
A queste parole il feroce tiranno è scosso dall'ira
e al tempo stesso da una paura che nulla ha da invidiare all'ira.
Spinto dall'una e l'altra, sguaina la spada che porta al fianco,
l'afferra per i capelli, le torce le braccia dietro la schiena
e la costringe in ceppi. Filomela protende la gola,
con la speranza, vista la spada, d'essere uccisa;
ma lui le stringe in una morsa la lingua che impreca,
che invoca senza posa il nome del padre, che lotta per parlare,
e senza pietà gliela mozza. Guizza in gola la radice
della lingua, che a terra in mezzo al sangue pulsa rantolando:
come si dibatte la coda recisa a un serpente,
palpita moribonda cercando le tracce della sua padrona.
Persino dopo questo misfatto pare, e quasi non riesco a crederlo,
che lui risfogasse la sua lussuria su quel corpo martoriato.
Compiute le sue prodezze, ha il coraggio di ripresentarsi a Progne,
che vedendolo gli chiede della sorella. E quell'ipocrita
scoppia in lamenti, inventandosi la storia della sua morte
e il pianto gli dà credito. Dalle spalle si strappa Progne
i veli tutti scintillanti di lembi dorati,
si veste di nero, erige una pietra sepolcrale,
offre sacrifici funebri a un'ombra inesistente
e piange, non per ciò che si dovrebbe, la sorte della sorella.
Dodici costellazioni aveva percorso il sole, un anno intero.
E Filomela? Guardie armate le impediscono la fuga;
intorno alla prigione si erge un muro di macigni invalicabile;
muta com'è non può svelare il crimine. Ma del dolore immense
sono le risorse e nella sventura, lì, s'acuisce l'ingegno.
Con un accorgimento allaccia un ordito a un telaio primitivo
e sulla tela bianca ricama a caratteri di fuoco
l'accusa di stupro. Terminato il lavoro l'affida a una donna,
pregandola a gesti di portarlo alla regina, e la donna
lo consegna a Progne, senza sapere cosa cela ciò che porta.
La consorte del feroce tiranno srotola la tela,
legge le tragiche vicissitudini della sorella
e, come possa è un mistero, non fiata: il dolore l'ammutolisce,
la lingua cerca parole che esprimano tutto il suo sdegno,
ma non le trova; non piange neppure; pronta a violare ogni legge,
corre alla propria rovina col solo pensiero della vendetta.
Era il tempo in cui ogni tre anni le donne di Sitonia
celebrano le feste di Bacco. La notte è complice dei riti.
Di notte il Ròdope risuona del tintinnare acuto dei bronzi;
e quella notte la regina esce di casa, acconciata
come per partecipare all'orgia, con tutto il corredo del culto:
capo coperto di tralci, una pelle di cervo che pende
sul fianco sinistro, un'asta leggera appoggiata alla spalla.
Irrompendo nei boschi con lo stuolo delle sue compagne,
Progne, terribile, sconvolta dalla furia del dolore,
si finge, Bacco, una tua devota. E arriva a quel casale sperduto;
qui con grida inumane, invasata, abbatte la porta,
rapisce la sorella rivestendola coi simboli
delle Baccanti, le nasconde il viso con viticci d'edera
e, trascinandola via sbigottita, la porta nel suo palazzo.
Quando s'accorge d'essere entrata nella casa di quell'infame,
la povera Filomela rabbrividisce e tutta sbianca in volto.
Trovato il luogo adatto, Progne toglie all'infelice i simboli
del culto, le scopre il viso rosso di vergogna e la stringe a sé
in un abbraccio. Ma lei, sentendosi in colpa verso la sorella,
non osa alzare gli occhi a sostenere quello sguardo,
e col volto fisso a terra vorrebbe giurare, chiamando
a testimoni gli dei, che quel disonore a viva forza
le è stato inflitto e usa i gesti come voce. Non potendo
contenere l'ira che l'arde, Progne rimprovera la sorella
perché piange: "No, non servono lacrime," le dice,
"ma un ferro o, se trovi qualcosa che possa vincere il ferro,
quello! Io sono pronta, sorella mia, a qualsiasi delitto.
Ecco, o incendierò con le torce questa reggia
e getterò tra le fiamme quello spergiuro di Tereo
o gli strapperò con un ferro la lingua, gli occhi e quel membro
che t'ha sottratto l'onore, o con mille e mille ferite sputare
gli farò quell'anima criminale. Ad ogni atrocità son pronta;
quale, ancora non so". E mentre termina di parlare,
le viene incontro Iti: la presenza del figliolo le ricorda
il potere che possiede e, guardandolo con occhio duro, esclama:
"Ah, quanto assomigli a tuo padre!". Non aggiunge altro
e, ribollendo d'ira in cuore, medita il suo atroce delitto.
Vero è che quando il figliolo s'avvicina,
la saluta gettandole al collo le sue piccole braccia,
e blandendola con le sue moine la riempie di baci,
la madre si commuove, e per un attimo la collera si smorza,
intridendole gli occhi di lacrime a stento trattenute.
Ma come sente che per troppo affetto il suo cuore di madre
comincia a vacillare, da lui stacca gli occhi, torna a volgerli
sulla sorella e, osservandoli entrambi a vicenda, così ragiona:
"Perché Iti mi blandisce e lei con la lingua mozza non può farlo?
Se lui mi chiama madre, perché lei non mi chiama sorella?
Non vedi, figlia di Pandìone, a chi ti sei unita?
Tu sragioni: un delitto è la pietà con uomini come Tereo!".
Senza indugio Progne trascina Iti con sé, come nelle tenebre
del bosco trascina la tigre del Gange un cerbiatto appena nato,
e quando arrivano in una parte remota dell'immensa reggia,
mentre lui, intuendo la propria sorte, tende le mani
e nel tentativo di aggrapparsi al suo collo "Mamma!" grida,
"Mamma!", lo colpisce con la spada tra il fianco e il petto,
senza distogliere gli occhi. Per ucciderlo sarebbe bastata
quell'unica ferita: no, Filomela gli recide la gola.
Palpitanti, quelle membra, che serbano ancora un soffio di vita,
son fatte a pezzi; una parte è messa a bollire in pentole di bronzo,
il resto stride sugli spiedi. Tutta la stanza è invasa dal sangue.
Dopo avere allontanato convitati e servitù col pretesto
di un rito al quale nella sua patria solo il marito può assistere,
queste vivande Progne imbandisce a Tereo che nulla
sospetta. Assiso con alterigia sul trono degli avi, Tereo
banchetta, trangugiando la carne della sua carne, e la sua mente
tanto è ottenebrata che ordina: "Fate venire Iti".
Progne non riesce più a dissimulare la sua crudele esultanza
e smaniosa di annunciargli lei stessa lo scempio compiuto:
"Quello che chiedi l'hai dentro!" prorompe. Lui si guarda intorno
e chiede dove: mentre chiede e senza posa lo chiama, lo chiama,
ecco che Filomela, così com'è, coi capelli scarmigliati
dal furore del massacro, irrompe e gli scaglia in faccia
la testa insanguinata del figlio. Mai come allora lei vorrebbe
poter parlare per gridargli la sua gioia nel modo che merita.
Con un urlo inumano il re di Tracia rovescia la tavola
ed evoca dal fondo dello Stige le Furie cinte di vipere;
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ora vorrebbe squarciarsi il ventre per vomitare, se potesse,
quel cibo orrendo e le viscere che ha ingoiato;
ora piange definendo sé stesso sepolcro abbietto del figlio;
ora con la spada sguainata insegue le figlie di Pandìone.
Ma i corpi delle due donne sembrano alzarsi in volo:
si alzano in volo. Una si dirige verso il bosco;
l'altra s'infila sotto il tetto, e dal suo petto scomparse non sono
oggi ancora le tracce della strage: macchia il sangue le sue piume.
Tereo, travolto dal dolore e dalla sete di vendetta,
si trasforma in un uccello che ha una cresta dritta sul capo
e un becco smisurato che si protende lungo come una lancia.
Upupa è il nome di questo uccello; a vederlo sembra armato.
Questa tragedia spedì anzitempo Pandìone tra le ombre
del Tartaro, prima del limite estremo d'una lunga vecchiaia.
Lo scettro e il governo della regione passarono ad Eretteo,
non si sa se più valente per giustizia o destrezza d'armi.
Al mondo aveva messo Eretteo quattro maschi
e quattro femmine, ma di queste, due gareggiavano in bellezza.
Cèfalo, nipote di Eolo, fu tuo felice marito,
Procri; il dio Borea, invece, essendo di Tracia, per colpa di Tereo
dovette attendere a lungo prima di avere l'amata Oritìa,
almeno finché la chiese usando preghiere in luogo della forza.
Ma visto che nulla otteneva con le blandizie, stravolto d'ira,
come fin troppo spesso è naturale a Borea, a questo vento:
"Ben mi sta!" disse. "Perché mai ho rinnegato le mie armi,
la violenza, l'impeto, l'ira, il pungolo delle minacce,
e sono ricorso alle preghiere, una prassi che non mi si addice?
Virtù mia è la forza: con la forza scaccio le nubi che incombono,
con la forza sconvolgo il mare e abbatto le querce nodose,
rendo ghiaccio la neve e tempesto di grandine la terra.
E ancora, quando nel cielo aperto (l'arena mia è quella)
sorprendo i miei fratelli, li affronto con tale furia,
che tutto l'etere intorno rintrona ai nostri scontri
e dal cuore delle nubi saettando guizzano i fulmini.
Ancora, quando m'infilo nelle fessure della terra
e infuriato inarco il dorso contro la volta delle sue caverne,
terrorizzo coi miei sussulti i morti e il mondo intero.
Con questi mezzi dovevo cercare di sposarla! Con i fatti,
non con le preghiere dovevo farmi suocero Eretteo!".
Detto questo ed altro ancora dello stesso tenore,
Borea agitò le ali, e a quel battito tutta la terra
fu percorsa dal vento e la distesa del mare ne fu sconvolta.
Trascinando il suo mantello di polvere sulla cima dei monti,
l'innamorato spazzò il suolo e, nascosto dalla caligine,
abbracciò Oritìa, tremante di paura, con le sue ali fulve.
E mentre vola, l'eccitazione rinfocolò la sua passione;
ma non pose fine alla sua corsa sfrenata nello spazio,
se non quando ebbe raggiunto la gente e le città dei Cìconi.
Lì, l'ateniese Oritìa divenne moglie del gelido signore,
e madre: partorì due gemelli, che in tutto
assomigliavano a lei, se si escludono le ali, dote del padre.
Queste però, si racconta, non nacquero con loro:
finché sotto la rossa chioma non spuntò loro la barba,
Càlai e Zete, i due fanciulli, furono implumi.
Poi, come negli uccelli, penne e ali cominciarono a fasciare
i loro fianchi e le guance ad assumere riflessi biondi.
E così, quando l'infanzia lasciò il passo alla giovinezza,
solcarono coi Minii, a bordo della prima nave, il mare ignoto
alla conquista del vello che abbaglia con la luce dei suoi fiocchi.