SINTESI EPOPEA DI GILGAMEŠ
Il più antico eroe
della storia dell'umanità
Luogo |
Mesopotamia
Sumeri
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Tempo |
Approssimativamente 4.500 a.C.
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Fonti |
- Titolo
- Titolo originale
- Autore
- Epoca
|
- Epopea di
Gilgameš
- Ša nagba inuru
- Sîn-leqi-unnini
- VII sec. a.C.
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PROEMIO
- Di colui che vide tutto io
voglio narrare al mondo.
- Di colui che conobbe ogni cosa,
tutto io voglio raccontare.
- Egli andò alla ricerca
dei Paesi più lontani e raggiunse la completa
saggezza.
- Egli vide cose segrete,
scoprì cose nascoste,
- riferì delle storie dei
tempi prima del Diluvio.
- Egli percorse vie lontane,
finché stanco e abbattuto si fermò.
- E fece incidere tutte le sue
fatiche su una stele di pietra.
GILGAMEŠ, RE DI
URUKQuando gli dèi crearono Gilgameš, gli diedero
un corpo perfetto. Gli donarono la bellezza, il coraggio, e
lo resero terribile come un toro selvaggio. Per due terzi lo
fecero dio e per un terzo uomo.
Gilgameš regnava sulla potente città di Uruk,
che sorgeva sul fiume Eufrate, nella nobile terra di Sumer.
Gilgameš era il quinto sovrano di questa città
dopo il Diluvio. Fu lui a far innalzare le mura della
città. E fu lui a porre le fondamenta dell'Eanna, la Casa del Cielo, il tempio
dedicato ad An dio del cielo e ad Inanna dea dell'amore.
Gilgameš era avvenente, risoluto, impetuoso. Non
dava requie alla popolazione: suonava il segnale d'allarme
per puro divertimento, giorno e notte, e la sua lussuria non
lasciava intatta una sola ragazza della città. Gli
abitanti di Uruk, stanchi di queste continue vessazioni, si
lamentarono nelle loro case:
- Gilgameš è il pastore della nostra
città, eppure è arrogante e prepotente. Non
lascia la vergine all'amante, la figlia al guerriero, la
moglie al nobile.
CREAZIONE DI
ENKIDUAn, il dio del cielo, che era anche il signore patrono
della città di Uruk, udì i lamenti dei suoi
abitanti. Si recò all'assemblea divina e disse: - Una
dea ha fatto Gilgameš forte come un toro selvaggio,
nessuno può resistere alle sue armi. Eppure tratta il
suo popolo con arroganza, suona l'allarme giorno e notte,
non lascia intatta una sola fanciulla della città.
Allora gli dèi si rivolsero ad Aruru, la signora
della creazione, e le dissero: - Fosti tu, Aruru, a plasmare
Gilgameš. Adesso crea un eroe che gli stia alla pari,
simile a lui quanto il suo riflesso, un altro lui, cuore
tempestoso per cuore tempestoso. Che essi lottino tra loro e
lascino Uruk in pace!
Così la dea immerse le mani nell'acqua e con
l'argilla plasmò il nobile Enkidu.
Libero e selvaggio, ignaro del mondo degli uomini, Enkidu
scorrazzava sulle colline insieme alle gazzelle, si
appostava presso le pozze d'acqua con le bestie selvatiche,
vagava in compagnia dei branchi di animali, si divertiva a
divellere le trappole dei cacciatori ed a riempire le loro
fosse, facendo sfuggire gli animali. Un giorno un cacciatore
lo scorse nella boscaglia, più simile a un animale
che a un uomo, coperto di peli e con lunghi capelli, e
rimase per tre giorni raggelato dal terrore.
SEDUZIONE DI
ENKIDUIl cacciatore andò a Uruk e raccontò a
Gilgameš dello strano essere che vagava sulle colline.
Gilgameš mandò a chiamare la bellissima
Šamhat, sacerdotessa del tempio di Inanna, e
disse al cacciatore di farla appostare presso la pozza
d'acqua alla quale Enkidu andava a dissetarsi. Il cacciatore
condusse la donna sulle colline e quando Enkidu la scorse
nuda presso la pozza d'acqua, fu preso da grande passione:
la agguantò e la amò intensamente per sei
giorni e sette notti. E quando, soddisfatto, tornò
dalle bestie selvatiche, queste scapparono via a grandi
balzi. Enkidu tentò di inseguirle ma si scoprì
incapace di farlo: il suo corpo era legato come da una corda
e quando cominciò a correre le ginocchia gli
cedettero. Enkidu era diventato debole perché l'amore
per la donna lo aveva reso uomo.
Desolato, Enkidu tornò da Šamhat. La
donna gli disse: - Enkidu, sei un uomo, adesso.
Perché vorresti scorrazzare sulle colline insieme
alle bestie? Vieni con me. Ti condurrò a Uruk dalle
alte mura, al sacro tempio di Inanna ed An. Là vive
Gilgameš, colui che è fortissimo e spadroneggia
sugli uomini come un toro selvaggio.
Enkidu accettò, covando in cuor suo il desiderio
di un compagno che intendesse il suo cuore.
Šamhat vestì il selvaggio con metà
delle sue vesti e lo condusse da alcuni pastori, che gli
insegnarono a mangiare il pane ed a bere il vino. Per un po'
Enkidu rimase con loro, aiutandoli a difendere il gregge
dagli animali selvatici. E non c'era mandriano più
forte e bravo di lui.
GILGAMEŠ ED
ENKIDUGilgameš si levò dal suo giaciglio, quel
mattino, e andò da sua madre Ninsun, che era
sacerdotessa al tempio di Utu, e le raccontò del
sogno che aveva fatto.
- Madre, la notte scorsa sognai che esultavo di gioia e
camminavo sotto le stelle del firmamento. D'un tratto, una
di esse cadde dal cielo sulla mia schiena e mi
schiacciò al suolo. Io cercai di sollevarla, ma era
troppo pesante. Eppure per quella meteora io provavo
un'attrazione profonda, come per una donna. Il popolo mi
aiutò a toglierla di dosso. Allora la portai a te e
tu dicesti che era mio fratello.
E Ninsun disse a Gilgameš: - Quella stella del cielo
sarà il tuo compagno, colui che ti recherà
aiuto nel momento del bisogno. È il più forte
delle creature selvatiche, fatto della sostanza di An.
È nato nelle praterie e lo hanno allevato le alture
selvagge. Quando lo vedrai sarai lieto, lo amerai come una
donna e lui non ti abbandonerà. Ecco il significato
del tuo sogno.
Vennero così le feste di capodanno. Gilgameš
uscì dal palazzo reale e si recò al tempio di
Inanna, dove il grande letto nuziale era stato approntato e
la sacerdotessa attendeva il re per le nozze sacre. Ma
quando Gilgameš giunse alle porte della città,
un uomo venne fuori dalla folla e gli sbarrò la
strada. Era Enkidu.
Gilgameš si fece avanti. I due eroi si
avvinghiarono, sbuffando come tori, provando ciascuno il suo
vigore sull'altro. Ruppero gli stipiti delle porte, i muri
tremarono. Gilgameš piegò il ginocchio, il piede
piantato al suolo, e con un colpo rovesciò a terra
Enkidu. Allora si placò la loro furia.
E disse Enkidu: - Al mondo non c'è un altro come
te, Gilgameš. Ninsun fu la madre che ti generò e
tu sei innalzato sopra tutti gli uomini. Il dio Enlil ti ha
dato la sovranità perché la tua forza supera
la forza di tutti.
Gilgameš ed Enkidu si abbracciarono e la loro
amicizia fu suggellata.
GILGAMEŠ NELLA
FORESTA DI CEDRIUna notte Enkidu fu turbato da un sogno nel quale vide di
essere trasportato nel regno dei morti, il triste Arali,
donde non vi era ritorno e dove le anime, simili a uccelli,
si nutrivano di polvere e cenere, senza mai vedere il sole.
Enkidu si svegliò triste e turbato: un'ombra gli
oscurava il volto.
Gilgameš, nel vedere il suo compagno depresso, gli
propose di partire per una nuova impresa: sarebbero andati
nel Paese delle Montagne, dove si trovava la Foresta di
Cedri, e lì avrebbero raccolto legname per le
costruzioni che il re intendeva fare. Allora Enkidu fu preso
dal terrore. Era stato già alla Foresta di Cedri,
conosceva colui che ne stava a guardia, l'orribile
Humbaba, e ne aveva terrore.
Cercò di dissuadere Gilgameš dal suo
progetto: - O mio re, poiché tu che non hai visto
quel mostro non hai paura di lui. Ma io che l'ho visto sono
pieno di terrore. I denti del mostro sono denti di drago;
gli occhi del mostro sono occhi di leone; il petto del
mostro è un diluvio travolgente. Nessuno sfugge alla
sua ira. O mio re, tu naviga verso il Paese delle Montagne,
io navigherò verso la città. A tua madre
racconterò della tua gloria, così ella
gioirà, e poi le racconterò della tua morte,
così ella piangerà. Se lì regna il
terrore, torniamo indietro. Se lì regna la paura,
torniamo indietro.
Ma Gilgameš lo apostrofò: - Soltanto gli
dèi vivono per sempre. Invece noi uomini abbiamo i
giorni contati, le nostre faccende sono un soffio di vento.
Se cado, lascerò ai posteri un nome duraturo. Di me
gli uomini diranno: Gilgameš è caduto nella
lotta contro il feroce Humbaba.
Allora Enkidu consigliò all'amico di sacrificare
preventivamente al dio del sole Utu, poiché le leggi
del Paese delle Montagne appartenevano a lui. Gilgameš
si recò nell'Egalmah, il tempio di Utu, e
sacrificò al dio del sole con queste parole:
- O Utu, io ti voglio parlare,
presta ascolto alle mie parole.
- Io mi voglio rivolgere a te,
dammi il tuo consiglio.
- Nella mia città si
muore, il cuore è oppresso;
- i miei cittadini muoiono, il
cuore è prostrato.
- Io son salito sulle mura della
mia città
- e ho visto i cadaveri
trasportati dalle acque del fiume.
- Ed io pure io sarò
così un giorno?
- L'uomo, per quanto alto egli
sia, non può raggiungere il cielo.
- L'uomo, per quanto grasso egli
sia, non può coprire il Paese.
- Io voglio andare verso il Paese
delle Montagne, voglio porre colà il mio
nome;
- nel luogo dove ci sono
già i nomi, voglio porre il mio nome;
- nel luogo dove non ci sono
nomi, voglio porre il nome degli dèi.
Gilgameš ed Enkidu impiegarono tre giorni per
coprire una distanza che avrebbe richiesto una marcia di sei
settimane. Giunsero a un'immensa foresta, a cui si accedeva
tramite un portone altrettanto possente. Dopo aver sbirciato
all'interno dallo spiraglio, Enkidu disse a Gilgameš
che questo era il momento giusto di entrare, perché
così avrebbero colto Humbaba di sorpresa.
Infatti, quando usciva per ispezionare il suo dominio, il
mostro si avvolgeva il corpo di sette "terrori". Ma adesso
Humbaba stava riposando e ne aveva uno solo. Ma,
mentre Enkidu stava ancora parlando, la grande porta
girò sui cardini e gli schiacciò la mano.
Per dodici giorni Enkidu giacque gemendo dal dolore e
implorando il compagno di recedere dalla sua folle impresa,
ma Gilgameš rifiutò di prestare ascolto alle sue
parole. Attesero che Enkidu guarisse, e poi entrarono nella
foresta e raggiunsero il monte dei cedri, quel monte alto e
maestoso sulla cui vetta gli dèi si riuniscono a
concilio. Al momento di coricarsi, fecero un nuovo
sacrificio a Utu perché mandasse sogni ai due eroi.
Infatti gli strani sogni che ebbe Gilgameš durante la
notte furono interpretati da Enkidu come auspici favorevoli
per la buona riuscita della spedizione. Ma quando, dopo un
altro giorno di cammino, si coricarono di nuovo, Enkidu ebbe
tre sogni, di cui l'ultimo si palesava particolarmente
funesto.
Giunti alla base del monte, Gilgameš abbattè
il primo cedro. Allora un sonno incomprensibile lo prese, e
mentre il mondo si oscurava Gilgameš cadde a terra
addormentato. Enkidu lo richiamò più volte,
finché egli si svegliò. Allora supplicò
Gilgameš di evitare la battaglia, ma Gilgameš
rispose:
- Non ancora sarà desolato il mio popolo,
né verrà accesa la pira nella mia casa,
né verrà bruciata la mia dimora. Dammi oggi il
tuo aiuto e avrai il mio. Che cosa potrà andarci
male? Tutti gli esseri nati da donna siederanno alla fine
sulla barca dell'ovest e quando la barca affonderà,
saranno scomparsi. Noi andremo avanti e poseremo gli occhi
su Humbaba. Se il tuo cuore ha paura, getta via la
paura. Se in esso vi è il terrore, getta via il
terrore. Prendi in mano la scure e agisci!
Quando Humbaba udì da lontano il rumore
degli alberi che venivano abbattuti, uscì infuriato
dalla sua tana e corse verso di loro. Gilgameš aveva
già tagliato sette cedri, quando gli alberi si
aprirono e il volto orrendo di Humbaba si levò
si di lui. Il mostro rivolse su Gilgameš l'occhio della
morte. Ma subito il dio Utu gli lanciò contro otto
venti potentissimi, simili a fuoco ardente, che si
abbatterono nell'occhio di Humbaba, accecandolo e
paralizzandolo.
Allora Gilgameš rovesciò il mostro e gli
legò i gomiti assieme. A Humbaba salirono le
lacrime agli occhi: - Gilgameš, fammi parlare. Io non
ho mai conosciuta una madre e nemmeno un padre che mi
allevasse. Nacqui dalla Montagna, fu lei ad allevarmi, ed
Enlil mi fece custode di questa foresta. Lasciami andare
libero, Gilgameš, e io sarò il tuo servo, tu
sarai il mio signore e tutti gli alberi della foresta che io
curavo saranno tuoi.
Gilgameš fu mosso a compassione e disse: - O Enkidu,
l'uccello intrappolato non dovrà far ritorno al nido,
il prigioniero ritornare tra le braccia della madre?
- Signore, se tu permetterai a questo mostro di andare
via libero, non farai mai ritorno alla città dove
attende la madre che ti ha fatto nascere - rispose Enkidu. -
Egli ti sbarrerà la via della montagna e
renderà inaccessibili i suoi sentieri.
- O Enkidu, ciò che hai detto è male! -
gridò Humbaba. - Tu, un servo, che dipendi da
Gilgameš per il tuo proprio pane! Per invidia e timore
di un rivale hai pronunciato parole malvage! Solo nel tuo
spirito possono albergare pensieri ostili. Il mercenario ha
il cuore pieno di livore perché è costretto ad
andare sempre dietro. È questa la tua condizione. Tu
non riuscirai mai a rassomigliare a Gilgameš!
Allora Enkidu colpì Humbaba con la spada,
una, due, tre volte. Al terzo colpo il mostro crollò
al suolo. In tutta la foresta vi fu gran subbuglio
perché il guardiano era morto.
Gilgameš, conscio dell'enormità dell'atto
compiuto da Enkidu, donò la testa di Humbaba
ad Enlil, il dio del vento. Ma Enlil non gradì
affatto quel dono: quando vide la testa mozzata di
Humbaba si infuriò e maledì i due eroi.
IL TORO DEL
CIELODopo la vittoria, Gilgameš tornò ad Uruk. Si
lavò la lunga chioma e pulì le armi,
gettò via gli abiti impolverati dal lungo viaggio e
li sostituì con le vesti regali. Quando ebbe
indossato la corona, la dea Inanna abbassò gli occhi
su di lui e fu presa da passione. Gli comparve gloriosa
sulla mura della città dicendo: - Vieni a me,
Gilgameš, sii il mio sposo e fa' che io sia la tua
sposa. Quando, nel profumo del legno di cedro, entrerai
nella nostra casa, soglia e trono ti baceranno i piedi. Re e
principi si inchineranno davanti a te, ti recheranno tributi
dalla montagna e dalla collina.
Ma Gilgameš sdegnosamente rispose alla dea:
- Che cosa ti dovrei dare in cambio dopo averti
posseduta? Io potrei darti olio per il corpo e vestiti,
potrei darti cibo e sostentamento. Ma come potrei procurarti
cibo adatto per gli dèi? Come potrei procurarti
bevande adatte per i re? E poi, mia dea, a quale dei tuoi
amanti sei rimasta sempre fedele? Quale dei tuoi superbi
fidanzati è salito al cielo? Tutti li hai lasciati
vivere in mezzo alla difficoltà, abbandonandoli dopo
averli usati. E per quanto mi concerne, sì, tu mi
amerai, ma poi mi riserverai lo stesso trattamento!
Inanna, al rifiuto di Gilgameš, cadde in preda a
un'ira amara. Salì nell'alto dei cieli e le sue
lacrime scorsero al cospetto del dio-cielo An. - Padre mio,
Gilgameš mi ha coperta di insulti. Dammi Gugulanna, il
Toro del Cielo, affinché io possa distruggerlo.
Dammelo! Se rifiuterai la mia richiesta, io sfonderò
le porte degli inferi e condurrò i morti su a
mangiare cibo con i vivi!
Era una richiesta terribile. Il Toro del Cielo avrebbe
portato sulla città siccità e carestia per
sette anni, ma se An non avesse acconsentito alla richiesta
di Inanna, la dea avrebbe confuso l'ordine stesso della vita
e della morte. Il dio-cielo dovette acconsentire.
E così Gugulanna, il Toro del Cielo, entrò
furente in Uruk. Le sue narici emettevano fuoco e fiamme. I
suoi zoccoli scalpitanti aprivano fenditure tali che la
gente vi precipitava dentro. Subito Gilgameš ed Enkidu
corsero ad affrontare la fiera. Enkidu balzò addosso
al toro e lo afferrò per le corna. Il Toro del Cielo
schiumava dalla bocca, cercando di liberarsi dalla morsa
dell'eroe. Enkidu gridò a Gilgameš: - Amico mio,
ci siamo vantati che avremmo lasciato ai posteri un nome
duraturo: ora conficca la tua spada fra nuca e corna!
Gilgameš seguì il toro, lo afferrò per
la coda e gli infilò la spada tra nuca e corna. Il
Toro crollò al suolo senza vita. Allora i due eroi
gli strapparono il cuore e lo offrirono a Utu.
Ma Inanna si levò e salì sulla grande
muraglia di Uruk, proferendo maledizioni alla volta dei due
eroi: - Guai a voi! Avete osato uccidere il Toro del Cielo e
pagherete il vostro affronto!
Allora Enkidu strappò via la coscia destra del
toro e la scagliò sul volto della dea. - Se potessi
metterti le mani addosso, ecco cosa ti farei!
Gilgameš poi prese le corna del toro, le fece
ricoprire di lapislazzuli e le offrì al suo divino
padre Lugalbanda, appendendole nel suo palazzo.
All'uccisione del Toro del Cielo seguirono festosi
festaggiamenti in cui Gilgameš fu cantato come il
più glorioso tra gli eroi, il più eminente tra
gli uomini.
MORTE DI
ENKIDULa quella notte Enkidu vide in sogno gli dèi
riunirsi a consiglio e decretare che l'uccisione di
Humbaba e del Toro del Cielo non doveva passare
impunita: perciò uno dei due eroi sarebbe morto.
Così, risvegliatosi dal sogno, Enkidu
s'inchinò davanti a Gilgameš e piangendo
raccontava il suo terribile sogno:
- Ascolta mio signore, ecco cosa ho sognato la notte
scorsa. Ruggivano i cieli e la terra tremava; tra gli uni e
l'altra, io ero di fronte alla Morte alata; ella si
gettò su di me, i suoi artigli erano nei miei
capelli, mi avvinghiava e io soffocavo. E poi mi
trascinò via, nella casa di polvere, da cui nessuno
ha mai fatto ritorno. Gli abitanti di quella casa siedono
nelle tenebre: polvere è il loro cibo, argilla la
loro carne. Entrai e vidi i re della terra, le loro corone
messe da parte per sempre. Là sedeva Ereškigal,
la regina della polvere e delle tenebre, e ai suoi piedi lo
scriba dei morti sollevava il capo dalla sua tavoletta e
diceva: "Chi ha portato qui costui"? Al che, mio signore, mi
sono svegliato madido di sudore e con il cuore che mi
batteva forte.
E rispose Gilgameš: - Pregherò i grandi
dèi perché il mio amico ha fatto un sogno
funesto.
Pochi giorni dopo, Enkidu si ammalò. Giacque in
agonia per molti giorni, durante i quali maledì il
cacciatore che l'aveva trovato e la sacerdotessa che l'aveva
condotto nel mondo degli uomini, ma il dio del sole Utu gli
comparve in sogno e gli ricordò che coloro che
malediva gli avevano dato come compagno il glorioso
Gilgameš, il quale lo aveva fatto sedere su un divano
alla sua sinistra, colmandolo di doni e di onori. Allora
Enkidu si pentì delle sue parole e ritirò le
sue maledizioni.
Per dodici giorni Enkidu giacque sul letto di morte. Poi
chiamò Gilgameš: - Amico mio, la grande dea mi
ha maledetto e io non morirò in battaglia. Temevo la
morte in battaglia, invece è felice l'uomo che cade
in battaglia, mentre io dovrò morire nella vergogna.
E girato il capo, morì.
Gilgameš toccò il corpo di Enkidu, tentando
di risvegliarlo, ma il cuore dell'amico non batteva. Allora
il re stese un velo sul suo corpo, e, travolto dalla
disperazione, prese a infuriare come una leonessa derubata
dei cuccioli. Aventi e indietro, misurò i passi
attorno al letto, si strappò i capelli e le splendide
vesti. Poi corse ramingo per le lande desertiche gridando
tutta la sua amarezza.
- Uditemi, grandi di Uruk,
- Enkidu piango, l'amico
mio,
- gemendo come donna in lutto
piango mio fratello.
- O Enkidu, fratello mio,
- tu fosti la scure al mio
fianco, la forza della mia mano,
- la spada nella mia cintura, lo
scudo davanti a me,
- una veste gloriosa, il mio
più leggiadro ornamento;
- un destino malvagio mi ha
derubato.
- L'onagro e la gazzella che
padre e madre ti furono,
- tutte le creature dalla lunga
coda che ti nutrirono ti piangono,
- tutti gli esseri selvatici
della piana e dei pascoli;
- i sentieri che amavi nella
foresta di cedri notte e giorno mormorano.
- Che i grandi di Uruk dalle
forti mura ti piangano;
- che il dito di benedizione sia
teso in lutto.
- Enkidu, giovane fratello.
Ascolta,
- per tutto il paese c'è
un'eco come di madre in lutto.
- Piangano tutti i sentieri che
insieme abbiamo percorso,
- e le bestie che abbiamo
cacciato, orso e iena,
- tigre e pantera, leopardo e
leone,
- cervo e stambecco, toro e
daina.
- Il fiume lungo le cui rive
camminavamo ti piange.
- I guerrieri di Uruk dalle forti
mura ti piangono.
- Cosa è mai questo sonno
che ora ti avvince?
- Sei perso nelle tenebre e non
puoi sentirmi...
ALLA RICERCA DELLA
VITAPer sette giorni e sette notti Gilgameš pianse
l'amico. Poi, quando il lutto fu finito, Gilgameš si
accorse di essere rimasto solo. Dopo aver conosciuto le
gioie di un'amicizia perfetta, sentiva adesso, opprimente,
la consapevolezza dell'inevitabilità della morte.
- Come posso riposare, come posso aver pace? La
disperazione è ora nel mio cuore. Ciò che
è mio fratello ora, lo sarò anch'io quando
sarò morto!
A quanto dicevano i sapienti, c'era un solo uomo a cui
non era stata data in sorte la morte. Era Utanapištim,
colui che gli dèi avevano salvato dal Diluvio e lo
avevano posto a vivere nella terra felice di Dilmun. Lui
solo tra gli uomini aveva ricevuto l'immortalità. Fu
così che Gilgameš decise che lo avrebbe trovato
e da lui avrebbe ricevuto il segreto della Vita.
Gilgameš partì dunque da Uruk verso il
deserto, e dopo molti giorni di cammino giunse ai passi di
una montagna. Pregò Nanna, il dio della luna, e si
mise a dormire. Quando si destò nella notte, vide
attorno a sé dei leoni raggianti di vita. Allora
afferrò la scure, trasse la spada dalla cintura e si
gettò su di loro, abbattendoli e disperdendoli.
Dopo lunghe settimane di viaggio, Gilgameš giunse al
monte Mašu, i cui picchi gemelli erano alti quanto il
muro del cielo e i cui poggi scendevano giù sino agli
inferi. Tra i due picchi si trovavano le porte da cui il
sole usciva ogni giorno per attraversare il cielo. A guardia
del monte vi erano i due uomini-scorpione: la loro gloria
spazzava le montagne e il loro sguardo colpiva gli uomini a
morte. Gilgameš si coprì il volto con le mani,
si fece coraggio e avanzò.
- Guarda - disse l'uomo-scorpione alla sua compagna: -
Colui che viene è della carne degli dèi.
- Per due terzi è dio - rispose la sua compagna. -
Per un terzo è uomo.
L'uomo-scorpione si rivolse allora a Gilgameš: -
Perché hai affrontato un viaggio così lungo,
perché ti sei recato così lontano? Dimmi il
motivo della tua venuta.
Rispose Gilgameš: - Per Enkidu, molto lo amavo. Per
causa sua sono venuto, poiché il destino comune
dell'uomo si è impadronito di lui. Da quando se ne
è andato, la mia vita non è più nulla.
Per questo sono giunto qui alla ricerca di Utanapištim:
gli uomini dicono infatti che egli abbia trovato la vita
eterna. Desidero interrogarlo sulla vita e sulla morte.
L'uomo-scorpione disse: - Nessun essere nato da donna
è mai andato nella montagna. La sua lunghezza
è dodici ore-doppie di tenebra. In essa non vi
è luce alcuna dal sorgere del sole fino al tramonto.
Rispose Gilgameš: - Quando anche debba andare
afflitto dal dolore, io debbo andare comunque. Apri la porta
della montagna.
E l'uomo-scorpione: - Va', Gilgameš. Ti permetto di
attraversare il monte Mašu. Possano i piedi riportarti
a casa sano e salvo. La porta della montagna è
aperta.
Gilgameš attraversò la montagna seguendo il
cammino del sole verso levante. Dopo un'ora-doppia
l'oscurità si fece fitta intorno a lui. Gilgameš
proseguì a tentoni, nel buio. Il percorso fu
angosciante, perché non vi erano che tenebre e
tenebre e tenebre. Ma dopo la nona ora-doppia, Gilgameš
sentì il vento del nord sul viso e all'undicesima
ora-doppia vide finalmente la luce dell'alba. Trascorse
dodici ore-doppie irruppe la luce del sole.
Uscito dalla montagna, Gilgameš si trovò nel
giardino degli dèi: intorno a lui stavano cespugli
carichi di gemme, frutti di corniola e foglie di
lapislazzuli; invece dei rovi vi erano ematiti e agata e
perle del mare. Mentre l'eroe camminava per questo giardino
meraviglioso, venne a lui Utu, il dio del sole, e vide che
Gilgameš era vestito di pelli di animali. Ne fu turbato
e disse: - Nessun mortale è mai passato di qui e non
passerà mai finché i venti incalzeranno sul
mare. Torna indietro, Gilgameš. Non troverai mai la
Vita che stai cercando.
Rispose Gilgameš: - Ora che ho faticato e tanto
vagato per le lande deserte, dovrò forse dormire e
lasciare che la terra copra per sempre il mio capo?
Benché io ormai non valga più di un uomo
morto, che io contempli ugualmente la luce del sole!
SIDURI
Passeggiando per quel giardino incantato, Gilgameš
giunse sulla riva del mare, dove trovò la casa di
Siduri, la donna della vigna, colei che faceva il vino. La
donna sedeva nel giardino con la coppa d'oro e i tini d'oro
che gli dèi le avevano donato. Non appena vide
Gilgameš, si spaventò, perché egli era
sporco e coperto di pelli, e corse a nascondersi in casa. Ma
Gilgameš infilò rapido il piede tra lo stipite e
la porta: - Fanciulla che fai il vino, perché
spranghi l'uscio? Abbatterò il tuo uscio e
sfonderò la tua porta, io sono il re di Uruk, quel
Gilgameš che ha ucciso Humbaba e il Toro del
Cielo.
Fece Siduri: - Se tu sei quel Gilgameš che ha ucciso
Humbaba e il Toro del Cielo, perché sono
emaciate le tue guance e vi è disperazione nel tuo
cuore?
- E perché non dovrebbero essere emaciate le mie
guance e non dovrebbe esservi disperazione nel mio cuore? Il
mio amico che mi era molto caro, Enkidu, il fratello che
amavo, la fine di tutti i mortali l'ha raggiunto. A cagione
di mio fratello ho paura della morte. A cagione di mio
fratello vado ramingo e non trovo riposo. Ma ora, fanciulla
che fai il vino, ora che ho visto il tuo volto, fa' che io
non veda il volto della morte da me tanto temuta.
Siduri rispose: - Gilgameš, non troverai mai la Vita
che cerchi. Quando gli dèi crearono l'uomo, gli
diedero in fato la Morte, ma tennero la Vita per loro.
Quanto a te, Gilgameš, riempi il tuo ventre di cose
buone; giorno e notte danza e sii lieto, banchetta e
rallègrati. Rendi felice tua moglie e abbi caro il
fanciullo che ti tiene per mano. Perché questo,
questo, è il fato dell'uomo.
Ma Gilgameš disse: - Come posso tacere, come posso
riposare quando Enkidu che amavo ora è polvere e
anch'io morirò e verrò disteso nella terra? Tu
vivi accanto alla riva del mare e guardi nel suo cuore.
Fanciulla, dimmi, qual è la via per Utanapištim?
Colei che fa il vino, Siduri, rispose: - L'isola felice
di Dilmun si trova al di là dell'Oceano e nessun
mortale ha mai attraversato l'Oceano, se non Utu, il dio del
sole. Al centro dell'Oceano scorrono le acque delle morte, e
come potrai tu valicarle? Tuttavia, Gilgameš,
giù nel bosco troverai il barcaiolo Uršanabi.
Lui conosce la strada, e forse potrà aiutarti. Se
è possibile, valicherai le acque. Ma se non è
possibile, Gilgameš, dovrai fare ritorno.
SULLE ACQUE DELLA
MORTEGilgameš trovò Uršanabi, ma
poiché il battelliere lavorava alla prua serpentina
del battello e non gli dava retta, Gilgameš fu colto
dall'ira, afferrò un oggetto di pietra che si trovava
lì accanto e lo fracassò al suolo. A questo
punto Uršanabi si voltò verso di lui. - Chi sei
tu, straniero? Io sono Uršanabi, il battelliere di
Utanapištim.
- E io sono Gilgameš, il re di Uruk, colui che
ucciso Humbaba e il Toro del Cielo.
- Se tu sei quel Gilgameš che ha ucciso
Humbaba e il Toro del Cielo, perché sono
emaciate le tue guance e vi è disperazione nel tuo
cuore?
- E perché non dovrebbero essere emaciate le mie
guance e non dovrebbe esservi disperazione nel mio cuore? Il
mio amico che mi era molto caro, Enkidu, il fratello che
amavo, la fine di tutti i mortali l'ha raggiunto. A cagione
di mio fratello ho paura della morte. A cagione di mio
fratello vado ramingo e non trovo riposo. Sto cercando
Utanapištim per conoscere il segreto della Vita. Ti
prego, allora, Uršanabi, conducimi da Utanapištim,
a Dilmun. Io vorrei, se è possibile, varcare le Acque
delle Morte.
Uršanabi gli disse: - Gilgameš, le tue stesse
mani ti hanno impedito di varcare le Acque delle Morte.
Quell'oggetto di pietra che hai infranto mi dava la
facoltà di trasportarmi oltre l'Oceano, senza che le
Acque della Morte mi toccassero. Ora non ti resta che andare
nella foresta, Gilgameš. Con la tua scure taglia
centoventi pertiche di sessanta cubiti di altezza, spalmale
di pece e bitume e poi portale alla barca.
Gilgameš acconsentì alla richiesto, e
terminato in lavoro, Uršanabi spinse il battello
nell'Oceano. Dopo tre giorni di viaggio il battello
entrò nelle Acque della Morte. Allora Uršanabi
disse a Gilgameš: - Avanti, prendi una pertica e spingi
la barca, ma che le tue mani non si bagnino in queste acque
o sarà la tua fine.
Gilgameš fece come Uršanabi gli aveva ordinato,
ma dopo aver spinto la barca dovette lasciare la pertica
perché le acque della morte l'avevano corrosa. Allora
prese la seconda pertica e diede una nuova spinta, e
così via. Dopo centoventi spinte, Gilgameš aveva
adoperato l'ultima pertica. Allora Gilgameš si
spogliò e usò le sue braccia come alberi e le
sue vesti come vela.
Così, il battelliere Uršanabi condusse
Gilgameš da Utanapištim, a Dilmun, nel luogo del
transito del sole.
UTANAPIŠTIM
Utanapištim si trovava nella sua isola felice, a
Dilmun, e vide avvicinarsi la nave di Uršanabi.
Notò la figura di Gilgameš, e si chiese chi
fosse quello straniero.
Quando la barca approdò, Utanapištim
avvicinò Gilgameš e gli chiese: - Qual è
il tuo nome, o tu che vieni qui vestito di pelli di animale?
- Io sono Gilgameš, il re di Uruk, colui che ucciso
Humbaba e il Toro del Cielo.
- Se tu sei quel Gilgameš che ha ucciso
Humbaba e il Toro del Cielo, perché sono
emaciate le tue guance e vi è disperazione nel tuo
cuore?
- E perché non dovrebbero essere emaciate le mie
guance e non dovrebbe esservi disperazione nel mio cuore? Il
mio amico che mi era molto caro, Enkidu, il fratello che
amavo, la fine di tutti i mortali l'ha raggiunto. A cagione
di mio fratello ho paura della morte. A cagione di mio
fratello vado ramingo e non trovo riposo. E sono venuti qui
per conoscere te, padre Utanapištim, tu che sei entrato
nel consesso degli dèi. Voglio interrogarti sui vivi
e sui morti. Voglio sapere, come potrò trovare la
Vita che sto cercando?
Utanapištim rispose: - Nulla permane. Costruiamo
forse una casa che duri per sempre? Stipuliamo forse
contratti che valgano per ogni tempo a venire? Solo la ninfa
della libellula si spoglia della propria larva e vede il
sole nella sua gloria. Fin dai tempi antichi, nulla permane.
Dormienti e morti, quanto sono simili: sono come morte
dipinta. Gli Anunnaki, i giudici divini, assegnano a ogni
uomo una nascita e una morte.
- Eppure, Utanapištim, io guardo te e non vedo nulla
di strano nel tuo sembiante. T'immaginavo come un eroe,
invece te ne stai in quest'isola meravigliosa in panciolle.
Dimmi la verità, come facesti ad entrare nella
schiera degli dèi ed a possedere la vita eterna?
- Sta' bene - disse Utanapištim. Ti rivelerò
un mistero divino.
LA STORIA DEL
DILUVIOTanto tempo prima, narrò Utanapištim,
l'umanità era così numerosa che sollevava un
tale baccano da disturbare il sonno degli dèi.
Così Enlil, il signore del vento, riunì il
consesso degli dèi e disse: - Lo strepito
dell'umanità è intollerabile! Così non
si può più andare avanti! Scatenerò il
Diluvio e distruggerò il genere umano!
Grande costernazione ci era stata allora tra le
divinità, le quali dipendevano dagli uomini per i
sacrifici, e tutte quali avevano preso ad invocare il dio
del cielo An. Inanna piangeva e si disperava. Ma il saggio
Enki, il signore dell'abisso, che da sempre era l'amico
degli uomini, scese nella città di Šuruppak e
comparve in sogno al giovane Utanapištim, che era suo
sacerdote, e gli disse:
- Utanapištim, ascolta! Abbatti la tua casa e
costruisci una nave. Abbandona i tuoi averi e cerca la vita.
Sprezza i beni mondani e tieni in vita la tua anima. Abbatti
la tua casa, ti dico, e costruisci una nave. Ecco le misure
del battello: che abbia la lunghezza pari alla larghezza,
che il suo ponte abbia un tetto come la volta che copre
l'abisso. Entravi assieme ai suoi consanguinei e familiari,
e dopo avervi portato dentro da mangiare e da bere, fai
entrare tutti gli animali, volatili e quadrupedi. Se
qualcuno ti chiederà qualcosa, rispondigli che ti
rechi dagli dèi per pregare per la buona sorte degli
uomini!
Utanapištim aveva dunque costruito la nave e l'aveva
fatta lunga cinque stadi e alta due. Vi condusse la sua
famiglia e il seme di tutte le creature viventi, oltre a
tutti i suoi beni.
Alle prime luci dell'alba venne dall'orizzonte una nube
nera, mostruosa. Là dentro viaggiava Addu, il
cavaliere della tempesta. Poi sorsero gli dèi
dell'abisso: Nergal divelse le dighe delle acque
sotterranee, Ninurta abbatté gli argini, e i sette
giudici degli inferi, gli Anunnaki, innalzarono le torce a
illuminare la terra di vivida fiamma. Sgomento e
disperazione si levarono fino al cielo quando Enlil
trasformò la luce del giorno in tenebra e infranse la
terra come un coccio. Fu tale il cataclisma che gli
dèi stessi, terrorizzati, fuggirono nel più
alto del cielo, il firmamento di An, e si rannicchiarono
contro le mura stringendosi l'un con l'altro per farsi
coraggio.
Per sei giorni e sei notti il paese di Sumer venne
travolto dalla furia delle acque.
Quando venne l'alba del settimo giorno, la tempesta
diminuì, divenne calmo il mare, la piena si
acquietò. Utanapištim si affacciò
dall'arca e guardò la faccia del mondo. Silenzio.
Dovunque si stendeva il mare. E tutta l'umanità era
stata trasformata in argilla. Allora Utanapištim
s'inchinò e pianse.
A lungo l'arca cercò la terra, finché
comparve una montagna, e lì l'arca s'incagliò
e non si mosse.
Allora Utanapištim aveva mandò fuori alcuni
uccelli, i quali, non trovando nulla da mangiare né
luogo dove posarsi, tornarono sulla nave. Alcuni giorni dopo
ripeté l'operazione, e gli uccelli tornarono con le
zampe infangate. Quando mandò fuori per la terza
volta gli uccelli, questi non tornarono, e Utanapištim
capì che la terra era di nuovo emersa. Allora
Utanapištim aprì le porte della nave e tutte le
creature uscirono fuori. Quindi fece dei sacrifici agli
dèi. Gli dèi, sentendo il profumo dei
sacrifici, accorsero in frotte, tranne Enlil che rimase
sgomento all'idea che qualcuno si fosse salvato.
Allora Enki disse ad Enlil: - Saggio tra gli dèi,
Enlil, come hai potuto così stoltamente far scendere
il Diluvio? Imponi sul peccatore il suo peccato, puniscilo
quando ha colpa, ma non incalzarlo troppo, altrimenti muore.
Magari un leone avesse dilaniato l'umanità invece del
Diluvio. Magari la carestia avesse devastato
l'umanità invece del Diluvio. Magari la pestilenza
avesse decimato l'umanità invece del Diluvio.
Allora Enlil prese per mano Utanapištim e sua
moglie, li benedisse e dichiarò: - D'ora innanzi,
Utanapištim non sarà più un uomo mortale,
ma un dio, e vivrà nella lontananza, a Dilmun.
LA PIANTA E IL
SERPENTEAlla fine del racconto, Utanapištim disse a
Gilgameš: - Quanto a te, Gilgameš, chi
riunirà a consiglio gli dèi per darti quella
Vita che cerchi? Ma se vuoi, vieni e tenta la prova: non hai
che da vincere il sonno per sei giorni e sei notti.
E mentre Gilgameš stava lì accosciato, una
nebbia di sonno fluttuò su di lui. Allora
Utanapištim disse alla moglie di fare ogni giorno un
pane e di porlo accanto al corpo di Gilgameš.
Così ella fece. Al settimo giorno, Gilgameš si
svegliò e disse a Utanapištim: - Mi ero appena
addormentato che subito mi hai svegliato.
Ma il vecchio gli indicò i pani posati accanto a
lui, di cui il primo era duro, il secondo come cuoio, il
terzo fradicio, il quarto andato a male, il quinto gommoso,
il sesto fresco e il settimo ancora sulla brace.
- Conta questi pani e saprai quanti giorni hai dormito.
Come pretendi di vincere la morte se non sei in grado di
vincere il sonno?
Gilgameš sospirò. - Che cosa farò,
Utanapištim, dove andrò? Già il ladro
nella notte ha ghermito le mie membra, la morte abita nella
mia camera. Ovunque andrò la morte mi troverà.
Utanapištim prese con sé Gilgameš e lo
condusse ai lavatoi perché si togliesse di dosso la
sporcizia del suo lungo cammino e gli diede nuove vesti.
Quando Gilgameš, rivestito e rifocillato, tornò
alla barca di Uršanabi, Utanapištim gli disse: -
Gilgameš, ti rivelerò una cosa segreta.
C'è una pianta che cresce sotto l'acqua, la Pianta
dell'Irrequietezza, detta Vecchio-torna-giovane. Ha spine
come il rovo. Ferirà le tue mani, ma se riuscirai a
prenderla sarà la tua salvezza, perché ha la
virtù di ridare agli uomini la gioventù
perduta. Non è proprio la Vita che cerchi, ma
può comunque aiutarti a tenere lontana la vecchiaia e
la morte.
Gilgameš ripartì con Uršanabi. Arrivato
nel punto indicatogli, si legò ai piedi pietre
pesanti e si tuffò dalla barca. Trascinato dalle
pietre sul fondo del mare, Gilgameš vide la pianta che
cercava. La afferrò e le spine gli ferirono le mani,
ma l'eroe, incurante del dolore, riuscì a strapparla.
Tagliò le funi che lo ancoravano alle pietre e
tornò in superficie. Mostrò la pianta a
Uršanabi e disse:
- Porterò questa pianta a Uruk dalle forti mura,
lì la darò da mangiare ai vecchi, i quali
torneranno giovani e forti. Infine ne mangerò io
stesso e riavrò tutta la perduta gioventù.
Dopo un lungo viaggio, si fermarono per la notte, presso
un pozzo di acqua fresca. Mentre Gilgameš si bagnava
nel pozzo, un serpente sentì la dolcezza della pianta
poggiata sulla riva, si avvicinò e la mangiò.
Subito, l'animale perse la pelle, tornando giovane, e
fuggì via. Quando Gilgameš si accorse del fatto,
pianse a lungo, sconsolato.
- O Uršanabi, è per questo che ho faticato
con le mie mani, è per questo che ho spremuto il
sangue del mio cuore? Per me non ho guadagnato niente; non
io, ma questa bestia della terra ne gioisce!
E così fu che Gilgameš perse
l'immortalità.
RITORNO A
URUKAlla fine, dopo un lunghissimo viaggio, Gilgameš
ritornò finalmente a Uruk. Uršanabi l'aveva
accompagnato. Qui giunti, Gilgameš ordinò ad
Uršanabi di salire sulle mura e gli mostrò la
città.
- Anche questa fu opera di
Gilgameš,
- del re che conosceva i paesi
del mondo;
- vide misteri e conobbe cose
segrete;
- un racconto ci portò dei
giorni prima del diluvio.
- Fece un lungo viaggio, fu
esausto, consunto dalla fatica;
- quando ritornò su una
pietra
- l'intera storia incise.
MORTE DI
GILGAMEŠ
Una notte il dio Enlil comparve in sogno a Gilgameš
e gli disse:
- O Gilgameš, tu sei stato destinato alla
Regalità: alla Vita non sei stato destinato. A causa
della mancanza della Vita il tuo cuore non sia triste. Non
ti abbattere, non essere depresso. È stato dato a te
il potere di giudicare chi tra gli uomini ha commesso il
male, è stato dato a te il potere di stabilire la
luce e le tenebre del genere umano, è stato dato a te
il potere di primeggiare sull'umanità, è stato
dato a te il potere di non avere avversari, è stato
dato a te il potere di vincere le guerre da cui nessuno
torna vivo, è stato dato a te il potere di condurre
assalti da cui nessuno può sfuggire. Ma la Vita, la
Vita, non ti è stata data.
Risvegliatosi, Gilgameš chiese lumi ai sapienti sul
significato del tuo sogno e questi gli risposero:
- Gli eroi e i saggi, come la luna, hanno il loro
crescere e calare. Diranno gli uomini: chi mai ha regnato
con potenza e potere simili ai tuoi? Come nel mese oscuro,
nel mese delle ombre, così non vi è luce senza
di te. O Gilgameš, questo era il significato del tuo
sogno. Ti è stata data la sovranità, questo
è il tuo destino. Una vita che duri in eterno non
è il tuo destino.
E dopo centoventisei anni di regno, Gilgameš, il re
di Uruk, ebbe la sorte comune dell'umanità. L'uomo
che aveva combattuto contro esseri divini e aveva viaggiato
ai confini del mondo, giacque un giorno sul suo letto, senza
vita.
- Colui che ha distrutto il male,
giace, non si alza.
- Colui che ha stabilito la pace
nel Paese, giace, non si alza.
- Colui che ha reso tutto
perfetto, giace, non si alza.
- Colui che ha i muscoli saldi,
giace, non si alza.
- Colui che è signore di
Kullab, giace, non si alza.
- Colui che ha forme perfette,
giace, non si alza.
- Colui che ha lo sguardo acuto,
giace, non si alza.
- Colui che ha scalato le
montagne, giace, non si alza.
- Nel letto del destino egli
giace, non si alza.
- Nel letto variopinto egli
giace, non si alza.
- Chi gli sta intorno non tace;
chi gli siede accanto non tace; essi innalzano un
lamento.
- Chi mangia cibo non tace; chi
beve acqua non tace; essi innalzano un lamento.
A Gilgameš succedette il figlio Urlugal, che
regnò trent'anni. A Urlugal succedettero altri sei
sovrani. Poi la città di Uruk venne sconfitta e la
regalità passò alla città di Ur.
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