L'EPOPEA DI GILGAMESH
Dalla civiltà sumerica a quella babilonese


Ponchia

Gilgamesh il primo eroe: Antiche storie della Mesopotamia, Simonetta Ponchia, Nuove Edizioni Romane ott 2000

I miti mesopotamici hanno  caratteri, che non è difficile definire assiomi, comuni all'epica omerica o, millenni più tardi, alla Chanson di Roland. L'eroismo, le passioni, l'ingordigia, la crudeltà, l'onore, gli affetti, l'amore sanno vivere allegorie che, al di là d'una non determinante origine storica, ci colpiscono e incantano. E più antiche sono le radici di un mito, più noi moderni veniamo catturati dal suo saper raccontare noi stessi.

Al di là delle affinità culturali dei miti mesopotamici con la tradizione classica greca e biblica (primo elemento di attrazione per il grande pubblico) esistono peculiarità che vale la pena di ricordare. Questi miti sono fra i primi documentati e certamente fra i primi mai composti poiché nati insieme alla scrittura stessa. Può stupire come essi siano arrivati a noi direttamente. Dei poemi omerici, per esempio, non abbiamo testi risalenti al settimo secolo a.C. ma solo "copie" frutto del lavoro millenario di copisti romani e bizantini. E così anche se le storie mesopotamiche possono non essere esattamente coeve col periodo della loro stesura ci sono giunte attraverso documenti che rappresentano la "preistoria" della scrittura. I documenti sono "rozze scalfitture" dell'argilla o della pietra che paiono impronte di dinosauro ma che sanno brillare di luce propria svelando miti e storie di altissimo valore letterario.

Chiaramente noi ci sostituiamo ai reali destinatari di quelle storie. Quindi la forma con cui esse si presentano può a volte apparirci oscura o estranea. La tecnica del mito mesopotamico è poco sviluppata: l'azione è statica, le ripetizioni sono frequenti (utili per un uso rituale della narrazione), la narrazione è ripiegata su se stessa. Gli espedienti narrativi riflettono chiaramente i gusti del pubblico a cui era destinato, non i nostri. Non dimentichiamo inoltre che raramente le storie ci sono giunte per intero. Spesso il mito va ricostruito attraverso reperti e questi possono essere non conformi tra loro vuoi perché frutto dell'attività di culture diverse (e quindi scritti in lingue diverse) ma anche perché contenenti varianti formali e sostanziali alle quali è difficile assegnare una gerarchia.

I miti mesopotamici richiedono spesso un adattamento che difficilmente troverà tutti d'accordo perché spesso pecca in compromessi poco filologici. Ma è proprio grazie alle numerose soluzioni che si prospettano alla narrazione che il mito eviterà di cristallizzarsi evolvendosi nei modi che sanno toccare la sensibilità del pubblico di oggi come quello di domani.

Il più celebre "adattamento" è certamente il Gilgamesh di N.K. Sandars per la spregiudicatezza ma anche per l'alta qualità del risultato finale. Nell'introduzione a questo testo del 1970 l'autrice spiega (pp. 71-73, ediz. Einaudi 1994) che ha evitato di rendere il mito in versi; ha rinunciato alla divisione in tavolette; ha combinato fonti distanti anche millenni tra loro (sumeriche, ittite, assire); ha eliminato la dodicesima tavoletta del canone perché non soddisfacente; ha eliminato personaggi minori; ha inserito brani da altri miti (Atramkhakis, Visione del mondo interiore). La questione non deve scandalizzare. In fondo rimangono da tradurre e vengono scoperte continuamente molte tavolette che aggiungono tasselli al puzzle mitico rimettendo in discussione le interpretazioni precedenti.

E' con questa lucida serenità, che va affrontata la lettura di questo bellissimo volume di Simonetta Ponchia, alla quale si devono la traduzione e l’adattamento di storie antichissime che sanno accendere la nostra immaginazione. Roberta Pugno l'accompagna nel suo itinerario con illustrazioni che "adattano", mettono a fuoco, vicende divine ed umane affiorate dall'argilla calpestata dal tempo. L'impatto è emozionante: i colori, i segni delle immagini dell'artista modenese hanno la stessa essenzialità delle tavolette cuneformi.

Ogni storia del libro della Ponchia è accompagnata da una breve nota introduttiva sulle fonti usate. Due le sezioni in cui si articolano i miti: storie di dei e storie di eroi. Nella prima si esplorano la teogonia assiro-babilonese, la creazione dell'uomo e la visione dell'aldilà. Nella seconda si narrano peripezie che, come itinerari educativi, faranno acquisire agli umani protagonisti consapevolezza dei propri limiti e responsabilità dell'esercizio del potere.

Nella prima sezione non poteva mancare l'Enuma Elish che è la più lunga e più famosa delle storie mesopotamiche sulla creazione dell'universo rivelante inquietanti similitudini con la teogonia esiodea. Vi si narra di scontri fra generazioni divine per il mantenimento del potere al vertice del pantheon. L'autrice descrive con emozione e turbamento il crudele calcolo di padri e madri che attentano alla vita dei figli sfruttando l'ascendente che essi hanno nei loro confronti:

(parla Tiamat la madre creatrice) «Sta attento, signore: sei sicuro che gli dei siano dalla tua parte? Guardati alle spalle, figlio mio!».
L'espressione della dea era benevola, ma Marduk reagì: «Perché di fuori mostri amicizia, mentre il tuo cuore brama lo scontro? I bambini si disperano quando i loro genitori li ingannano e tu che sei madre ti fai beffe dei sentimenti più naturali! Hai meditato il male contro gli Dei tuoi figli!». (p. 20)

La lacerante accusa si trasformerà in scontro al quale seguirà il terribile ma inevitabile castigo. Dal caos si potrà uscire solo con la morte della procreatrice che Marduk farà a pezzi assegnando ad ogni suo organo una funzione nel nuovo ordine dell'universo. Gli dei stessi non possono sottrarsi alla tragicità del fato!

Davvero notevole - ed è ciò che più mi ha deliziato - l'adattamento del ciclo di Ishtar  e Dumuzi in un unico racconto. L'autrice unisce i vari miti con fluidità e fantasia esordendo col fiorire dell'amore tra la dea (nel testo col nome sumerico Inanna) e il pastore. La protagonista usa parole che ricordano la tenerissima innamorata del Cantico dei Cantici:

«La barba del mio sposo è di lapislazzuli» cantava, «il suo viso miele ai miei occhi, la sua dolcezza come lattuga appena spuntata, tenera sotto la rugiada. Indosserò per lui la mia veste variopinta, i miei ornamenti d'oro e turchese. Profumerò la mia casa con essenza di cedro, adornerò la soglia per ricevere il mio amato». (p. 24)

Il racconto prosegue con la visita agli Inferi di Ishtar (imparentata col mito di Nergal e Ereshkigal, la XII tavoletta del canone di Gilgamesh e il mito greco di Persefone) che ci consente di gettare uno sguardo al "mondo di sotto" popolato da demoni spietati come la loro padrona Ereshkigal, signora dell'oltretomba e sorella di Ishtar. La descrizione della Ponchia è vivacissima e terribile:

... demoni piccoli, come giunchi appena spuntati, demoni grossi come canne mature, un demone davanti con in mano un bastone, un demone dietro con la mazza frantuma-cranio alla cintura. Quelli di questa razza disdegnano le offerte di cibo, disdegnano le bevande degli uomini, nessuna cosa lieta li attrae, nessuna pietà li commuove, senza gioia e senza dolore strappano la sposa dalle braccia dello sposo, il neonato dal seno della madre. (p. 30)

Ishtar, scoprendo di non poter più lasciare il "luogo di non ritorno", offre in cambio del proprio rilascio Dumuzi, e non senza ironia apprendiamo che la dea preferisce salvare i prescelti dai demoni (l'ancella, il menestrello, il capitano delle guardie) a scapito dello sposo. Emerge quindi la commovente figura di Geshtinanna (non lontana dall'Alcesti euripidea) che intercedendo per il fratello ne otterrà la grazia per sei mesi l'anno condividendone il destino agli inferi per gli altri sei.

L'epopea per la conquista della tavola dei destini ci viene narrata nelle storie che trovano il dio Ninurta protagonista: Anzu e Ninurta, Ninurta e Asakku. Anche qui la narrazione è brillante ed immediata come emerge nello scontro fra divinità:

(parla Anzu contro la freccia scagliatagli da Ninurta) «Asta di giunco, torna nel tuo canneto; legno dell'arco, torna alla foresta; nerbo, torna ai tendini della pecora; penne, tornate agli uccelli!». (p. 39)

In entrambi i racconti oggetti inanimati prendono vita giocando ruoli decisivi nello scontro. Memorabile la descrizione degli alleati di Asakku:

(Asakku) ha generato, accoppiandosi con la montagna, la moltitudine delle pietre. Come loro re ha posto il marmo, che leva le sue corna come un bufalo gigante. Dietro ci sono la lava, il basalto, la diorite, l'ematite, l'alabastro, la selce, la pietra comune e le pietre fini, a centinaia: sono gli eroi del suo esercito. (p. 42)

Ogni ente ha il suo ruolo nel cosmo babilonese ed anche l'uomo entra in campo per svolgere una precisa funzione: alleviare le fatiche degli dei. L'uomo così è creato dalla creta e dal sangue di un dio ribelle come ci narra l'autrice nell'adattamento del noto poema dell'Atramkhakis (la creazione dell'uomo). L'uomo porterà quindi con sé sempre i segni del divino uniti a quelli dell'inquietudine. E chi è più inquieto di Gilgamesh, eroe nazionale di tutte le culture mesopotamiche, per due terzi divino, per un terzo uomo alla vana ricerca del segreto dell'immortalità? A lui e a molti altri umani protagonisti di avventure senza tempo è dedicata la seconda sezione del libro.

Per chi volesse poi approfondire l'argomento vi sono preziose appendici (un glossario dei nomi mitici, un schema cronologico della letteratura sumero-accadica) veramente ben fatte ma non troppo impegnative e quindi godibili anche per profani di letteratura e storia mesopotamica.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia antica
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Aggiornamento: 01/05/2015