IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE |
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LA BARBA DI PLATONE E I CONTI DI EINSTEIN Didattica estemporanea alla riscoperta degli universali
“I sofisti ritenevano che non esistesse una verità oggettiva su quel che è bello o brutto, giusto o ingiusto, virtuoso o vizioso. Ben diversa è infatti la virtù dell'uomo e della donna, del fanciullo e del vecchio, dello schiavo e del cavallo. E sul giusto e l'ingiusto ogni popolo ha leggi e costumi differenti, talché sovente i greci considerano empio quel che è ritenuto santo presso i barbari e viceversa. Socrate sembra aver suggerito che se le varie forme di virtù potevano nondimeno venir chiamate con l' unico nome di 'virtù' doveva pur esserci qualcosa di comune a tutte, qualcosa che facesse di tutte loro degli esempi di virtù. Il relativismo sofistico, foriero di disimpegno e corruzione morale, si poteva perciò superare considerando non le singole virtù, ma la Virtù stessa, non gli esempi particolari, ma l'intima essenza della virtù; lo stesso poteva dirsi della bellezza, della giustizia, ecc.” Così, sintetizzando per la mia terza liceo le precedenti lezioni di filosofia, chiarisco l'affermazione di Aristotele secondo cui Socrate sarebbe stato il primo ad introdurre gli “universali”. Contemporaneamente mi accingo ad introdurre la “teoria delle idee” di Platone. Per i miei studenti si tratterà del primo contatto con i grandi sistemi filosofici, una specie d'iniziazione con cui li sottrarrò per sempre alla primitiva innocenza del senso comune, schiudendo loro in compenso una nuova dimensione di realtà, accessibile solo all'occhio del filosofo. E' un risultato non da poco, ottenibile solo mediante un magistrale esercizio d'abilità, la cui esecuzione è sempre fonte per l'insegnante di nuovo legittimo orgoglio (oltre ad assicurare, in prospettiva, il pane per sé e per i suoi colleghi futuri). “Che cosa è mai un universale? - chiedo - Qual è la sua natura, e dove si trova? Noi possiamo vedere e indicare questo o quel gesto virtuoso, possiamo toccar con mano questa o quella cosa bella. Ma la Virtù stessa, la Bellezza, o la loro essenza, dove sono e che aspetto hanno? Allo stesso modo, possiamo tracciare col gesso o ritagliare nella carta svariati triangoli particolari, e per strada incontriamo e stringiamo la mano a degli uomini particolari; ma dell'universale Triangolo o dell'universale Uomo, della Triangolarità e dell'Umanità, che dire? E' certo che non si tratti di oggetti materiali, perché nessun triangolo materiale, per quanto attentamente tracciato, avrà lati perfettamente rettilinei e senza spessore, mentre questo è proprio ciò che intendiamo pensando al Triangolo o alla Triangolarità; ogni uomo fisico sarà biondo o moro, alto o basso, mentre l'Umanità in quanto tale non si caratterizza secondo alcuna di queste alternative; infine, la pura essenza della virtù non si trova in questo mondo, in cui la perfezione non esiste e le azioni degli uomini son sempre animate da un miscuglio di impulsi nobili e meno nobili. Ma se non sono oggetti materiali, cosa sono? e se non in questo mondo, dove si trovano?” Dopo un attimo di riflessione Samantha, un'alunna della prima fila, azzarda: “Mah, sono... sono nella mente! ... sono idee” Mica male, per una principiante. Ma naturalmente, qualunque cosa lei intenda per “idea”, di certo non è ancora quel che intende Platone. Così incalzo: “Bene, ma queste idee sono nella mente in quanto è in essa e da essa che nascono, o invece esistono già prima e altrove, finché la mente le scopre, le comprende e le fa proprie? Ad esempio, la Triangolarità ha cominciato ad esistere con le riflessioni del primo geometra, od esisteva anche prima? E sarebbe esistita, se non fossero mai esistiti uomini od altre creature razionali?” “Forse no ... ” ipotizza Samantha. “Mettiamola così: - faccio io - “il teorema del quadrato della diagonale è diventato vero quando Pitagora o chi per lui ne diede la prima dimostrazione?” “No, lo era anche prima” replicano all'unisono Christian e altri due o tre. “Da quanto tempo?” “Da ... da sempre!” “Dunque, è eterno. Ma poiché esso parla della Triangolarità, non avrebbe potuto essere vero se essa non fosse esistita. Dunque, anche la Triangolarità deve essere esistita prima delle menti umane e dei triangoli materiali. Inoltre, da Socrate abbiamo appreso che pur non sapendo bene cosa siano la Virtù e la Bellezza, ci è possibile cercarle, e forse riusciremo anche a scoprirle. E non avrebbe senso parlare della Giustizia e ricercarla, anche se nessun uomo ne possedesse un'idea precisa? Dunque, gli universali esistono al di fuori della mente umana.” I ragazzi non possono che annuire, convinti, e quindi concludo: “In sintesi, gli universali non sono oggetti materiali ne', in prima istanza, idee della mente. E allora? Platone, che li chiama “idee” o “forme”, dice appunto che essi esistono in sé, in una dimensione ulteriore che non è quella fisica né quella psichica.” La cosa è abbastanza misteriosa, ma ormai nessuno dubita che sia così, e i ragazzi si sentono addirittura sollevati quando aggiungo che anche per Platone questa terza dimensione restava oscura, e proprio per indicarne la radicale alterità la collocava in una misteriosa regione situata oltre il cielo. E' fatta: se ai loro occhi l'Iperuranio assume ormai un'aria quasi familiare, il rovesciamento gestaltico dal senso comune alla sapienza filosofica è avvenuto, ed anche oggi mi sono guadagnato la giornata. Purtroppo, quasi in ogni classe c'è uno studente (talora anche più d'uno) per cui qualsiasi cosa esca dalla bocca dell'insegnante è ipso facto sospetta, e va contestata. Si tratta di individui molesti, che t'impediscono persino di riposarti sui piccoli allori quotidiani, una delle poche soddisfazioni che ancora concede la professione docente; ma in fondo, danno anche più stimolo e gusto all'insegnamento. E' così vedo sollevarsi la mano di Alex, che con tono di falsa umiltà (in effetti è di sfida sottile) “Professore, - mi fa - ma non potrebbe la mente giungere a queste idee universali partendo dalle cose materiali? In fondo, non è a partire dagli atti virtuosi che ci facciamo un'idea di virtù, anche se inizialmente vaga? E non è sempre discutendo sugli esempi particolari che via via la chiarifichiamo, proprio come faceva Socrate? E davvero c'è bisogno che il triangolo con lati perfettamente rettilinei e senza spessore esista separatamente nell'Iperuranio? Non può darsi che la mente abbia la capacità di vedere in un triangolo materiale la pura idea geometrica del triangolo, un po' come Willy il coyote mentre guarda Bip-Bip il roadrunner vi scorge già un arrosto fumante?” Allarme rosso: è un'obiezione che rischia di far crollare tutto il mio bel castello di carte metafisico, afflosciando il perfetto soufflé didattico da me servito. Ma mi considero un insegnante aperto e democratico, e d'altro canto non so reprimere tra me e me una certa soddisfatta ammirazione: sono svegli, questi ragazzi, se non hanno ancora iniziato lo studio di Platone e già mi escono con qualcosa che assomiglia assai da vicino alla teoria dell'astrazione di Aristotele. Decido così di stare al gioco, e rilancio: “Sì, ma come potrebbe la mente trovare qualcosa di non materiale nelle cose materiali, e qualcosa di perfetto nelle cose imperfette? Non solo, ma poiché nessun triangolo da noi disegnato è simile a un altro, e ogni uomo fisico è unico e diverso dagli altri, come troveremo nei particolari l'universale, ossia qualcosa di identico in tutti?” Da qualche minuto ho notato che Oscar segue la discussione con vivo interesse, e dallo sguardo e da una certa agitazione mi accorgo che sta rimuginando qualcosa. Infatti, eccolo alzare la mano: “Ma sì, - dice in risposta ai miei interrogativi - perché nello spessore dei lati di un triangolo materiale sono contenuti dei segmenti senza spessore e perfettamente rettilinei che costituiscono i lati di un vero Triangolo non materiale; nelle azioni di una persona virtuosa è presente la Virtù, per quanto frammista a motivi egoistici o meno nobili; e in ogni uomo, al di sotto dei caratteri particolari, c'è un'unica natura umana. E' come una banana, si scarta la buccia e ci resta il frutto che c'è dentro.” (Si sente qualche risatina). “Bravi, ragazzi! - mi complimento - Non è proprio come la buccia e il frutto, ma avete colto qualcosa di importante. Vedremo infatti nelle prossime lezioni che alla teoria platonica si contrappone quella aristotelica, secondo cui gli universali non stanno nell'Iperuranio, ma nelle cose stesse, di cui costituiscono la forma. Non vi sono contenute come un oggetto materiale in un altro, ma come l'essenza, la natura o le proprietà di un oggetto sono contenute in esso: la Triangolarità è appunto la forma (cioè l'essenza, la natura) dei triangoli, la virtù delle azioni virtuose, l'Umanità degli uomini, e il Rosso delle cose rosse. Ecco perché l'universale è unico e permette di applicare uno stesso nome ai molteplici particolari: è proprio quella forma o quell'insieme di caratteristiche che essi hanno in comune. L'universale esiste prima della mente, proprio perché esiste nelle cose stesse. Aristotele sostiene poi che la mente ricava le forme dalle cose astraendole, ossia separandole dalla materia in cui sono calate. Ma non corriamo troppo, e per ora torniamo al nostro Platone.” “Un momento, Professore.” Mi giro e mi accorgo con un vago senso di frustrazione che è di nuovo Alex ad impedirmi di cogliere i frutti della mia ispirata didattica. “Questo non è esattamente ciò che intendevo. Se davvero un segmento geometrico non è materiale, non vedo come possa esser contenuto in qualcosa di materiale. Vi sfido a togliere tutto lo spessore che volete e mostrarmi quando ottenete un segmento senza larghezza. E che significa che l'Umanità è nell'uomo, cioè nell'uomo in carne ed ossa? Ci sono le ossa, appunto, i muscoli, il cuore e la milza, e se togliete la pelle li vedete. Ma se togliete ossa, muscoli, ecc., cioè tutta la parte materiale, non troverete certo l'Umanità. Io non intendevo dire che la mente estrae gli universali dalle cose, ma semplicemente che prende spunto da esse per formarsi delle idee che prima non esistevano affatto, e che non possono esistere al di fuori di essa. Noi vediamo segmenti dotati di spessore e approssimativamente rettilinei, e ne traiamo spunto per immaginare segmenti perfettamente rettilinei e senza spessore. Vediamo uomini concreti e tutti diversi, e ne estrapoliamo un'idea di uomo che prescinda dai vari fattori di differenziazione. In realtà non si tratta dell'idea di un uomo (l'avete mai visto, un uomo che non abbia un certo colore di capelli, una certa statura, ecc.?), e così diciamo che è l'idea dell'Umanità. Allo stesso modo, da qualunque cosa imperfetta prendiamo spunto per formarci un'idea di perfezione, scartando quegli aspetti che però in realtà esistono. Solo così possiamo pensare a delle forme separate dalla materia: dove può esistere un'umanità senza uomini, una Virtù senza atti virtuosi o del Rosso senza cose rosse? Dove, se non nella mente?” Quella di Alex si sta ormai chiaramente rivelando una posizione di tipo concettualistico. Ma se non posso più, a questo punto, convincere la classe della validità del realismo platonico, decido almeno di tenere la linea del Piave di un moderato realismo aristotelico. Replico dunque immediatamente: “Un universale non è necessariamente qualcosa di separabile dalla materia o dai particolari concreti ed esistente ante rem, come credeva Platone. Possiamo credere all''Umanità, alla Virtù o al Rosso, e tuttavia ammettere che essi esistono esclusivamente in re, ossia nella materialità delle cose concrete a cui danno forma, proprio come diceva Oscar ... cioè, Aristotele.” “Quel che volevo dire, professore, è che fuori dalla mente non esistono affatto, nemmeno uniti alla materia, perché sono semplicemente dei pensieri: gli universali esistono solo in quanto pensati.” “Cioè, esistono solo come concetti. Certo, si tratta di una tesi legittima ed anzi illustre: fu sostenuta nell'antichità dagli Stoici, nel Medioevo da filosofi scolastici come Abelardo di Nantes, ed in seguito da altri, fino al moderno intuizionismo di Brouwer e oggi di Dummett. Nel Medioevo questa tesi fu detta appunto “concettualismo”, e “realismo” fu detta la tesi opposta, secondo cui gli universali sono qualcosa di reale e non solo di pensato. Ma di ciò parleremo più avanti, verso la fine dell'anno, e...” Qui suona la campanella, e non mi resta che rimandare la conclusione a domani. A casa rifletto che se proprio i ragazzi desiderano esercitare il loro spirito critico (dopotutto, secondo i programmi ministeriali, questo è uno degli obbiettivi didattici dell'insegnamento della filosofia) avremo modo di tornare ancora su questo problema; per ora, e proprio per rendere l'esercizio più interessante in seguito, è opportuno che imparino ad apprezzare fino in fondo la forza delle ragioni che militano in favore del realismo. Decido così di proporre alcune delle considerazioni di Bolzano, Frege e Husserl contro lo psicologismo. Da un punto di vista filologico, me ne rendo conto, si tratta di un colpo basso; ma che importa, se vale a rendere più interessante la discussione? Inoltre mi darà l'occasione per un utile richiamo quando, in quinta, riparleremo di questi autori. Così, l'indomani riprendo: “Ragazzi, ricordate la tesi di Alex secondo cui gli universali sarebbero creature del pensiero, inesistenti al di fuori della sfera mentale? Ebbene, c'è un problema. Come nessuno di noi è perfettamente uguale agli altri, così anche i nostri pensieri, sensazioni e immagini mentali. Io posso spiegarvi all'incirca la sensazione che provo, ma non potrò mai farvela provare o comunicarvela esattamente e compiutamente. Se invece sto pensando a un universale, ve lo posso comunicare con assoluta precisione, per quanto complesso o insolito possa essere. Se ad esempio ho in mente, al posto del solito triangolo, l'idea del dodecaedro regolare col lato di trentatré pollici e mezzo, posso dirvi di che si tratta, e quando l'avrò fatto voi avrete in mente esattamente lo stesso universale che avevo io. Dunque, possiamo anche sostenere che gli universali sono concetti, ma dovremo ammettere che si tratta di concetti oggettivi: si comunicano da un soggetto all'altro senza subire variazione alcuna. Dico di più: ciascuno di noi ha un modo diverso di recepire uno stesso ed identico concetto; io, ad esempio, mi posso immaginare il dodecaedro come visto da una certa distanza, piuttosto piccolo, di colore grigio, ecc.; un altro può visualizzarlo in primo piano, grande e incombente, di color rosa pallido; un altro ancora, forse, associa al suo pensiero l'immagine mentale di una pagina del manuale di geometria, ed un quarto nessuna immagine ma dei numeri o delle formule. Tutte queste differenze, però, riguardano i modi di pensare il concetto, e non il concetto stesso, che resta unico per tutti. Il pensiero con cui afferriamo il concetto è dunque un atto della nostra mente, e come tale variabile e soggettivo (Husserl lo chiamerà “noesis”); invece ciò che è pensato, il concetto propriamente detto, che Husserl chiama “noema”, è indipendente dalla sfera mentale: non appartiene né al mondo degli oggetti fisici, né a quello degli oggetti psicologici, ma appunto, come sosteneva Platone, ad un terzo mondo diverso dai primi due.” “Professore, - scatta Oscar quasi ancor prima di alzare la mano - ho letto su Focus che secondo Popper le teorie scientifiche, i libri e le opere d'arte nascono dal secondo mondo, quello dei pensieri della mente, ma una volta nati ne diventano indipendenti e costituiscono appunto il terzo mondo. Ad esempio, il concetto di numero primo è un'invenzione umana, ma quanti numeri primi vi siano tra 0 e 100 è qualcosa che non possiamo decidere noi; tant'è vero che inizialmente non lo sappiamo nemmeno, e dobbiamo compiere una piccola ricerca per scoprirlo.” “Certo, - replico - quello di Popper è uno strano compromesso tra concettualismo e realismo platonico. Ma se vale ciò che ho appena detto, resta difficile capire come entità del terzo mondo possano esser generate da entità del secondo, quali sono gli stati o gli atti della mente. Dall'espressione del viso comprendo che l'interrogante, pur non ritenendosi del tutto soddisfatto, al momento non sa bene come replicare, e non ci proverà. Chi invece non è per nulla soddisfatto, e lo dichiara immediatamente, è - di nuovo - Alex. E come non tardo a rendermi conto, anche lui nel frattempo si è documentato: “Professore, ho letto che invece secondo alcuni filosofi gli universali non sarebbero altro che segni: si tratta di Roscellino, Guglielmo di Baskerville, Berkeley ...” “Vuoi dire Guglielmo di Occam!” “Bah, non ricordo bene; ma insomma, vengono detti nominalisti, in quanto per loro non c'è nulla di comune a tutti i triangoli, a tutti gli esempi di virtù o a tutti gli uomini, se non il nome! E' semplice e geniale, e spiega proprio quella che lei ha chiamato l'oggettività dei concetti: i contenuti oggettivi degli atti mentali soggettivi, ciò che è identico per tutti anche se afferrato in modi diversi, non sono altro che nomi!” “Allora - interloquisco - avrai letto anche dell'obiezione che il concettualista Abelardo fece ai nominalisti: qualche tratto di penna sulla carta o una sequenza di suoni non costituiscono un segno, cioè un nome, se non hanno un significato. E un significato non può essere altro che un concetto, ed un concetto oggettivo, in quanto lo si deve poter comunicare. Dunque ...” “Ma secondo i nominalisti il significato di un nome è semplicemente l'insieme di tutti gli oggetti che portano quel nome: dunque, null'altro che un insieme di particolari materiali. I nomi comuni, come anche gli aggettivi e i verbi, hanno proprio questa caratteristica, di poter simboleggiare molti oggetti singoli contemporaneamente: 'triangolo' simboleggia tutti i triangoli, 'uomo' tutti gli uomini, ecc. A proposito: ho letto anche che per i nominalisti non è affatto vero che noi abbiamo idee generali, come quella di uomo o di triangolo, perché quando pensiamo a un triangolo dobbiamo per forza immaginarcelo equilatero o isoscele o scaleno, e nessuno è capace di immaginare un triangolo generico che non sia nessuno di questi tre. Guglielmo di Baskerville - insomma, di Occam - aveva poi un principio, secondo cui non si deve mai credere all'esistenza di qualcosa, specie se misterioso e invisibile come gli universali, quando se ne può fare a meno. Si chiama “il rasoio di Occam”, e possiamo servircene per radere anche la barba di Platone, cioè l'ipertrofica e parassitica fauna delle idee dell'Iperuranio: con gli oggetti particolari spieghiamo il mondo materiale, con i segni il mondo del linguaggio e della conoscenza, e non ci serve null'altro.” Non c'è che dire, Alex sa proprio il fatto suo, e penso che dovrò ricordarmene al momento delle valutazioni quadrimestrali. A dire il vero, la sua convinzione che il significato possa ridursi al riferimento è decisamente ottimistica, ma ora non posso entrare in problemi che implicano interi capitoli di filosofia del linguaggio. Inoltre, come ha mostrato Wittgenstein, il significato di un termine non deve necessariamente essere un'entità associata ad esso, ma, ad esempio, l'uso che ne facciamo. E Quine ha sostenuto che il significato coincide con la posizione del termine nella rete linguistica, e non ha senso parlare di significati se non in ambito strettamente intralinguistico. Decido perciò di introdurre un argomento che gli studenti saranno in grado di afferrare anche immediatamente. “Molto bene, è chiaro che questo problema v'interessa. Affrontiamolo pure, dunque, anche se ci costringerà ad anticipare qualcosa dal programma dei prossimi anni. E' vero, il nominalismo è una dottrina di grande attrattiva, con ottimi argomenti a suo favore; oggi, poi, pare la più in linea con le tendenze empiristiche, critiche ed antimetafisiche del pensiero contemporaneo. Anch'esso ha i suoi problemi, tuttavia. Nel Medioevo, ad esempio, un nominalista avrebbe dovuto ammettere che al nome 'Trinità' non corrisponde alcuna entità unitaria, ma solamente i tre individui particolari che sono il Padre, il Figlio e lo Spirito. Avrebbe così rischiato l'accusa di triteismo, che è quanto dire il rogo ...” “Vorrei sperare che i tempi siano cambiati!” ghigna Alex dal suo angolo, visibilmente non preoccupato da questo problema. “Certo, - rispondo - ma oggi la visione teologica del mondo è stata sostituita da quella scientifica. E su che vertono le leggi scientifiche se non su altrettanti universali, come la massa, la velocità, la carica, ecc.? Con la differenza che gli errori teologici potevano compromettere la vita eterna ma (Inquisizione permettendo) l'eretico medievale poteva almeno cavarsela come chiunque altro in questa vita. Invece, a confondersi sulle leggi scientifiche si rischiano guai anche molto seri e immediati! Ho un paio di esempi divertenti, a questo proposito. Intanto, però, osserviamo quel che ha sottolineato Bertrand Russell, ma anche i concettualisti e i nominalisti più avveduti hanno sempre ammesso: almeno un universale deve esistere, ed è la relazione di somiglianza. Se infatti sosteniamo che un certo insieme di particolari non ha in comune altro che il nome, dovremo pur distinguere tra i particolari a cui quel nome si riferisce e tutti gli altri; e per farlo c'è bisogno che essi si rassomiglino tra di loro e non con gli altri. Un uomo, ad esempio, dovrà somigliare a tutti gli altri uomini ma non a un cavallo o a un albero. Altrimenti, riferiremmo il nome 'uomo' anche ai cavalli e agli alberi, e viceversa.” Noto uno smarrimento negli occhi di Claudia, che infatti mi chiede: “Professore, ma un uomo non può somigliare a un cavallo? possono essere entrambi di buon carattere, oppure timidi e scontrosi. Oppure possono essere entrambi veloci, o lenti, e così via” “Esatto” rispondo. “Proprio come hanno sostenuto Goodman e Putnam, ogni cosa può assomigliare a qualunque altra in infiniti modi: un fungo porcino e lo Space Shuttle si assomigliano nell'essere entrambi oggetti materiali, nati sul pianeta Terra, esistenti nel XX secolo, appena nominati da me, ecc. Proprio per questo, non basta che tutti gli uomini si assomiglino così genericamente, ma in un modo ben preciso in cui non assomigliano ad altri animali o cose. Devono cioè avere in comune un quid, una proprietà, in una parola un universale. Un semplice nome, avrebbe detto Abelardo, non riesce a individuare un insieme di particolari senza riferirsi all'universale che li contraddistingue. Ed eccoci al primo degli esempi di cui parlavo. La scienza, come sapete, si basa sull'induzione: se osservo una serie di smeraldi e noto che ciascuno di essi è verde, ne posso trarre una semplice legge scientifica: tutti gli smeraldi sono verdi. Nelson Goodman, tuttavia, ha proposto di introdurre un nuovo aggettivo, verlù, così definito: verlù è qualunque cosa che sia osservata entro il Duemila d.C. e verde, oppure non osservata entro tale data e blu. Tornando quindi agli smeraldi da me osservati, si constata immediatamente che essi rispondono tutti alla definizione di verlù, in quanto osservati prima del Duemila e verdi. Pertanto, proprio come prima avevo generalizzato concludendo che tutti gli smeraldi sono verdi, ora posso generalizzare concludendo che tutti gli smeraldi sono verlù. Qui però sorge un problema: la legge secondo cui tutti gli smeraldi sono verdi e quella secondo cui tutti gli smeraldi son verlù sembrano ricavate in modo ugualmente legittimo, ma sono reciprocamente incompatibili: se infatti tutti gli smeraldi sono verdi, anche quelli non osservati entro il Duemila lo sono, mentre se tutti gli smeraldi sono verlù quelli non osservati entro il duemila sono blu. In altre parole, per quanti smeraldi verdi io osservi entro una certa data, non potrò mai sapere se anche quelli che osserverò in seguito o che non osserverò mai siano verdi, oppure blu, o magari di qualche altro colore. Ora, voi capite che non solo per i colori, ma per qualsiasi proprietà si possono introdurre aggettivi del tipo di verlù; e ciò significa che viene meno la possibilità di fare previsioni di qualunque tipo, di programmare la nostra vita in base all'esperienza, e di realizzare applicazioni tecnologiche di qualsiasi genere. Chi può dire che da domani la terra non cesserà di ruotare su sé stessa, o il pane non diventerà tossico per l'organismo, o la carrozzeria della mia auto non si scioglierà al calore del sole?” Ora sono diverse le mani che vedo alzarsi, accompagnate da espressioni che svariano tra l'incredulo e il deluso. “Professore,” dice Claudio “ma questo Goodman era forse uno di quei sofisti che, come ci ha appena spiegato, si piccavano di saper dimostrare tutto e il contrario di tutto?” E Samantha: “Ma non c'è nulla di verlù ... cioè, forse sì, ma verlù non è un vero aggettivo.” E Wolf, quasi completando il ragionamento: “Secondo me non vale, perché una cosa dev'essere una e basta. Non si può essere qualcosa e qualcos'altro insieme.” Ora che li ho lasciati sbollire ed hanno espresso tutta l'indignazione per la bassa lega del mio sofisma (o così essi credono), posso riprendere la parola: “Bene; a parte che Goodman non è un sofista, ma un filosofo vivo e vegeto ai nostri giorni, è chiaro quel che volete dire: il verde è una proprietà, mentre il verlù è un complesso, anche abbastanza astruso, di due proprietà. O se vogliamo rimanere nei limiti del nominalismo di Alex, diciamo che 'verde' è un termine semplice e primitivo, mentre 'verlù' è un termine complesso e definito a partire da altri due termini ('verde' e 'blu'); quindi, le inferenze induttive compiute utilizzando termini semplici e primitivi sono legittime e ci danno autentiche leggi scientifiche, mentre quelle che utilizzano termini complessi e definiti, come 'verlù', sono spurie, e non conducono ad alcuna conclusione accettabile. Però, c'è un però: ed è che l'esser semplice o complesso, primitivo o definito, sono proprietà relative a un linguaggio. Immaginiamo una tribù, dice Goodman, nel cui linguaggio non esistano affatto i termini 'verde' e 'blu', mentre esistono 'verlù' e 'blerde' (un termine, quest'ultimo, indicante cose osservate entro il Duemila e blu oppure non osservate entro quella data e verdi). Ebbene, se volessimo spiegare ai membri della tribù il significato del nostro termine 'verde', dovremmo dire che esso indica tutte le cose osservate prima del Duemila e verlù, o non osservate prima di allora e blerdi. Di 'blu', poi, dovremmo dire che significa osservato entro il Duemila e blerde, o non osservato e verlù. Ma allora, essi potrebbero osservare che 'verde' e 'blu' sono termini complessi, definiti sulla base di 'blerde' e 'verlù'; dal loro punto di vista, pertanto, sarebbero le generalizzazioni induttive sul verde e sul blu a risultare illeggittime, mentre quelle sul verlù e sul blerde sarebbero del tutto corrette.” Direi che i miei interlocutori siano rimasti abbastanza colpiti; ma quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: in realtà, immaginavo che Alex non avrebbe lasciato cadere questa sfida, ed infatti: “Ma professore, che importa cosa pensano gli indigeni dei nostri termini o dei loro? Chiunque può fabbricare nomi a volontà, e con essi definire altri nomi; ma il fatto è che il verde, il colore verde, è una proprietà, un colore semplice, mentre il verlù e il blerde non sono dei colori, ma insiemi di colori diversi; a parte questo, ciascuno può poi chiamarli come meglio crede!” “Beh, sorvolo sul fatto che mi stai chiedendo di disinteressarmi dei nomi, per occuparmi invece di proprietà, cioè di universali: per un nominalista come te, non c'è male! Ma a parte questo, non sei tu a giocare coi nomi? In base a che cosa sostieni che la proprietà verde è semplice, se non al fatto che il termine 'verde' lo è nel nostro linguaggio? E non potrebbe un indigeno dire lo stesso del verlù?” “No, non è affatto per questo. Immagini di voler costruire un apparato in grado di rilevare la presenza di oggetti verdi: di cosa avrà bisogno? semplicemente di un misuratore di lunghezze d'onda e di un segnalatore (un campanello o una spia luminosa, ad esempio) che entri in funzione quando l'apparato viene colpito da radiazioni della lunghezza d'onda del verde. Se invece volesse costruire un rilevatore di verlù, le occorrerebbero, oltre al segnalatore e al misuratore di lunghezze d'onda, anche un calendario e un computer programmato per azionare il segnalatore in corrispondenza di una lunghezza d'onda fino a una certa data, e di un'altra lunghezza dopo quella data. Si tratterebbe dunque di un meccanismo più complesso, e questo proprio perché la proprietà da rilevare è più complessa.” “Capisco benissimo. Anzi, direi che non c'è affatto bisogno di costruire un simile apparato per la rilevazione del verde, perché già ne possediamo uno ottimo: è il sistema nervoso umano, che quando viene colpito da radiazioni della giusta lunghezza d'onda ci avvisa producendo in noi (nessuno sa ancora come) la caratteristica sensazione cromatica del verde. Ma il problema è: chi ci dice che esso non sia in realtà un rilevatore del verlù, ossia che a partire dal Duemila non inizierà a produrre in noi la stessa sensazione quando colpito da radiazioni di una diversa lunghezza d'onda (ad esempio, quella del blu)?” “Al momento forse nulla; ma una volta giunto il Duemila (non è poi così lontano, dopo tutto) basterà misurare le lunghezze d'onda per rendersene conto. E comunque, dato che un oggetto, uno smeraldo ad esempio, emette sempre la stessa lunghezza d'onda, se gli smeraldi continueranno ad apparirci verdi non avremo motivi per supporre che il sistema nervoso abbia cambiato il suo modo di reagire ai colori. Se invece tutt'a un tratto gli smeraldi ci apparissero blu, significherebbe che il sistema nervoso reagisce in modo nuovo, ossia che era realmente un rilevatore di verlù e non di verde.” “Davvero? e non potrebbe darsi invece che gli smeraldi fossero realmente verlù, e quindi ci apparissero blu non per una diversa reazione del sistema nervoso ma perché ormai “divenuti” blu dopo il Duemila? (In realtà essi non avrebbero mutato colore, ma il nostro sistema nervoso, essendo un rilevatore di verde, ossia di uno pseudo-colore, ce li mostrerebbe mutati). Viceversa, anche se continuassero ad apparirci verdi, potrebbe darsi che fossero verlù (e quindi ormai blu) e che il sistema nervoso, essendo un rilevatore di verlù, reagisse agli oggetti blu dopo il Duemila producendo in noi la stessa sensazione che prima produceva di fronte agli oggetti verdi. O magari, quelle pietre potrebbero non essere affatto smeraldi, ma smeriri ossia smeraldi prima del Duemila e zaffiri dopo ... Quanto poi al misurare le lunghezze d'onda, per farlo ci servirebbe un apposito apparato: e non potrebbe anch'esso, a nostra insaputa, funzionare in modi diversi prima e dopo il Duemila?” Si vede chiaramente che Alex sta ormai stancandosi del gioco. Eppure trova la voglia di replicare ancora una volta, se non altro per puntiglio: “D'accordo, ma se davvero il sistema nervoso fosse un rilevatore di verlù potremmo scoprirlo sezionandolo ed esaminandolo attentamente: proprio come un congegno fisico, infatti, anch'esso dovrebbe contenere un calendario o qualcosa di equivalente. Certo, oggi non sappiamo nemmeno esattamente come esso rilevi il verde, figuriamoci il verlù; ma in linea di principio ...” “La familiarità con cui tratti le questioni di principio depone assai bene sulle tue attitudini filosofiche; comunque capisco: in linea di principio, tu dici, dovremmo esser in grado di notare un'imprevista complessità del sistema. Ma ciò vale solo se davvero il verlù fosse una proprietà complessa, perché in caso contrario un rilevatore di verlù sarebbe più semplice di un rilevatore di verde. Ma a parte questo, senti cosa ha obiettato Hilary Putnam: si può definire una nuova proprietà, quella di rilevare* , consistente in questo: si rileva* del verlù tutte le volte che si rileva del verde, e viceversa. Un attimo di riflessione ci mostra allora che un rilevatore di verde è più semplice di un rilevatore di verlù, ma un rilevatore* di verlù è più semplice di un rilevatore* dil verde. Mi replicherai che questo accade solo perché la stessa proprietà di rilevare* è complessa: essa consiste, ad esempio, nel far suonare un campanello in presenza di una certa lunghezza d'onda prima del Duemila e di un'altra dopo. Tuttavia, potremmo anche definire la proprietà di far suonare* come quella di far suonare prima del Duemila e non far suonare dopo il Duemila, e così via di questo passo, introducendo per ogni proprietà un corrispettivo con asterisco, in modo da parare una dopo l'altra tutte le tue prevedibili obiezioni.” “Ma sarebbe banalmente circolare!” “Forse; ma attento alla morale di questa storia: non è solo la semplicità o complessità dei termini ad esser relativa ai termini con cui li definiamo; anche la semplicità o complessità delle proprietà si misura solo per mezzo delle loro relazioni con altre proprietà. Se guardiamo a un intero sistema di proprietà “normali” e ad uno di proprietà asteriscate, non è possibile, semplicemente in base alle relazioni interne a ciascun sistema, stabilire se le une siano più semplici delle altre. Del resto, ragazzi, quello di Goodman non è l'unico esempio del genere. Un ambiguo filosofo di nome Kripgenstein ha osservato che quando impariamo l'addizione lo facciamo in base ad esempi: il maestro ci spiega che 1+1=2, 2+1=3, ecc. Dopo un po' siamo in grado di procedere per conto nostro; ma chi ci assicura che da un certo punto in avanti il nostro modo di procedere non divergerà da quello dei compagni? Per esempio, supponiamo che a nessuno sia mai capitato di eseguire un'addizione con addendi uguali o superiori a 12.345.678.987.654.321. Ebbene, se interrogati su quale sia il valore dell'addizione 12.345.678.987.654.321+1, alcuni di noi probabilmente risponderebbero “12.345.678.987.654.322”; ma perché qualcun altro non dovrebbe rispondere, poniamo, “5”? Dopotutto, la prima risposta non è contenuta negli esempi da cui tutti abbiamo imparato l'addizione più di quanto non lo sia la seconda.” Quando ho introdotto il nuovo argomento, la classe aveva ormai cessato di seguirmi. Perfino in Alex pareva stesse riprendendo il sopravvento quel sano senso pratico che rende molti costituzionalmente refrattari a qualunque ragionamento astrattivo, e che ormai li aveva pervicacemente convinti che i miei non erano altro che vacui esercizi dialettici. Ma ora la stessa apparente facilità del problema fa tornar la voglia di rispondermi, e così sono diversi a intervenire, contemporaneamente: “Ma questo non sarebbe più una somma!” “Perché uno dovrebbe cambiare tutt'a un tratto modo di procedere?” “Addizionare significa compiere sempre la stessa operazione: per esempio, addizionare 1 significa aggiungere 1; addizionare 2 significa aggiungere 2; e così via.” “Bene, ragazzi, bene: se mi state dicendo che sommare significa addizionare, e addizionare significa aggiungere, sono d'accordo con voi. Ammetterò perfino che aggiungere significa sommare! Ma così abbiamo fatto qualche passo avanti? Mi dite anche che per addizionare si dovrebbe fare sempre la stessa cosa; ma fare 2+2=4 è una cosa, e fare 5+5=10 è già una cosa diversa! In realtà volete dire che per addizionare si dovrebbe applicare sempre la stessa funzione, continuare la stessa serie? Bene, ma chi mi dice che la funzione che ho appreso sui banchi di scuola sia quella che corrisponde alla serie (1) 1+1=2, 2+1=3, 3+1=4, ... 12.345.678.987.654.321+1= 12.345.678.987.654.322, piuttosto che alla serie (2) 1+1=2, 2+1=3,3+1=4, ... 12.345.678.987.654.321+1= 5? Dopo tutto, entrambe le serie hanno in comune gli stessi esempi iniziali, e dunque quegli esempi non ci permettono di classificare l'una o l'altra come scorretta.” “Ma la (2) è una serie casuale, e non una vera funzione matematica!” riprende Samantha. “Già, ma con che argomenti potresti sostenerlo? Se dici che non è un'addizione commetti una petitio principii, presupponendo quanto dovresti dimostrare; non puoi sostenere che una somma come l'ultima della (2) non ha mai avuto un valore simile, perché per ipotesi una tale somma non era mai stata calcolata; e se intendi dire che non si è mai calcolato in quel modo, ti sfido a mostrarmi quale sia il modo corretto, senza ricorrere agli esempi passati e senza far uso di termini come 'aggiungere', addizionare', ecc. Per dire che la serie (2) non rappresenta una vera funzione, in sostanza, non abbiamo più motivi di quanti ne avessimo poc'anzi per affermare che il verlù non è un vero colore.” “D'accordo, sono entrambe serie o funzioni; - (è lo spirito filosofico di Alex che torna a farsi sotto, finalmente) - tuttavia non v'è dubbio che siano qualcosa di ben diverso: la (1) rappresenta quello che normalmente chiamiamo “addizione”, contrassegnata dal simbolo '+' ('più'); la (2) rappresenta invece un'altra funzione, a cui potremmo assegnare un altro nome (diciamo 'chiaddizione') e un altro simbolo, diciamo '+*' ('chiù'). Pertanto, diremo che 12.345.678.987.654.322 è il corretto risultato dell'addizione 12.345.678.987.654.321+1, mentre 5 è il corretto risultato della chiaddizione 12.345.678.987.654.321+*1.” “Benissimo, è ciò che dice anche Kripgenstein; ma resta il problema se quella che ciascuno di noi ha appreso da bambino e da allora ha sempre applicato sia l'addizione o la chiaddizione. E soprattutto, di quale sia la funzione giusta, nel senso di quella che la natura applica. Nel progettare gli aerei, gli ingegneri calcolano la potenza complessiva addizionando i valori della potenza dei singoli motori, e finora le cose sono sempre andate per il meglio. Ma supponiamo che un bel giorno gli addendi siano tali che il valore della loro addizione differisca da quello della loro chiaddizione: quale valore si dovrà scegliere? In altri termini, quale risulterà in effetti la potenza totale dell'aereo, quella ottenuta addizionando o quella ottenuta chiaddizionanando? A rispondere in modo sbagliato si rischiano guai seri; ma affermare che finora la natura ha sempre usato l'addizione, e quindi continuerà a farlo, è come affermare che tutti gli smeraldi osservati finora sono verdi, e quindi continueranno ad esserlo. Si dice che per la proverbiale distrazione dei geni Einstein sbagliasse spesso nel fare i conti della spesa; ma di certo non ha sbagliato il calcolo dell'equivalenza tra massa ed energia, o delle trasformazioni relativistiche! Eppure il paradosso di Kripgenstein, come quello di Goodman, implica la possibilità di errori sistematici e diffusi in ogni campo. Senza risolvere questi paradossi non possiamo spiegare ne' l'impressionante successo della scienza contemporanea, ne' il più famigliare ma non meno importante successo delle nostre quotidiane strategie d'interazione col mondo. Mi rendo conto che continuate a credere che questi siano sofismi, e non vi sfiora il benché minimo dubbio che gli smeraldi possano mai dimostrarsi verlù, o che la natura possa mai mettersi a chiaddizionare. Scommetto anzi che proprio ora state pensando più o meno così: “Non importa se non sappiamo come dimostrarlo, ma è chiaro che il verde è un colore e l'addizione è una funzione, mentre il verlù e la chiaddizione non lo sono.” E' questo che pensate, o no?” (Il silenzio che segue mi indica che ho colto nel segno, e che la risposta è talmente ovvia da non meritare una formulazione esplicita). “Bene, ragazzi, è proprio qui che vi voglio. Se siete convinti di questo, è perché siete convinti che vi sia qualcosa di comune a tutte le cose verdi, mentre non v'è nulla di analogo per tutte le cose verlù, e che esista un modo in cui tutti gli esempi di addizione si somiglino, mentre non ne esiste uno per tutti gli esempi di chiaddizione. In altri termini, perché dentro di voi siete convinti che esistano gli universali, a dispetto delle obiezioni di Alex e di tutti i nominalisti prima di lui. Se effettivamente esistessero solo dei particolari, senza nulla in comune, non farebbe alcuna differenza il classificare insieme tutte le cose verdi, oppure quelle verdi prima del Duemila e quelle blu dopo, o magari quelle gialle, purché stiano sotto il mio tavolo: ogni modo di proseguire il segmento iniziale di una serie varrebbe quanto qualsiasi altro. Se tutto ciò che dei particolari possono avere in comune fossero i nomi, il verde non avrebbe alcun vantaggio sul verlù, e l'addizione sulla chiaddizione: ogni classe di particolari varrebbe come ogni altra, ed a ciascuna si potrebbe associare un nome; e d'altra parte, ogni nome può far parte di un sistema di termini coerente nel quale figura come semplice e indefinito. Se invece si ammettono gli universali, possiamo sostenere che non tutti i nomi o le classificazioni si equivalgono: ad alcuni nomi e classi corrisponde un singolo universale, come il colore verde o la funzione dell'addizione; invece a nomi come 'verlù' non corrisponde alcun universale. A tali nomi si può certamente associare una classe di particolari, ma essa è in realtà l'unione di due o più classi, individuate per mezzo di altrettanti universali diversi. Sul paradosso di Goodman si discute ormai da una cinquantina d'anni, e su quello di Kripgenstein da poco meno; ebbene, se una cosa hanno chiarito tutti questi dibattiti, è che senza gli universali entrambi i paradossi restano inattaccabili, nella loro scandalosa incompatibilità con l'insegnamento del buonsenso e con le verità della scienza. Gli universali sono dunque degli indispensabili compagni della nostra vita, che possiamo permetterci di ignorare solo perché li abbiamo sempre con noi. Eliminarli non significherebbe solo far cadere con un goliardico colpo di rasoio la vetusta e venerabile barba di Platone, ma trasformare i divertenti lapsus di Einstein in una inimmaginabile condizione di paralisi teoretica e pratica per ogni essere razionale.” Per oggi ho finito, e infatti suona la campana. Non c'è eco alle mie ultime parole: Alex, assorto, sta processando l'ultima parte del discorso, e domani forse ne avremo qualche output. Il resto della classe non è ben certo se io li abbia definitivamente irretiti nelle spire della mia eristica, o condotti alla scoperta di una verità nuova ed importante. Quel che è certo, e che per loro costituisce già un sufficiente motivo di soddisfazione, è che anche per oggi non ho proceduto col programma o assegnato lezioni per casa. Ma a questo posso provvedere al volo: “A proposito, ragazzi, sapete chi è Kripgenstein? Ve lo do come ricerca per casa. Per aiutarvi, dirò che non è morto né vivente, ma come il gatto di Schrödinger, mezzo e mezzo.” NOTE 1 Alex e gli altri sono reali, fino a un certo punto. O forse dovrei dire surreali, in quanto a loro ho attribuito anche obiezioni avanzate da studenti di altre classi o in altri anni. 2 Per i colleghi di filosofia: se nelle vostre classi volete impostare un percorso didattico del genere, ma non avete studenti come questi, le obiezioni dovrete provvedere a farvele da soli. INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Pubblicato su "IL LICEO E LA CITTA'. Cinquantenario 1944-45/1994-95" annuario del
Liceo Scientifico Statale "A. Righi", a cura di P. Palmieri, Stilgraf, Cesena, 1995, pp. 271-289. |
Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"