Civiltà Laica - Le religioni e la violenza

STORIA DELLE RELIGIONI


Civiltà Laica - Le religioni e la violenza

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Le religioni e la violenza

Sabato, 10 Dicembre 2011, si è tenuto, a Terni, l’incontro del Gruppo di studio di "Civiltà Laica" sul tema: "Le religioni e la violenza".

Relatori dell’incontro sono stati:

  • Maurizio Magnani, che ha coordinato l’iniziativa ed ha svolto la "Relazione introduttiva";
  • Marcello Ricci: "Il problema della tolleranza";
  • Maurizio Magnani: "Le religioni abramitiche e la violenza";
  • Eraldo Giulianelli: "Perché il Cattolicesimo è un integralismo fondamentalista";
  • Alessandro Chiometti: "La famigerata propensione al dialogo dei Cattolici".

RELAZIONE INTRODUTTIVA

Maurizio Magnani

1) Scrive Chris Hedges nel suo libro Il fascino oscuro della guerra [1], lui che, da giornalista inviato di guerra in svariati punti caldi del pianeta, è stato picchiato, torturato e segregato, ha udito esplodere migliaia di granate e colpi di arma da fuoco ed ha assistito all’uccisione di molta gente, tra dolore e sofferenze di ogni genere:

"La guerra spaventa, terrorizza ma al contempo attrae, poiché possiede una sua cultura, un suo irresistibile fascino oscuro; attrae i sanguinari, i sadici, i violenti ma attrae anche moltissimi mediocri, perché offre loro l’opportunità di migliorare il rango sociale, di sentirsi importanti, di uscire dall’anonimato, di sperimentare sentimenti di potenza, di superiorità, con un fucile in mano, potendo perfino disporre della vita di qualcuno.

La guerra mette a nudo il potenziale di malvagità umana ma fa emergere anche manifestazioni di solidarietà profonda, di intensa collaborazione, di amicizia autentica e consente di sperimentare sentimenti forti e genuini.

Inoltre, in guerra si combatte e si fugge, e non c’è spazio per la depressione; in guerra il suicido è rarissimo: la disperazione aiuta a vivere, l’odio aiuta a vivere.

In tempo di guerra, numerosi privilegi scompaiono, i parassiti e i vigliacchi vengono smascherati, tutto sembra diventare più semplice, scorrevole, e pare che la giustizia e l’equità trionfino, che la vita sociale, seppur scombussolata, riacquisti un senso, un ordine, uno scopo. Per quello scopo si sopportano anche il sacrificio e il patimento.

In guerra, anche in quelle guerre combattute internamente contro fazioni politiche e religiose avversarie, si rivivono i forti vincoli propri dei gruppi ancestrali, l’ubbidienza a uno o pochi capi, e il pensiero autocritico è soppresso, mentre vengono euforicamente esaltate, sublimate, nobilitate le proprie azioni, ancorché sanguinarie e crudeli, atte a raggiungere le finalità prefissate, politiche o religiose che siano."

Le parole di Hedges riecheggiano quelle di Eraclito sulla "guerra come padre della vita", ma esse non sono un’apologia della guerra, tutt’altro; d’altronde chi ritenesse che la violenza non è consustanziale all’animo umano (pensiamo a J. J. Rousseau) rifletta sui miliardi (secondo il calcolo di qualche storico) di uomini e donne morti sui campi di battaglia, nelle carneficine e nei massacri che hanno insanguinato ogni zolla di terra di ogni continente, testimoniati sin da quando il primo cronista iniziò a redigere un diario sugli avvenimenti storici.

La violenza dei popoli si nutre di miti, miti della propria grandezza e dell’altrui nefandezza, miti elaborati dal "Potere", che fomenta odio e avversione, seguendo logiche di mantenimento e accrescimento del dominio, logiche tutto sommato semplici, dacché non vi è nulla di più congeniale agli apparati di potere di indirizzare l’insoddisfazione delle masse e la loro rabbia verso un nemico esterno che funga da capro espiatorio, capace di catalizzare l’aggressività al di fuori della comunità. E funziona sempre!

La demonizzazione dell’avversario e l’autoesaltazione di se stessi, che la propaganda di guerra persegue, acceca le folle, le infiamma e le compatta intorno al condottiero, alla guida (Führer, in tedesco).

Perché i miti, che alimentano le guerre, falliscono raramente nella loro funzione? Perché vengono così facilmente recepiti, accettati, ascoltati? Perché, risponde E. O. James [2], essi attribuiscono significato e senso al caos, offrono giustificazione alla violenza, ammantano e glorificano le proprie azioni e i propri operati, anche i più insensibili e nefasti, mascherano l’impotenza, celebrano il destino supremo della propria etnia o gruppo politico o religioso, rinforzano i sentimenti di identità, impediscono il dialogo e ogni ricerca di compromesso con l’indegno avversario.

I miti manipolano la verità, nascondono la menzogna, trasmutano il volto della violenza, che da orripilante si fa ideale eroico. Nelle guerre, ogni genere di guerra, la regressione culturale asseconda quella civile: inni, scritti, opere d’arte, musica sono usualmente monocordi nella celebrazione degli ideali, degli obiettivi, delle idee e degli slogan partoriti dai miti.

La primordialità e rudezza dei sentimenti, la essenzialità dei comportamenti ottengono una (provvisoria) rivincita sulla sensibilità dell’animo e la raffinatezza del pensiero della civiltà avanzata, cosicché la poesia, l’arte e la letteratura dialoganti, critiche, aperte al confronto e alla considerazione dell’altro, vengono mortificate, perseguitate, represse, accusate di viltà e perfino di tradimento.

2) Ho dato rilievo al ruolo dei miti nelle guerre, non soltanto perché esso è realmente essenziale, ma anche perché esso è congeniale all’argomento oggetto del nostro incontro di studio: le religioni e la violenza.

Infatti, è fuor di dubbio che i miti siano stati e siano, in buona parte, nutriti e custoditi dalle autorità religiose di ogni tempo e luogo, talché, se proprio non si vuole dire che le religioni siano state e siano causa diretta di odio e di guerra, quanto meno si può sostenere che religione e sacralità sono connaturate alla violenza, come ben ha argomentato René Girard nel suo saggio: La violenza e il sacro [3] .

Nei miti di creazione e di fondazione, come l’Enuma Elish babilonese, che tanto ha influenzato la Bibbia giudaica, vi è sempre uno scontro titanico e battaglie favolose tra gli eroi e gli dei del bene e dell’ordine contro quelli del male e del caos.

Marduk uccide Tiamat, il principio femminile delle acque e degli oceani, una Grande Madre che racchiude nel grembo mostri e draghi; il dio Baal sconfigge il drago Yam; il grande dio egizio Ra batte e abbatte ripetutamente il mostro Apophis; Giove uccide Chronos, che aveva ucciso Urano; i mostruosi Titani, come Medusa dai capelli di serpe, devono essere annientati da eroi misericordiosi come Perseo. Anche nel nostrano mito di fondazione di Roma, il pio Romolo uccide il fratello Remo.

Agli dei ed agli eroi dei miti di creazione e di fondazione, intrinsecamente religiosi e portatori di sacralità, ci si è sempre richiamati come modelli ideali di sacrificio per il destino luminoso dei popoli e delle etnie.

In apparenza, le tre religioni abramitiche sembrerebbero fuori dal discorso, che collega miti di creazione ed esaltazione della violenza, ma così non è: non soltanto perché il dio di Abramo era, in origine, un dio orientale, che partecipò alla cacciata delle forze oscure del cielo (come ben conferma il termine Jahveh Sabaoth, Signore degli eserciti) insieme al gran padre El ed al pantheon degli dei semiti (naturalmente, ci si guarda bene dall’insegnarlo nei catechismi delle tre religioni), ma ancor più perché i tre monoteismi sono portatori dei miti escatologici, prolifici e intensi generatori di violenza.

Infatti, Ebraismo, Cristianesimo ed Islam racchiudono la esplosiva miscela di dualismo tra bene e male (la lotta contro il male demoniaco deve essere inesorabile, totale e senza tregua), destino escatologico (il divenire è palingenesi, è ritorno alla condizione di beatitudine, di alleanza col Dio, ma alla condizione di sacrificio e della battaglia apocalittica contro il male e i nemici di Dio), ecumenismo (tutto il mondo dovrebbe e dovrà credere nell’unico e vero Dio) e messianismo ( la guida va seguita acriticamente e obbedita con fede, poiché conduce a una meta straordinaria e/o ha incarico sovrannaturale).

A ben guardare, dualismo, escatologia, messianismo e anche progetto ecumenico hanno intriso i miti nazisti e fascisti e non hanno risparmiato nemmeno lo Stalinismo ed i programmi di tiranni e dittatori sanguinari moderni.

Più e più volte ho udito i Cristiani opporsi all’accusa che la loro religione condividesse con gli altri monoteismi la passione per la violenza, ma, nei suoi libri, lo storico K. H. Deschner testimonia con inesorabile puntualità, e certamente non solo ma in affollata compagnia, quanto la storia della religione cristiana sia stata storia di persecuzioni, assassini, roghi, massacri ed orrendi crimini perpetrati verso eretici, atei, Ebrei e chiunque non si proclamasse di quella confessione.

Ne dirò più dettagliatamente nella mia relazione: "Le religioni abramitiche e la guerra".

NOTE

[1] Hedges Chris, Il fascino oscuro della guerra, Edizioni Laterza, Bari.

[2] James, E.O., Gli eroi del mito, Il Saggiatore, 1996.

[3] Girard René, La violenza e il sacro, Edizioni Adelphi, Milano.


IL PROBLEMA DELLA TOLLERANZA

Marcello Ricci

I

Anche oggi, come in altre epoche storiche, si pone il problema della tolleranza a causa della presenza di intolleranze di vari tipi: religiose, politiche, ideologiche, razziali, etniche, culturali. Anche oggi la tolleranza è sottoposta a molteplici attacchi da parte degli intolleranti e dei fanatici di ogni tipo. Perciò è il caso di fare un po’ il punto della situazione.

Ci sono coloro che ritengono la tolleranza pericolosa quando assoluta, quando cioè ammette la tolleranza anche verso gli intolleranti e questo con la motivazione che il tollerare gli intolleranti potrebbe permettere a questi ultimi di prevalere e creare così una società nella quale scomparirebbe ogni tipo di libertà di coscienza e di democrazia.

Ci sono poi coloro che rifiutano il termine stesso di tolleranza in quanto sinonimo di sopportazione, non perché siano intolleranti ma, al contrario, perché la ritengono basata sul pregiudizio tipico di chi, pur essendo convinto di possedere la verità, sostiene che bisogna sopportare benevolmente chi sbaglia.

Ci sono, infine, coloro che interpretano la tolleranza alla luce della convinzione che esiste una pluralità di verità e che tutti hanno diritto a esprimerle liberamente secondo coscienza.

Quindi, nessuno deve sopportare alcuno, ma tutti devono vivere la tolleranza come riconoscimento del diritto di ognuno alla libertà di coscienza e di espressione; questa è l’acquisizione fondamentale a cui si arrivati oggi, almeno dal punto di vista teorico, dopo secoli di lotte per la libertà.

Molteplici sono i motivi che spingono a favore di questa concezione della tolleranza: dal punto di vista etico essa è doverosa, perché, se si rivendica il rispetto per le proprie opinioni, questo stesso rispetto va riconosciuto alle convinzioni degli altri.

Dal punto di vista teoretico, è logicamente derivante dalla ammissione dell’esistenza di una pluralità di verità (relativismo), che, come tali, devono accettarsi a vicenda.

Dal punto di vista pratico, si presenta come un metodo di convivenza sociale utile e politicamente efficace, perché, rifiutando ogni forma di violenza, permette l’affermarsi e il consolidarsi della democrazia.

A questo punto, va affrontato un nodo teoretico che il problema della tolleranza si porta appresso e dal quale non è facile uscire: la tolleranza deve essere assoluta o relativa? Più precisamente: si devono tollerare gli intolleranti?

La logica vuole che, per coerenza, occorrerebbe tollerare anche i fanatici e gli intolleranti, altrimenti si cadrebbe in una contraddizione: se non si tollerano gli intolleranti, si diventa a propria volta intolleranti.

Ma, facendo prevalere il valore della coerenza, si rischia di far vincere gli intolleranti e, quindi, mettere a repentaglio libertà, tolleranza e democrazia.

E' per questo motivo che molti pensano che non si debba tollerare gli intolleranti, meglio una contraddizione logica che una società fondata sull’intolleranza.

E' questa ad esempio la posizione del filosofo John Locke, che, nella società inglese della seconda metà del Seicento, affermava non doversi tollerare i Cattolici papisti, perché una volta al potere non avrebbero tollerato le altre religioni.

Lo stesso problema, cioè se tollerare gli intolleranti, si presenta continuamente anche oggi, ad esempio lo storico Irving, negazionista dei campi di concentramento, viene messo in carcere per impedirgli di divulgare le sue idee, pericolose perché potrebbero fare proseliti: giusto o va contro la libertà di espressione come diritto di ogni individuo?

Come si vede la scelta tra queste due posizioni non è facile e sicuramente va lasciata alla coscienza di ciascuno.

Comunque, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, consapevole del problema, si rese conto che i diritti in essa affermati potevano essere usati dagli intolleranti contro questi stessi diritti, come dimostra ad esempio la posizione oggi di alcuni integralisti islamici, i quali affermano:

"Vi conquisteremo con le vostre leggi e vi domineremo con le nostre", per questo motivo ci dà una precisa indicazione nell’articolo 30:

"Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati".

In altre parole non si possono usare libertà e diritti per poi negarli.

Per impedire questo, non si devono tollerare gli intolleranti.

II

LA NASCITA DEL PROBLEMA DELLA TOLLERANZA NEL CINQUE-SEICENTO

Storicamente il problema della tolleranza si pose a partire dalla Riforma Protestante, quando l’unità religiosa del mondo cristiano si spezzò e il potere politico si trovò a doversi confrontare con sudditi che aderivano ad una pluralità di credi differenti.

La tolleranza dunque venne a porsi con grande urgenza come problema non solo teologico-religioso ma anche politico e giuridico.

In questa situazione l’Europa visse tra Cinquecento e Seicento un periodo di forte instabilità e di guerre di religione e si assistette al trionfo dell’intolleranza.

Vi era infatti diffusa sia tra i cattolici che tra i protestanti la convinzione che la fede fosse la condizione necessaria per la salvezza dell’anima e che essa fosse incarnata in un complesso di dottrine dogmatiche (ortodossia) e in una organizzazione ecclesiale esclusiva, che dovessero valere in modo assoluto come verità.

Se questa era la premessa, risulta chiaro come l’errore dovesse essere perciò perseguitato con tutti i mezzi, anche con la forza, se si volevano salvare le anime. In tale situazione cominciarono a levarsi, seppur isolatamente, voci e movimenti a favore della tolleranza religiosa.

Le spinte provenivano da vari fattori: quello teologico-religioso, quello politico, quello culturale, quello economico. E' proprio nell’ambito teologico e religioso che nacquero idee a favore della tolleranza.

In campo cattolico, cominciarono a diffondersi le posizioni umanistiche di Erasmo da Rotterdam, che ponevano il valore del Vangelo e della carità al di sopra della ortodossia dogmatica, mettendo l’accento sulla libera scelta della coscienza in fatto di religione.

In campo protestante, si svilupparono, sotto la spinta del principio luterano del libero esame dei testi sacri, tutta una serie di sette che rinunciavano al fanatismo dottrinale per sostenere forme chiare di tolleranza.

Ad esempio i cosiddetti Sociniani (dai fratelli Fausto e Lelio Socini da Siena) che a livello dottrinale si distaccavano sia dai cattolici che dai luterani, poiché negavano la Trinità, il peccato originale, la predestinazione e la mediazione della Chiesa tra uomo e Dio, e sostenevano nel loro catechismo del 1605 la tolleranza tra i loro principi fondamentali.

Essa, per i Sociniani, era il frutto del ricorso alla ragione critica per interpretare la Bibbia e della convinzione della preminenza dell’etica sulla dogmatica, cioè della idea che l’essenza del cristianesimo si trovasse non in una serie di dogmi, ma nel messaggio evangelico dell’amore e della carità, messaggio che, a loro avviso, concordava con le esigenze della ragione. Anche la separazione dello Stato dalla Chiesa era, per loro, condizione essenziale per l’affermazione della tolleranza.

In Inghilterra, il Latitudinarismo insisteva sulla esistenza nel cristianesimo di un nucleo di verità fondamentali comuni a tutte le chiese, fondate sulla Scrittura e ammesse da tutti.

Per questa setta le divergenze dottrinali non potevano essere motivo di divisioni e intolleranza in quanto riguardavano questioni oscure e incomprensibili.

In Olanda, gli Arminiani (da Arminio, professore All’Università di Leida) contestavano la rigida dottrina calvinista della predestinazione, secondo la quale Dio aveva già stabilito chi si sarebbe dannato e chi si sarebbe salvato, indipendentemente dai meriti individuali, e sostenevano la responsabilità e la collaborazione dell’uomo alla propria salvezza, attraverso le opere buone. Questo principio della libertà umana li portava a sostenere il pluralismo religioso e quindi la tolleranza.

Dietro questa posizione tollerante c’era la spinta della ricca borghesia dei ceti mercantili aperti al pluralismo ideologico e al pacifismo.

Quanto al contributo al dibattito sulla tolleranza del fattore politico, esso era inevitabile dal momento che gli scontri religiosi andavano ad incidere negativamente sulla pace sociale e in qualche modo lo Stato doveva intervenire.

Si cominciò a discutere sul rapporto Stato-Chiese e, accanto alla posizione che sosteneva la necessità da parte dello Stato di far propria una dottrina religiosa e di imporla a tutti, si andava sviluppando la concezione secondo cui Stato e Chiese dovevano essere separati, avendo lo Stato come compito primario quello di garantire a tutte le posizioni religiose la libertà dottrinale e di culto, in altre parole cominciò a nascere la dottrina dello Stato laico e aconfessionale. Era la posizione di Johann Crell, convinto sociniano, o di John Milton e molti altri, fino a John Locke.

Anche il fattore culturale contribuì in modo determinante all’affermarsi dell’esigenza di uno spirito di tolleranza. Sulla scia della rivoluzione umanistica e rinascimentale, che poneva al centro l’uomo come soggetto libero e razionale e la natura come oggetto di ricerca e di conoscenza, cominciava ad affermarsi la Rivoluzione Scientifica, ossia lo studio sperimentale della natura alla ricerca delle leggi che la regolano.

In tal modo, l’uomo moderno sconfiggeva la vecchia cultura aristotelica e la sua coscienza diventava il centro della libera scelta anche in campo religioso.

Da ultimo il fattore economico: con l’emergere della nuova classe borghese e soprattutto nella seconda metà del Seicento con lo sviluppo del capitalismo finanziario e commerciale, nasceva l’esigenza di superare le divergenze religiose, per preservare relazioni sociali stabili e pacifiche che favorissero i commerci.

E' il caso soprattutto dell’Olanda che, per la sua politica di tolleranza, divenne rifugio di molti perseguitati religiosi europei e sviluppò una notevole floridezza economica, al contrario della Spagna che, con la sua politica intollerante e inquisitoria che condusse alla espulsione degli ebrei e degli arabi, ostacolò la formazione di un forte ceto borghese e si avviò così al declino economico e politico.

II

ERASMO DA ROTTERDAM (1466-1536)

É figura centrale di quel movimento di pensiero che inizia con lui e si sviluppa nei secoli successivi intorno al problema della tolleranza religiosa.

Negli anni precedenti la Riforma protestante, Erasmo dà vita ad un movimento che si propone di riformare la Chiesa attraverso il ritorno al Vangelo e al suo spirito.

Il centro del suo pensiero è caratterizzato da alcune novità: la concezione del cristianesimo soprattutto come insegnamento morale, che deve regolare i nostri comportamenti sulla figura evangelica di Cristo.

La spinta verso questo tipo di comportamento morale deve venire però dai laici, perché il clero non è più il detentore del monopolio sulle cose religiose e non è più in grado di auto-riformarsi. E' chiara la novità dirompente di questa affermazione rispetto all’assetto istituzionale e di potere delle gerarchie ecclesiastiche.

Un’altra novità è costituita dal fatto che Erasmo privilegia l’importanza della interiorità spirituale rispetto agli elementi dottrinali e dogmatici con i relativi riti, che a suo avviso sono fonti continue di intolleranza, infatti chi non crede ai dogmi ecclesiastici e non ne segue i riti è considerato automaticamente un eretico e diventa subito vittima dello spirito di intolleranza.

Un altro elemento ancora di novità fortemente destabilizzante rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa è dato dalla convinzione di Erasmo che occorre studiare il Nuovo Testamento con gli strumenti della filologia che la cultura umanistica, alla quale egli appartiene, mette a disposizione; si evidenzia così che la dottrina tradizionale della Chiesa sui sacramenti è errata: i sacramenti sono solo due, battesimo ed eucarestia, gli altri sono invenzioni successive.

Sembrerebbe a questo punto che Erasmo sia molto vicino a Lutero, in realtà tra i due c’è una profonda differenza dovuta soprattutto allo spirito umanistico, positivo e tollerante, che anima il primo e allo spirito antiumanistico, pessimistico e intollerante, che caratterizza il secondo.

E' completamente opposta la concezione che hanno della libertà dell’uomo: Erasmo, da umanista cristiano, esalta la libertà dell’uomo, e dunque la sua responsabilità come strumento di collaborazione con la grazia divina alla salvezza della propria anima, per la quale le opere e i retti comportamenti sono fondamentali (De libero arbitrio, 1524).

Al contrario, Lutero non attribuisce alcun valore alla libertà umana; l’uomo non è libero, ma è talmente peccatore che dipende totalmente per la sua salvezza dalla grazia di Dio, che la concede imperscrutabilmente solo a coloro che sono da lui predestinati (De servo arbitrio, 1526).

Se queste sono le premesse, risulta chiara la diversità di atteggiamento nei confronti degli eretici.

Afferma Lutero: "Chi bestemmia Dio deve essere messo a morte... i prìncipi non devono soltanto proteggere i loro sudditi nei loro beni e nella vita corporale ma la loro funzione più essenziale è di favorire l’onore di Dio e di reprimere la bestemmia e l’idolatria".

Siamo allo spirito di intolleranza più assoluto.

Erasmo, invece, pur ammettendo l’esistenza degli eretici (siamo pur sempre agli inizi del Cinquecento), rifiuta qualsiasi forma di repressione, richiamandosi all’antico precetto cristiano della tolleranza verso chi sbaglia: "Un tempo l’eretico era sentito attentamente. Se dava soddisfazione veniva assolto, se si ostinava… la pena suprema era per lui l’esclusione dalla comunione ecclesiastica. Ora il crimine di eresia ha mutato carattere; per una qualsiasi futile ragione si ha subito in bocca - E' un’eresia! E' un’eresia! -. Una volta si considerava eretico chi si scostava dal Vangelo… ora se qualcuno si allontana un tantino da san Tommaso è un eretico…Tutto ciò che non piace, tutto ciò che non si comprende è un’eresia".

Dunque Erasmo rifiuta di considerare ogni errore un’eresia ed è contrario all’uso della violenza, teme che con il metodo della tortura e dei roghi il male diventi più grave e rimprovera sia ai cattolici che ai protestanti di aver dimenticato lo spirito di mitezza e comprensione di Cristo. Per quelli che non si ravvedono ci penserà un giorno Dio.

Un passo ulteriore verso la tolleranza Erasmo lo compie quando comincia a parlare per primo di libertà di coscienza in materia di religione: "Si lasci ciascuno alla propria coscienza fino a quando il tempo dia occasione di un accordo ".

Comincia con lui a nascere nella cultura moderna la nozione morale di coscienza come spazio di scelta autonoma e libera di ciascuno, prodotta non dall’ambito cattolico né da quello protestante, ma dalla cultura dell’Umanesimo.

Ne segue che la Chiesa può solo scomunicare l’eretico, il quale non sarà perseguitato nemmeno dall’autorità politica (tranne nel caso di pericolosità sociale), che deve cessare di essere il braccio secolare che esegue le condanne della Chiesa.

Erasmo è persuaso che la cristianità deve cercare ciò che unisce e non ciò che divide, come le inutili complicazioni teologiche; occorre infatti lasciare da parte i dogmi non essenziali, ad es. diventa un inutile strumento di divisione il discutere se nell’eucaristia il pane e il vino si trasformino nel corpo e sangue di Cristo, come sostengono i cattolici (transustanziazione), o se il corpo e il sangue di Cristo sono presenti insieme con la sostanza del pane e del vino come invece sostengono i protestanti (consustanziazione).

Occorre, invece, concentrarsi su dottrine veramente fondamentali e comuni, ad es. la fede nella divinità di Cristo e nella sua resurrezione.

La fede per Erasmo è una pratica di vita vissuta non un insieme di formule dottrinali: "Ciò che importa, ciò a cui dobbiamo dedicare ogni nostra energia, è di guarire la nostra anima dall’invidia, dall’odio, dall’orgoglio, dall’avarizia, dall’impurità. Tu non sarai condannato perché ignori se lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, da un solo principio o da due; ma non eviterai la dannazione se non ti sforzerai di possedere i frutti dello Spirito, cioè carità, gioia, pace, pazienza, mansuetudine, castità… Un tempo la fede consisteva nella vita piuttosto che nella professione degli articoli di fede".

Queste idee Erasmo le espresse in molte sue opere, le quali furono messe all’indice dalla Chiesa nel 1557; malgrado ciò esse si diffonderanno nei due secoli successivi e andranno a fecondare alcuni degli intellettuali più brillanti fino a Locke e Voltaire, divenendo così un vero e proprio vangelo della tolleranza: gli eretici non vanno violentati o bruciati, libertà di coscienza per ognuno, il potere politico non deve intervenire nelle cose religiose, il cristianesimo è soprattutto comportamento morale.

Sono questi alcuni dei fondamenti della laicità moderna.

III

SEBASTIANO CASTELLIONE (1515-1563)

Profondamente influenzato da Erasmo, per comprendere la sua posizione sulla tolleranza è decisivo il rogo di Michele Serveto, che aveva scritto nel 1531 il: De Trinitate erroribus, opera nella quale veniva messo in discussione e rifiutato il dogma trinitario, accettato anche da tutte le chiese riformate.

I cattolici lo perseguitano e lo arrestano, fugge dal carcere. Recatosi a Ginevra Calvino lo fa arrestare e bruciare dopo avergli amputato la lingua (1553), vittima del regime teocratico che vigeva in quella città, in cui potere politico e potere religioso erano tutt’uno e trionfava l’intolleranza più assoluta.

La vicenda del rogo del medico spagnolo fece scalpore e in molti rimproveravano a Calvino di usare con Serveto la stessa persecuzione che la Chiesa romana aveva messo in atto contro i protestanti.

Ma Calvino, convinto fanaticamente di interpretare la volontà di Dio, scriveva che Serveto era un eretico e la tolleranza verso gli eretici era un attentato alla carità, perché metteva in pericolo le anime del popolo: "Ora Dio non vuole affatto che si risparmino nemmeno le città, né i popoli, giungendo perfino a radere al suolo le mura e a distruggere la memoria degli abitanti…nel timore che l’infezione si estenda sempre di più".

Non era la prima volta che nei paesi che avevano abbracciato la Riforma si verificava la persecuzione degli eretici; infatti, nel 1535, a Munster si realizzò il massacro degli anabattisti, una setta protestane dichiarata eretica, perché sosteneva posizioni invise sia ai cattolici che ai protestanti quali la necessità di ribattezzare da adulti, quando cioè si poteva scegliere con consapevolezza la propria fede, il principio della non violenza, l’egualitarismo evangelico, il rifiuto della gerarchia ecclesiastica, il rifiuto dell’intervento dell’autorità civile nelle questioni religiose.

La Dieta imperiale, nel 1529, con il consenso unanime dei cattolici e dei luterani decretava per loro la pena di morte. Menno Simons, uno dei capi anabattisti, racconta: "Chi è stato appeso alla forca, chi torturato con disumana ferocia, prima di essere soffocato al palo con il cappio. Chi è stato arrostito e bruciato vivo, chi passato a fil di spada e lasciato quindi in pasto agli uccelli del cielo. Chi è stato gettato ai pesci… Altri vanno errando qua e là, indigenti, afflitti, senza tetto, per montagne e deserti, in tane e grotte della terra. Fuggono con moglie e bimbi da un paese all’altro, dall’una all’altra città, odiati, oltraggiati, scherniti, calunniati da tutti".

Questi avvenimenti segnano in modo decisivo l’animo di Castellione, che l’anno dopo la morte di Serveto pubblica con uno pseudonimo l’opera De haereticis an sint persequendi, con la quale solleva il problema degli eretici e apre il dibattito moderno sulla tolleranza.

Il concetto centrale dell’opera consiste nel considerare il cristianesimo come purezza della vita morale, comportamento basato sulla carità e l’amore evangelico per il prossimo piuttosto che nella esattezza della dottrina e nella ricerca esasperata della ortodossia dogmatica, che spinge i cristiani gli uni contro gli altri, dando luogo a crimini e persecuzioni.

Per Castellione è impossibile penetrare le verità di fede, essendo misteri, e nessuno in terra può ergersi a giudice tra chi legge la Scrittura in un senso e chi in un altro: "Tanto più che le cose contenute nella Bibbia ci sono date oscuramente e spesso per enigmi e domande oscure e che sono in discussione già da più di mille anni senza che ci si sia potuti accordare".

Quando si tratta invece di indicare le regole morali per la salvezza, la Scrittura è chiarissima: "Non si discute della strada per la quale si possa arrivare al Cristo, ossia alla correzione della nostra vita ma dello stato e della funzione di Cristo stesso e di dove lo stesso Cristo stia adesso, cosa faccia, in qual modo stia alla destra del Padre, in qual modo sia uno col padre. E poi della trinità, della predestinazione, del libero arbitrio, di Dio, degli angeli, dello stato delle anime dopo questa vita e di altre cose di questo genere che non è tanto necessario conoscere per conquistare, attraverso la fede, la salvezza".

In questa opera c’è la denuncia dell’intolleranza delle sette: "Nessuno quasi può sopportare un altro che in un qualsiasi argomento dissenta da lui… non c’è quasi una setta che non condanni tutte le altre e non rivendichi a sé sola il regno, ne nascono gli esili, i ceppi, i roghi e le croci per le opinioni malviste dai più potenti intorno a cose ancora ignote, ormai da tanti secoli disputate tra gli uomini e tuttavia non ancora concluse in maniera certa… e così sarebbe prudente che, sommersi da tanti peccati, ognuno di noi tornasse in se stesso e si preoccupasse di correggere la propria vita, non di condannare gli altri".

Già nella prefazione alla traduzione latina della Bibbia del 1551, mette in evidenza la contraddizione tra la violenza intollerante e lo spirito evangelico: "Che tempi! In questo modo dunque saremo sanguinari per amore di Cristo, che sparse il suo sangue affinché non si spargesse il sangue di altri?… perseguiteremo gli altri per amore di Cristo che ci comandò se ci colpiscono sulla guancia destra di offrire la sinistra?".

Castellione colpito dal fanatismo, oltre che di Calvino, anche del suo amico Teodoro di Beza, che considerava eretici tutti quelli che non la pensavano come lui e incitava il potere politico ad abbattere "questi mostri mascherati da uomini", cercò di affrontare il problema della definizione di "eretico", cioè di chi e per quale ragione dovesse essere considerato un eretico.

A suo avviso, l’errore consiste in un’estensione troppo vasta del termine con la conseguenza che diventano eretici tutti quelli che dissentono da noi: "Nome oggi reso così infame, così odioso, così nero, che se qualcuno vuole uccidere il suo nemico non ha una via più spedita che accusarlo di eresia. Appena la gente sente questo nome, per questo solo nome, odia talmente un uomo da perseguitare con furia sfrenata, senza voler sentire nulla in sua difesa, non solo lui ma pure tutti quelli che osino tentare di dire qualcosa a suo favore".

Castellione prosegue, facendo notare che: "Io non dico ciò perché io sia favorevole agli eretici. Io odio gli eretici…". Questa espressione ci fa capire che anche lui non ha ancora maturato la convinzione che se si accetta la libertà di pensiero non esistono eretici.

Tuttavia, egli rifiuta ogni tipo di persecuzione perché vede in essa due grandissimi pericoli. "Primo, che sia considerato eretico qualcuno che non è eretico… l’altro pericolo sta nel fatto che qualcuno, anche se veramente eretico, venga punito troppo severamente o in modo difforme da ciò che richiede la disciplina cristiana… O Principi, aprite gli occhi e non date così poca importanza al sangue umano da spargerlo così facilmente, soprattutto nella causa della religione".

Castellione denuncia che di tutte "le sette (oggi innumerevoli) non ce n’è quasi nessuna che non tenga gli altri per eretici. In tal modo se sei ortodosso in questa città o in questa regione, in quella vicina sarai considerato eretico".

Secondo Castellione esistono due tipi di eretici: quelli che vengono meno alla pratica cristiana nei costumi, come gli avari, i lussuriosi, gli ubriaconi, i persecutori degli altri, i ladroni, i traditori e quelli che si allontanano dalla giusta dottrina. I primi sono facilmente giudicabili, perché nel giudicare i costumi siamo tutti d’accordo, ma i secondi sono più difficili da giudicare, essendo le Scritture oscure e interpretabili.

Quale allora la soluzione? Credere fermamente in Dio padre, in Cristo figlio e nello Spirito Santo e condurre una vita moralmente retta secondo i principi della carità e della pietà cristiana e del Vangelo e poi lasciare la libertà di interpretazione per quanto riguarda la dottrina.

Pochi mesi dopo l’uccisione di Serveto, Calvino aveva fatto una vera e propria apologia della intolleranza: "I nostri misericordiosi che prendono tanto gusto a lasciare impunite le eresie, vedono ora come il loro capriccio troppo male si accordi con il comandamento di Dio. Essi vorrebbero, per paura che un troppo grande rigore diffami la Chiesa di Dio, che si desse voga a qualsiasi errore per tollerare un uomo. Ora Dio non vuole affatto che si risparmino nemmeno le città, né i popoli, giungendo perfino a radere al suolo le mura e a distruggere la memoria degli abitanti".

Castellione risponde con il Contra libellum Calvini, un’opera che circola solo manoscritta, nel quale confutava questa convinzione fanatica di Calvino, mettendo l’accorato accento sul fatto che: "Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto, non difendevano una dottrina, uccidevano un uomo. Difendere una dottrina non è compito del magistrato. Che cosa ha in comune la spada con la dottrina?".

Da cristiano vero Castellione sferra un durissimo attacco contro la violenza interna alla religione cristiana: "Il Vangelo ha cattiva fama tra i gentili per colpa nostra. Quando vedono infatti che tra di noi ci facciamo violenza come belve e che sempre i più deboli sono oppressi dai più forti, detestano il Vangelo, quasi fosse esso a generare gente simile e detestano Cristo quasi egli avesse comandato che accadessero tali cose. Chi infatti vorrebbe diventare cristiano, vedendo che coloro che confessano il nome di Cristo, senza alcuna misericordia sono uccisi dagli stessi cristiani col fuoco, coll’acqua e col ferro…?".

Con lui dunque il cammino della tolleranza fa un deciso passo in avanti tanto da coinvolgere parzialmente anche gli atei, per i quali prospetta l’esilio ma senza ricorrere alla violenza. Ma qual è il motivo del rifiuto degli atei? Singolare è la risposta: essendo la libertà di coscienza la voce di Dio, l’ateo non può rivendicarla.

Anche la mente illuminata di Castellione è vittima dello spirito del suo tempo, dominato dalla presenza totalizzante della religione.

IV

UGO GROZIO (1583-1645)

Nasce in Olanda e forma il suo pensiero nei primi anni del Seicento, quando le sette province settentrionali dei Paesi Bassi, già costituite in repubblica indipendente dal 1579, erano caratterizzate, oltre che da un notevole sviluppo economico, da profondi contrasti religiosi all’interno dello stesso calvinismo che costituiva la chiesa ufficiale.

Si erano create due correnti di pensiero i gomaristi, dal professore dell’Università di Leida Franz Gomar, che sosteneva il rigido determinismo calvinista secondo cui l’uomo si salvava solo se predestinato da Dio, e gli arminiani, dal professore dell’Università di Leida Jacobus Arminius, il quale invece sosteneva che l’uomo redento da Cristo aveva la possibilità di collaborare alla propria salvezza con le sue opere.

Dietro i gomaristi c’era la nobiltà latifondista e larghi settori del mondo contadino; dietro gli arminiani era invece schierata la ricca borghesia dei ceti mercantili, cittadini influenzati dallo spirito umanistico, aperta al pluralismo ideologico.

Grozio, che aveva studiato materie giuridiche a Leida, si schiera decisamente con gli arminiani ed essendo contrario agli scontri religiosi, teorizza l’intervento dello Stato nel merito delle questioni ecclesiastiche al fine di imporre la pace religiosa.

Non si trattava per Grozio di spingere lo Stato a sostenere l’una o l’altra posizione, ma di intervenire per evitare ogni forma di repressione violenta del dissenso religioso; la finalità del suo intervento è solo civile e politica, lasciando intatta la libera scelta della coscienza individuale: "Se tale è l’accanimento degli animi dei pastori che in un sinodo, come spesso è accaduto, aggraverebbe più che guarire il male, allora è dovere del magistrato, dopo aver sentito il parere degli uomini più dotti, porre certi limiti alla libertà, perché essa non degeneri in sfrenata licenza e all’interni di essi difendere con la sua autorità e la sua forza la pace della chiesa".

Lui stesso fu vittima dell’intolleranza quando venne incarcerato, con condanna all’ergastolo in quanto arminiano.

Evaso e fuggito a Parigi, nel 1622 pubblica il De veritate religionis Christianae, opera che ebbe una grande diffusione per tutto il Seicento, nella quale tenta una definizione dei fondamenti dottrinali e biblici comuni a tutti i cristiani, evidenziando, come Castellione, gli aspetti etici del messaggio evangelico, prescindendo dalle questioni dogmatiche e dottrinali più controverse.

La sua apologia del cristianesimo si basa sulla convinzione che la religione cristiana è più in armonia con la ragione ed è più efficace per l’elevazione spirituale degli uomini.

Per lui l’unico modo di affermare la tolleranza religiosa è quello di individuare un nucleo di verità fondamentali accettate da tutti: "La divergenza di opinioni tra cristiani non ha potuto impedire che vi sia sufficiente certezza intorno ai punti fondamentali cioè a quei precetti in base soprattutto abbiamo svolto la nostra argomentazione a sostegno della religione cristiana".

Ma quali sono questi principi fondamentali? In primo luogo credere in Dio Padre e creatore poi credere in Gesù Cristo suo figlio dal quale abbiamo la salvezza poi credere nell’immortalità dell’anima, nella rettitudine della vita e nella verità delle Sacre Scritture perché, quanto a queste ultime, i loro autori furono troppo onesti o troppo ripieni dell’afflato divino per volerci defraudare della necessaria verità.

Grozio denuncia il fatto che la "religione cominciò un po’ dappertutto a essere collocata non nella purezza degli animi ma nei riti… e alla fine accadde che dappertutto molti erano cristiani di nome, pochissimi quelli di fatto".

Da qui le persecuzioni e le violenze, mentre "la legge di Cristo proibisce di rispondere all’offesa patita sia con le parole sia con i fatti, affinché quella malvagità che rimproveriamo negli altri non la sosteniamo poi imitandola".

Nella sua opera più famosa De iure belli ac pacis del 1625, nella quale fonda il giusnaturalismo moderno e il diritto internazionale, afferma con nettezza che devono essere proibite tutte le guerre che abbiano lo scopo di imporre il cristianesimo con la forza e che è sovrana ingiustizia "perseguitare genti che, pur riconoscendo come vera la legge di Gesù, dubitano o errano su alcuni punti sia perché non vi è su di essi nulla di deciso in questa Legge, sia perché il senso della Legge sembrerebbe ambiguo ed è stato diversamente interpretato dagli antichi".


LE RELIGIONI ABRAMITICHE E LA VIOLENZA

Maurizio Magnani

Sgombriamo il campo da un equivoco diffuso: il dio delle tre religioni abramitiche non era un dio unico al momento della sua prima rivelazione agli antichi semiti.

Proprio la innominabilità del nome di Dio, del primo comandamento giudeo-cristiano, conferma quanto storici e archeologi hanno portato alla luce: il dio dei tre monoteismi abramitici è una teocrasia, ossia la fusione di due filoni di divinità.

Infatti, presso i semiti di Siria e del nord della Palestina, la regione di Israele, si veneravano, tra le altre, già dal secondo millennio a.C. (e forse prima) delle divinità uraniche del cielo profondo, governate dal gran padre Baal, altresì chiamato da quei popoli Aleyan, Hadad, El o Eloah (Elohim al plurale): Isra-El significa "il combattente di El".

Presso i semiti di Giudea, della terra di Canaan e di Fenicia si veneravano invece divinità meno nascoste nel cielo profondo, più vicine alla vita terrena, più avvezze alle teofanie (manifestazioni fisiche come turbini di vento, roveti ardenti, scaturigini di acque da rocce, ecc.), come Jahvé o YHWH, che si pronuncia Adonai (Signore) o in altro modo, per non violare il comandamento.

Jahvé fu il dio che finì col prevalere sugli altri, presentandosi a Mosé, come sappiamo dalle scritture, ma non fu l’unico, e la Bibbia non ha potuto cancellare l’origine politeista e enoteista dell’ebraismo (un dio che primeggia sugli dei rivali), narrandoci due storie della Genesi, due del diluvio, e altre narrazioni doppie.

Il Cristianesimo e l’Islam hanno ereditato dal Giudaismo la doppia natura del dio unico: quella paterna dell’uranico El/Eloah e quella assai umana dell’iracondo JaHWeH (il cristianesimo ha inglobato anche l’arcaico dio indoeuropeo Dyaus Pitar, che prima di essere Dio-Padre è stato lo Zeus dei greci e Juppiter o Giove dei romani), sicché non hanno potuto o saputo emendarsi dall’idea arcaica di un dio padre punitivo e distruttivo che prepara l’apocalisse e invia pestilenze e cataclismi e, all’occorrenza, scende a fianco dei suoi popoli in battaglia.

Oggigiorno sorridiamo all’idea di un dio terrifico, perché la dottrina cristiana ha subito le influenze dell’umanesimo, dell’illuminismo, del razionalismo scientifico e filosofico, eppure le caratteristiche jahvitiche del Dio monoteista emergono tuttora evidenti quando si incontrano certi cristiani riformati del continente americano o quando si sente, come nelle recenti rivolte del Magreb e dei paesi arabi, gridare "Allahu Akbar" (Dio è il più grande) mentre vengono sparate raffiche di mitra verso il cielo.

Prendiamo in esame distintamente i tre monoteismi, seppur in breve.

IL GIUDAISMO

La Bibbia ebraica, innanzitutto i cinque libri del Pentateuco o Torah, è una raccolta di testi di epoche e di ispirazioni assai diverse, per lo più tradizioni orali tramandate da molti secoli e redatte in forma scritta da sommi sacerdoti, come Esdra e Neemia, soltanto a partire dal VII-VI secolo a.C., durante e dopo la cattività dei giudei in Babilonia.

Molteplici sono state le revisioni dei libri, tanto che non possediamo una Torah originale (una copia fedele della prima stesura, si intende), né le Bibbie ebraiche coincidono e concordano tra loro: per esempio, la versione dei 72 di Alessandria è difforme dalla versione Massoretica, che è datata IX secolo d.C. .

Anche il Vecchio Testamento dei cristiani non coincide con la Bibbia ebraica (es. il libro dei Maccabei è rifiutato dagli israeliti) e, anzi, non coincidono nemmeno tra loro la Bibbia cattolica, quella di Lutero e quella di Re Giacomo, letta dagli anglosassoni.

Le narrazioni della Torah sono state messe per iscritto almeno 6 o 7 secoli dopo i presunti avvenimenti (Abramo nel XX secolo; Mosé nel XIV secolo, ecc.) sicché esse non possiedono alcun valore storico (non sono neppure avvalorate da testimonianze esterne, come ad esempio quelle di egizi o fenici, popoli che tenevano archivi, e nemmeno dalle ricerche archeologiche indipendenti, quelle non israelitiche).

Così, sebbene gli ebrei cerchino di far passare per certezza storica ciò che è leggenda e mito, e nonostante gli archeologi israeliti abbiano sventrato mezza Palestina alla ricerca di prove, a tutt’oggi non è possibile confermare neanche l’esistenza storica dei grandi patriarchi Abramo, Mosé, Giosuè e David.

La Torah dice che il primo nucleo di giudei, storicamente identificabile, fu quello di Abramo, il quale mosse, intorno al 1900 a.C., guidato da Eloah, dalla città di Ur in Caldea verso l’Egitto: sin da subito la storia dei semiti (anche gli arabi rimandano le proprie origini storiche a Abramo e a suo figlio Ismael) è narrazione di vicende riprovevoli, giacché Abramo indusse per due anni la moglie Sara a prostituirsi al Faraone in cambio di favori; il consenso del dio era scontato, poiché era prioritario il destino del futuro popolo giudeo, e se per esso si doveva prostituirsi, uccidere, sterminare, ebbene che così fosse.

Nessuno dei primi grandi patriarchi rimase immune dall’onta dell’omicidio e dello sterminio dei nemici: Mosè uccise e nascose nella sabbia un soldato egizio (2 Mosè, 11); Giosuè distrusse Gerico e varie altre città della terra di Canaan, compiendo numerosi eccidi (Giosuè, 6,21); Davide fu il più assiduo nella pratica del Chérem, la cancellazione totale di un popolo avversario, come citano con orgoglio alcuni passi biblici: "Ogni volta che David assaliva un paese, non lasciava in vita né maschio né femmina" (1 Samuele, 27, 9); "David condusse gli abitanti fuori dalla città di Rabba e li bruciò dentro le fornaci dei mattoni. E così fece con tutte le città dei figli di Ammone" (2 Samuele, 12, 13).

D’altronde, il Chérem (lo sterminio) era auspicato, anzi ordinato da JHWH medesimo: "Non lascerai in vita alcuna anima" (5 Mosè, 20, 13); "Sterminerai Cananei, Etei, Amonei, Ferezei, Evei, Gebusei, come ti ha ordinato il Signore Dio tuo" (Deuteronomio, 20, 16-18; Numeri, 21, 2).

Talvolta appare esagerata tanta iracondia e crudeltà del dio dei giudei, ma non va dimenticato che gli ebrei erano politeisti (veneravano divinità babilonesi, assire, egizie, cananee, ecc.) e che Jahvé era un dio geloso a cui non bastava l’enoteismo (la supremazia sugli altri dei), ma voleva il monoteismo assoluto, con la estinzione delle altre divinità ("Non avrai altro Signore all’infuori di me"), pretesa che avviò la pratica dell’intolleranza, intrinseca al monoteismo.

Inoltre, va sottolineato che Jahvé fu scelto tra le altre divinità semitiche, perché era "Jhwh Sabaoth" cioè "Signore degli eserciti", ovvero dio potente del cielo, ma anche Colui che sconfisse le forze del Caos e del Male, nel pieno rispetto delle caratteristiche delle divinità semitiche d’oriente.

A un popolo in cerca di una terra e in perenne conflitto con i vicini, occorreva un dio di guerra, un dio vicino agli uomini, che benedicesse la lotta e che scendesse al fianco della sua gente, e Jahvé era più adatto di quanto non lo fosse il lontano dio uranico El-Eloah: "Avvenne che il Signore scagliasse contro di loro grandi pietre dal cielo, fino a Azeca, e così essi perirono. Quelli che morirono per le pietre furono assai più di quelli che i figli di Israele uccisero con la spada" (Giosué 10, 11); "Disse il Signore a Giosuè – fa’ attenzione, io ho consegnato nelle tue mani Gerico e il suo re e forti guerrieri -" (Giosuè 6,2).

Al di là dei molti giudizi negativi sul Vecchio Testamento e sul dio di Israele, formulati nei secoli, inclusi quelli dei padri cristiani come Origene, il quale invitava a ripudiare la Bibbia giudaica (Commentari alle Omelie; 5,1), bisogna domandarsi che cosa resti dell’iracondo e combattivo Jahvé nell’ebraismo moderno.

La risposta è: molto, moltissimo, troppo, come ben evidenziato dalle prime righe della Proclamazione di Indipendenza dello Stato di Israele, in cui il richiamo alle scritture sacre prelude alla propria identità di popolo con rapporto privilegiato con il Dio onnipotente e alle proprie tradizioni combattive, seppur giustificate dalla necessità di difendersi.

IL CRISTIANESIMO

Non mi soffermerò sul Nuovo Testamento (tale solo per i cristiani), libro più di pace che di violenza, sebbene talune parole di Cristo lascino perplessi e suggeriscano che gli storici, che rimandano ad una origine essena o forse addirittura zelota del cristianesimo, potrebbero avere le loro ragioni: "Non crediate ch’io sia venuto a portare la pace in terra; sono venuto a portare la spada, a dividere il figlio dal padre (…) i nemici dell’uomo saranno i suoi familiari" (Mt 10, 34 - 36); "Chi non ha una spada venda il suo mantello e la comperi"; essi risposero: "Signore, ecco qui due spade" (Lc 22,36).

In questa sede mi occuperò invece della dottrina esposta da Agostino nel "Compelle Intrare", traducibile con "Forziamoli ad entrare", che, a partire dal IV secolo giustificò le innumerevoli repressioni, crudeltà, torture, assassini, stermini e ogni genere di crimini di cui si è macchiato il cristianesimo nei suoi quasi venti secoli di storia, come raccontano nei dettagli gli storici quali p.es. K. H. Deschner.

Sant’Agostino, uno dei padri della Chiesa e celebrato teologo, è stato uno dei primi e più fermi difensori della "guerra giusta e santa".

Egli visse (354-430) nella fase storica caotica del decadimento imperiale e delle "invasioni barbariche"; tuttavia l’acredine delle sue parole verso i non cristiani e i cristiani non allineati alla dottrina dei vescovi, come i Donatisti, è eccessiva e non lascia dubbi sulla sua idea di giustizia e di santità della violenza, finalizzata a "ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite".

Nel pensiero di Agostino è la malvagità del reprobo che costringe il saggio alla guerra giusta ed è la testardaggine del miscredente a non fargli comprendere che quella cattolica è l’unica e vera fede nell’unico e vero Dio, dunque a costringere il benevolo e amorevole cristiano ad agire con la forza per il bene dell’eretico stesso e della sua salvazione eterna.

Scrive Agostino, ne La città di Dio: "Abbiamo provato con le parole e il dialogo a far entrare o rientrare i cristiani deviati verso false verità in seno alla Madre Chiesa, ma non c’è stato verso, cosicché abbiamo dovuto usare la forza per il loro stesso bene. Abbiamo dovuto forzarli a rientrare".

Dopo Agostino e la sua dottrina del "Compelle Intrare", la Chiesa cattolica ha giustificato migliaia e migliaia di volte l’uso della violenza per il bene stesso dei pagani e degli eretici, nonché di ebrei, musulmani, amerindi, africani, sassoni, celti, ungari, baltici e indigeni di ogni terra da cristianizzare, tanto che il termine "evangelizzare" oggi suona lugubre e nefasto.

Viene detto, da parte cristiana, che Agostino non intendeva legittimare tanti misfatti, perpetrati nel nome di Gesù, ma questo è quello che è accaduto; d’altronde Agostino scrisse anche "Chi molto ama, molto punisce".

Nel secolo XIII, Tommaso d’Aquino, altro santo e altro celebrato teologo della Chiesa, riprese le idee di Agostino sulla guerra, ribadendo che gli atti di violenza verso il prossimo devono essere animati da intenzione retta, ossia quella di combattere il male e favorire il bene, che per un cattolico è, ovviamente, il bene secondo la propria dottrina.

Quando Tommaso scrisse, nella Summa Theologiae (IIa, II a e), a proposito dei musulmani, che occupavano Gerusalemme: "I credenti cristiani entrano in guerra contro gli infedeli non per costringerli a credere nella vera fede ma per costringerli a non frapporre ostacoli alla religione del Cristo", non si rese conto che con le sue parole finì col giustificare la violenza contro chiunque, in qualunque modo, costituisse ostacolo alla fede cattolica: ebrei, dissidenti, eretici, liberi pensatori, agnostici, atei, e così via.

Il peggio venne raggiunto da Tommaso quando arrivò a sostenere che la guerra giusta è, in ultima istanza, volontà divina: "L’autorità sguaina la spada per zelo di giustizia, come per ordine di Dio".

Con il loro deleterio concetto di bene e di male, Agostino e Tommaso, e dopo di loro numerosi altri teologi cristiani, hanno santificato la guerra giusta e tutte le violenze perpetrate per Cristo ed in suo nome, giacché ad ogni occasione di guerra si trovavano facilmente ragioni di giustizia e finalità amorevoli.

Se i cattolici hanno cancellato senza remore e senza limitazioni qualunque "ostacolo alla vera fede", massacrando pelagiani, donatisti, priscilliani, albigesi, catari, ugonotti e pagani di ogni genere, i cristiani riformati e non allineati non sono stati da meno, rendendo ai cattolici il fio con i dovuti interessi.

Una delle principali cause di tanto protervo furore distruttivo dei cristiani, di ogni setta o gruppo, nessuno escluso, è stato il loro convincimento dogmatico di essere detentori della verità assoluta, per come la si evince dalle scritture sacre e per come essa è stata rivelata da Dio medesimo, che ne auspicava la diffusione universale; il vangelo di Marco fa dire a Gesù: "Andate ovunque sulla Terra e predicate il vangelo a ogni creatura. Chi non avrà creduto, sarà condannato" (Mc 16, 15-16).

Forse, Marco mai avrebbe immaginato che le sue parole avrebbero favorito l’ecumenismo pantoclasta del "Compelle Intrare", né che dal secolo XV in poi la dottrina della "guerra giusta" sarebbe stata trasformata in concezioni di diritto generale e internazionale, che ha autorizzato le potenze e gli stati cristiani a esportare in ogni continente violenze, prevaricazioni, regimi tirannici e genocidi, ma questo è quanto è successo.

L’ISLAM

Islam vuol dire "sottomissione", sottomissione incondizionata a Dio, Allah, senza se e senza ma.

Il dio dell’Islam è l’antico dio uranico El, il vecchio Baal, il gran padre degli dei semiti: anteponendo al nome proprio l’articolo determinativo al, al-El è divenuto Allah, con enfatizzazione della sua unicità.

Come noto, artefice più che semplice profeta della religione islamica, è stato Maometto, il quale, avendo combattuto accanitamente contro l’oligarchia dei ricchi mercanti Kuraysh, che si spartivano il potere politico e religioso a La Mecca, finì col considerare la guerra un mezzo lecito per assoggettare i miscredenti all’Islam.

Gli storici delle religioni non stimano El un dio particolarmente iracondo e guerrafondaio, sicché le caratteristiche aggressive di Allah sono da attribuire a Maometto e al suo precetto che il vero musulmano possa e debba usare anche la forza per convertire gli infedeli.

Dice il Corano, nella Sura (= capitolo) III, versetto 118:

"Se vedi una pratica contraria all’Islam la farai cessare con la forza; se non possiedi la forza per fermarla, la condannerai con la parola; se neanche ciò ti è possibile, la condannerai nel tuo cuore", sottolineando che la prima opzione è la forza.

Il Corano è considerato parola diretta di Allah, con intercessione dell’arcangelo Gabriele, pronunziata passivamente dalla lingua di Maometto, a rimarcare che non fu il Profeta a elaborarla, tant’é che il Corano è detto "la Recitazione".

I non musulmani hanno accusato Maometto di aver attribuito a Dio precetti e comandamenti in verità propri, a suo scopo e vantaggio, come quando egli, invaghitosi della moglie di un figlio adottivo, pronunziò un precetto che favorì il divorzio della donna e il matrimonio con lui, padre adottivo.

Al di là delle scusanti musulmane, resta il fatto che i versetti delle sure coraniche risultano talora assai confusi e in palese contraddizione tra loro, oltre che privi di un ordine cronologico, che consenta di cogliere le ragioni del contrasto, collegandole per esempio a situazioni reali precise.

Riguardo l’uso della forza, i precetti più rilevanti si trovano nelle sure II e IX, ma ve ne sono in tutto il Corano e negli Hadith, gli scritti sulla vita e gli insegnamenti di Maometto: dal Corano e dagli Hadith prende corpo la Shāria, la legge sacra dell’Islam.

Ecco alcuni versetti coranici sull’uso della violenza:

"Uccidete gli idolatri, dovunque li troviate; prendeteli, circondateli, attendeteli nei luoghi che si prestano a un agguato. Se si convertono e pagano la decima. lasciateli però andare, perché Allah è indulgente e clemente" (IX, 5);

"Quando incontrate una schiera nemica, voi che credete siate saldi e menzionate il santo nome di Allah, affinché possiate riportare la vittoria" (VIII, 45);

"Non voi uccideste i nemici bensì Allah li uccise (…) per fornire ai credenti una prova buona, perché Allah è ascoltatore sapiente" (VIII, 17);

"Il peccato di far guerra nel mese di Ramadan è grave ma è molto più peccaminoso agli occhi di Allah bestemmiare lui e il suo sacro tempio"( II, 217);

"Faceste uscire quelli della Gente del Libro (= ebrei) che avevano aiutato il nemico (Kuraysh), sicché parte ne uccideste e parte ne faceste prigionieri (…) perché Allah è su tutte le cose potente!" (XXXIII, 26).

Questi e altri versetti evidenziano come Maometto attribuisca al volere di Allah medesimo l’uso della forza e della guerra, sebbene essa debba essere guerra finalizzata alla conversione dei miscredenti e alla vittoria finale dell’Islam.

In tal senso, non vi è gran differenza con le concezioni agostiniane e tomistiche di "guerra giusta" e "guerra "santa".

Il termine arabo Jihad significa guerra santa nell’accezione di tensione, cammino verso il fine santo di diffusione dell’Islam: non a caso, il termine è spesso espresso nel Corano come "Jihad fi sabil Allah" ossia "sforzo sul cammino verso Allah".

Non va dimenticato che, per l’Islam, la grande Jihad è la guerra contro se medesimi, lo sforzo del fedele di essere un buon musulmano, però non va nemmeno dimenticato che la piccola Jihad, la guerra santa contro l’infedele, è contemplata come parte del cammino del fedele verso Allah, come atto che avvicina a Dio.

Il versetto: "Non dite che coloro che vengono uccisi sulla via di Allah sono morti. No, essi vivono ma voi non lo comprendete" (IV,49) esalta la santità del mujahidin, il combattente della Jihad, e ne celebra il martirio.

La gran parte degli arabi e dei popoli musulmani è gente pacifica e nella loro storia ha raramente raggiunto gli estremi di follia religiosa conosciuti dai popoli cristiani, però sarebbe falso sostenere che la storia dell’Islam sia stata storia di pace.

La religione di Maometto racchiude in sé l’intolleranza delle religioni abramiche e il progetto di diffusione ecumenica, al pari del cristianesimo, progetto perpetuo che cesserà soltanto nel giorno in cui tutto il mondo sarà sottomesso alla fede di Allah, sarà Islam:

"Combatteteli, dunque, finché non vi sia più scandalo e il culto tutto sia reso soltanto a Allah" (VIII,39).

In conclusione, il monoteismo teologico, la difesa intransigente delle proprie dottrine ritenute verità assolute ed indiscutibili, poiché rivelate da Dio medesimo, le concezioni dualiste del bene e del male e della lotta inesorabile ed a oltranza contro il male (i miscredenti), il progetto ecumenico di affermazione del vero Dio e di conversione di tutto il mondo alla vera fede, il messianismo con la fiducia in un destino solo proprio privilegiato dal cielo, la fede escatologica, che spinge alla conversione altrui per presunto atto d’amore (compelle intrare), spiegano ampiamente il carattere intollerante, fanatico, assolutista, liberticida delle religioni abramitiche e rendono conto della loro storia di crimini e di abomini.

Certo, non possono essere negati anche taluni aspetti positivi e benefici delle tre religioni monoteiste, ma proprio la loro duplice natura, la loro ambivalenza rivela la loro radice umana, profondamente umana, tragicamente umana.

Piccola bibliografia


PERCHÉ IL CATTOLICESIMO E' UN FONDAMENTALISMO

Eraldo Giulianelli

I

Il termine "fondamentalismo" fu coniato nel XIX secolo negli Stati Uniti per indicare una corrente religiosa protestante secondo la quale gli scritti biblici dovrebbero essere intesi come veri alla lettera.

Oggi viene utilizzato per indicare quelle religioni che pretendono di imporre le loro norme morali a tutti i cittadini di una nazione, indipendentemente dalla loro adesione o meno a quella religione, utilizzando e forgiando le leggi secondo le loro direttive.

Oggigiorno si tende a utilizzare tale termine riferendosi all’Islam, che pretenderebbe di porre a base delle norme di legge la Shaaria e si prende come esempio eclatante l’Iran: mentre lo stesso concetto non si estenderebbe alla Chiesa Cattolica, la quale si nasconde dietro la celebre massima evangelica "Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", fingendo di ignorare che questa è una delle tante massime evangeliche da essa regolarmente disattese.

L’idea che la società debba essere guidata dal Vangelo e quindi dalla Chiesa, che se ne dice depositaria è stata una costante nella storia dell’umanità ed è tuttora sostenuta a spada tratta dalle autorità religiose cattoliche.

Nascita dei cristiano-cattolici

Nell’anno 347, pochi anni dopo la concessione della libertà di culto ai cristiani da parte di Costantino, il neoconvertito Firmico Materno esortava gli imperatori ad imporre a tutti i sudditi il culto del vero Dio abbattendo i templi pagani.

Ma, ancora prima, nel concilio di Nicea del 325, la Chiesa di Roma non solo formulò solennemente il proprio "Credo", ma indusse lo stesso imperatore Costantino a condannare l’arianesimo ed a comminare la pena di morte a chi fosse stato trovato in possesso di un libro di Ario e non lo avesse distrutto subito.

In tal modo, la Chiesa si proclamava l’unico cristianesimo legittimo, in opposizione agli altri definiti eretici, e rivendicava il diritto di imporlo con la forza.

Nel 380, l’imperatore Teodosio formalizzò tale stato di cose, proclamando religione di stato non il cristianesimo, come erroneamente si dice, ma solo quella dottrina professata dal pontefice Damaso.

I suoi seguaci, proclamava l’editto, si sarebbero chiamati cristiano-cattolici, mentre tutti gli altri, eretici, sarebbero stati puniti: "non solo con la vendetta divina ma anche dal potere che la Volontà Celeste ci ha accordato".

Né fu da meno l’imperatore Giustiniano, che introdusse leggi che punivano con la morte i colpevoli di omosessualità, ispirandosi, espressamente, alla condanna biblica di Sodoma; nel Medioevo, l’imperatore Enrico II, su richiesta di Benedetto VIII, impose la riduzione in schiavitù dei preti che violavano il celibato.

Il clero è più altolocato del re

Il dottore della Chiesa Giovanni Crisostomo proclamò, in una delle sue omelie, che il clero occupa una posizione più altolocata del re: "come l’anima sul corpo, come il cielo sulla terra".

Da allora, in perfetta continuità, Agostino invocò la forza dello Stato contro gli eretici e, a metà del sec. V, papa Leone I Magno, dottore della Chiesa e santo, affermò che "è dovere dell’imperatore sopprimere energicamente come nemici dello stato coloro che disturbano la pace della Chiesa" [4].

Il massimo teologo San Tommaso d’Aquino, nella sua Summa Teologica, ripeteva che "il potere civile è sottoposto a quello spirituale come il corpo all’anima".

Dall’anno Mille in poi, tutti i papi riaffermarono la teoria delle due spade .

Basta ricordare Gregorio VII che, in una lettera del 1076, indirizzata al vescovo di Metz così si esprimeva : "Dio quando diede a Pietro soprattutto il potere di sciogliere e legare in cielo e in terra non escluse nessuno.

Se la Santa Sede Apostolica decide e giudica delle cose spirituali perché non anche delle secolari?"

Concetto ribadito dal santo e dottore della Chiesa Bernardo di Chiaravalle : "I reami della terra e i regi diritti appartengono ai sovrani solo e unicamente secondo la misura in cui si conformano ai dettami e alle disposizioni di Dio".

Il delirio di onnipotenza è ben espresso da papa Innocenzo III, autore della crociata contro i catari, che così si esaltava: "Chi sono io che siedo in alto al di sopra dei re e detengo il trono della beatitudine?

Perché su di me il profeta dice : ti ho collocato sopra i popoli e i regni perché tu gridi e abbatta, distrugga e disperda, pianti ed edifichi.

Io sto come mediatore tra Dio e gli uomini, sotto Dio ma sopra l’uomo, più piccolo di Dio ma più grande dell’uomo" [5].

Da questa collocazione deriva che alla morale cattolica tutti devono uniformarsi con la conseguente equiparazione della violazione di una norma morale, il peccato, al reato.

Né è possibile dimenticare papa Bonifacio VIII che nella celebre bolla "Unam Sanctam" del 1302 così dichiarava: "Noi sappiamo dalle parole del Vangelo che nella Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale e una temporale e che ambedue sono in potere di essa: una deve essere impugnata per la Chiesa l’altra dalla Chiesa, la seconda dal clero, la prima dalla mano del re o cavalieri ma secondo il comando e la condiscendenza del clero perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale!".

Nel Cinquecento, lo Stato Pontificio puniva con la morte l’aborto, la contraccezione, l’adulterio, l’omosessualità.

Sul piano politico-sociale furono condannate come eretiche tutte le dottrine che predicavano l’eguaglianza sociale e furono giudicate come "giuste e sante" le guerre contro infedeli ed eretici assicurando, come papa Pio V, la remissione dei peccati a chi andava ad uccidere in nome di Dio eretici e turchi come adesso Benedetto XVI dice che non si deve fare.

L’alleanza tra trono e altare

Anche quando la Chiesa si trovò a che fare con stati nazionali cha aspiravano ad un potere assoluto, sciolto da tutele, essa non rinunciò alla propria supremazia adattando il criterio dell’alleanza con il potere politico, ossia proponendo la Chiesa come sostegno politico dell’assolutismo in cambio del riconoscimento della religione cattolica come religione di stato.

Così si espresse papa Pio VI in piena Rivoluzione Francese , nel 1793: "La fede cristiana è il sostegno più solido dei regni poiché reprime l’abuso dei potenti e la licenza dei sudditi" e non mancò di definire l’uccisione di re Luigi XVI come martirio cristiano in odio alla fede cattolica [6].

Il sostegno della Chiesa ai principi in cambio della confessionalità dello stato fu ribadita da papa Pio IX e dal "progressista" Leone XIII.

Quest’ultimo, riandando ai bei tempi in cui " la filosofia del vangelo governava la società", ribadì che " Dio volle ripartito tra due poteri il governo del genere umano, cioè il potere ecclesiastico e quello civile, l’uno preposto alle cose divine l’altro alle umane e per questo è necessario che tra le due potestà esista una coordinazione la quale viene giustamente paragonata a quella che collega l’anima al corpo.

Ne segue l’obbligo per lo stato di onorare Dio adottando quelle forme e quei riti coi quali Dio stesso dimostrò di voler essere onorato e quale sia la vera religione senza difficoltà può vedere chi giudichi con metro sereno e imparziale" [7].

Da qui l’obbligo per tutti i cittadini di riconoscersi nella religione cattolica: "Da quanto detto consegue che non è assolutamente lecito invocare, difendere e concedere una ibrida libertà di pensiero, di stampa, di parola, d’insegnamento, di culto come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito all’uomo" [8].

A ciò corrisponde l’imposizione della morale cattolica non solo sul piano sessuale e famigliare, ma anche in campo politico e sociale in modo del tutto funzionale agli interessi delle classi dominanti.

Ancora alla fine del secolo XIX questo papa "progressista" bollava gli schiavi ribelli: "se tra di loro taluno, allettato da qualche speranza di libertà, avesse ordito una violenta sedizione, sempre la Chiesa riprovò e represse quei peccaminosi desideri in quanto la proprietà privata, anche degli schiavi, è un diritto di natura che distingue l’uomo dal bruto e i diritti dei ricchi e dei principi vanno difesi anche se esercitati a capriccio e non è consentito a nessuno insorgere a proprio talento ma sperare di raggiungere il rimedio con la pazienza cristiana e con insistenti preghiere al Signore" [9].

NOTE

[4] Epistole 5, 13, 117, citato da Deschner, Storia Criminale del Cristianesimo, vol. III.

[5] Deschner, Storia Criminale del Cristianesimo, Vol. VII.

[6] "Quare lacrymae",  17 Giugno 1793.

[7] "Bolla Immortale Dei", 1 Novembre 1885.

[8] "Bolla Libertas", 20 Giugno 1888.

[9] Enciclica "Quod apostolicis muneris", 28 Dicembre 1878.

II

La teocrazia dei tre Pii

In pieno ventesimo secolo, le cose non vanno meglio con i suoi successori. Pio X anzi, non si accontenta di uno Stato confessionale ma vuole che esso assuma addirittura i fini della Chiesa: "E' un errore pericolosissimo pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa, perché così si limita l’azione dello Stato alla sola ricerca della prosperità pubblica in questa vita e non si occupa minimamente della beatitudine eterna, mentre non solo il potere civile non dovrebbe ostacolare questa conquista ma anzi dovrebbe aiutarci a compierla" [10].

E ancora papa Pio XI: "L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono a rigore di diritto alla Chiesa ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana. Se c’è un regime totalitario questo è il regime della Chiesa perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa , deve appartenerle, dato che l’uomo è la creatura del buon Dio e il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio non è che la Chiesa!" [11].

La conclusione è sempre che a Dio e alla Chiesa, che lo rappresenta, deve obbedire anche chi non le crede poiché " in uno stato cattolico libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica" [12].

Seguirà a ruota Papa Pio XII che, nel 1956, parlando agli amministratori locali cattolici, così si espresse: "A Dio appartengono gli uomini e le cose, le strutture e le istituzioni, i continenti e le nazioni. Di Dio sono quindi le province e i comuni e anch’essi, come tali, devono dargli gloria, devono rendergli il dovuto onore".

La teocrazia camuffata

L’avvento al pontificato di Giovanni XXIII sembrò incrinare il sogno teocratico e segnare un momento di rottura e di discontinuità.

Esso fu in qualche modo il frutto della pressione della base cattolica stimolata dal mutato clima politico e sociale, che favorì il moltiplicarsi di fermenti innovatori.

Ma si trattò di un movimento effimero e in qualche modo negativo, perché alimentò l’illusione che la Chiesa potesse cambiare mentalità e atteggiamento.

La stessa enciclica "Pacem in terris" non si distacca dalla linea tradizionale, per quanto riguarda la ribadita supremazia della Chiesa sulla società civile.

Giovanni XXIII, come Pio X, ripropone il dovere dei pubblici poteri di attuare il bene comune "in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì al raggiungimento del fine ultraterreno ed eterno" e raccomanda ai cattolici di operare in politica "in accordo con i principi del diritto naturale, con la dottrina sociale della Chiesa e con le direttive delle autorità ecclesiastiche, poiché compete alla Chiesa il diritto e il dovere non solo di tutelare i principi dell’ordine etico e religioso, ma anche di intervenire autoritariamente presso i suoi figli nella sfera dell’ordine temporale, quando si tratta di giudicare dell’applicazione di quei principi ai casi concreti".

E il "diritto naturale" cui si richiama è, in realtà, quello di cui parla Tommaso, ossia "ciò che è ritenuto diritto naturale e retta ragione dalla Chiesa in quanto si accorda con la sua dottrina".

Come sempre, è la Chiesa che deve guidare la società, rafforzata dalla convinzione di avere la ragione, oltre che Dio, dalla sua parte.

Se il Cattolicesimo pare meno sfrontatamente teocratico dell’integralismo islamico è solo perché, trovandosi ad operare in una società secolarizzata, (a differenza delle società islamiche) è, per un verso, costretto ad una maggiore prudenza formale e, per altro verso, deve e trova utile travestire da principi "naturali" e "razionali", che tutti devono condividere, valori che sono in realtà propri solo della Chiesa e non condivisi neppure da tutti i cattolici.

Questa gherminella, già usata da Leone XIII, è diventato un leit-motiv ripetuto ossessivamente, e senza le buone intenzioni giovannee, dai papi restauratori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Nel 1988 il rilancio del fondamentalismo cattolico si ebbe con la ripubblicazione di un documento preconciliare, in cui i vescovi italiani sfrontatamente rivendicavano alla Chiesa "una superiore missione spirituale orientatrice, illuminatrice, vivificatrice nell’ordine temporale" [13] condannando come "laicismo" l’opinione di quanti rifiutano una vita pubblica guidata dalla "tradizione cattolica" e dal Vangelo.

Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, pubblicato da Wojtyla, invita i poteri politici a riferire i loro giudizi e le loro decisioni "alla verità su Dio e sugli uomini che è stata divinamente rivelata", ossia alla religione cattolica.

Tale opinione Wojtyla ribadì all’Angelus del 20 febbraio 1994 affermando che "con la risoluzione del Parlamento Europeo a favore delle unioni di fatto etero ed omo si è chiesto di legittimare un disordine morale. Il Parlamento ha conferito indebitamente un valore istituzionale a comportamenti devianti, non conformi al piano di Dio".

Con rara impudenza il papa rimprovera all’Europa laica e pluralista del XXI secolo di aver legiferato in maniera difforme da quello che la Chiesa ritiene il piano di Dio, cioè di non aver agito come l’Europa cristiana di Carlo Magno (che anche altre volte il papa porterà ad esempio).

La "sana" laicità di Benedetto XVI

L’escamotage consiste nel far credere che i comportamenti dichiarati "conformi al piano di Dio" non siano di per sé valori confessionali, ma esigenze etiche radicate nell’essere umano e appartenenti alla legge morale naturale.

Questo viene affermato nella Nota dottrinale circa i cattolici nella vita politica, del 2002, redatta dalla Congregazione per la dottrina della Fede, presieduta da Ratzinger ed approvata da Giovanni Paolo II, a conferma della continuità tra i due pontificati.

Questa impostazione, che cerca di sbarazzarsi delle accuse di "confessionalità", contrabbandando come "diritto naturale" le dottrine cattoliche, sarà riproposta continuamente da Benedetto XVI durante le campagne politiche contro unioni di fatto, aborto ed eutanasia, grazie alla servile complicità dei politici italiani.

"Una sana laicità dello Stato comporta senza dubbio che le realtà temporali si reggano secondo norme loro proprie - dirà nel discorso ai vescovi italiani del 2006 - alle quali appartengono però anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo e pertanto rinviano in ultima analisi al Creatore. E il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio, come ci ha spiegato Pio XI, non è che la Chiesa."

Il progetto di Ratzinger è anzi di trasformare in uno stato teocratico, cioè fondato sul cristianesimo, non solo l’Italia ma l’intera Europa: "Voi sapete di avere il compito di contribuire ad edificare, con l’aiuto di Dio, una nuova Europa ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo".

Il ruolo politico del fondamentalismo

Il cattolicesimo come tale, e non solo nelle sue piccole minoranze marginali, è un fondamentalismo che le tattiche raffinate per sopravvivere in un ambiente ostile, quello della modernità, hanno reso solo più insidioso di altri, più difficile da smascherare e più pericoloso per la democrazia.

Rimane ugualmente incompatibile perché, come ha scritto Rodotà: "impone ai legislatori cattolici di riferirsi non ai valori definiti nella Costituzione, ma a quelli di un diritto naturale di cui la Chiesa si fa unica interprete con una pretesa di monopolio, che svela un’attitudine autoritaria incompatibile con le regole di un sistema democratico" [14].

A chi protesta contro l’intromissione vaticana nell’attività del legislatore laico, si ribatte che la Chiesa ha il diritto di "dire la sua" e di esigere dai politici cattolici coerenza con la loro fede.

Ma il problema non nasce quando la Chiesa "dice la sua", bensì quando la sua consiste nel chiedere allo Stato (e nell’ordinare ai politici cattolici) di penalizzare e privare dei diritti i non cattolici, ad esempio di "non legalizzare" unioni diverse dal matrimonio monogamico o di vietare, in modi ipocriti e violenti, che il fine vita possa essere dignitosamente gestito dall’interessato secondo le norme riconosciute dalla Costituzione.

Né il tentativo e il ruolo politico del fondamentalismo cattolico è solo quello di imporre a tutti i cittadini una morale patriarcale, repressiva ed omofoba o di espropriarli del diritto a decidere della loro vita e della loro morte.

Esso assolve anche alla funzione di fornire un sistema di valori e un’ideologia di riferimento alla destra politica, aiutando il consolidarsi in Italia, sul piano politico e sociale, di un potere reazionario.

NOTE

[10] "Bolla Vehementer", 11 Febbraio 1906.

[11] "Discorso ai sindacati cristiani francesi", 1938.

[12] "Lettera al Segretario di Stato", 1929.

[13] "Il laicismo. Lettera dell’Episcopato italiano al Clero", 25 Marzo 1960.

[14] Rodotà, Il conflitto tra Stato e Chiesa e i diritti non negoziabili, La Repubblica, 21 Marzo 2007.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Religioni
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Aggiornamento: 14/12/2018