UMANISMO E VIOLENZA NELLA TRADIZIONE RIVOLUZIONARIA RUSSA

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


UMANISMO E VIOLENZA NELLA TRADIZIONE RIVOLUZIONARIA RUSSA

Una delle principali motivazioni con cui s'è giustificato il crollo del cosiddetto "socialismo reale" è stata quella secondo cui l'umanismo è un principio estraneo alle istanze sociali rivoluzionarie, giacché ogni rivoluzione è inseparabile dalla violenza e questa è incompatibile coi valori umani universali: quindi prima o poi ogni rivoluzione fallisce e i fallimenti sono tanto più tragici quanto più si cerca d'impedire con la forza il loro fatale destino.

A riprova di questa tesi si citano non solo il terrore giacobino del 1789-93 ma anche la politica repressiva dei bolscevichi durante il comunismo di guerra, gli orrori del regime staliniano o di quello maoista o di altre dittature comuniste. In particolare si sostiene che la violenza dei bolscevichi si colloca su una tradizione ben consolidata, che risale agli atti terroristici dei populisti e dei socialisti-rivoluzionari e che ideologicamente trova il suo incipit nelle teorie dei democratico-rivoluzionari. Da questa tradizione si salverebbero soltanto i decabristi, che si limitarono a impaurire lo zar, senza scendere ad atti concreti (uno degli organizzatori della dimostrazione, P. Pestel, poi giustiziato, rinunciò a compiere l'attentato, temendo di coinvolgere troppi innocenti).

Il romanzo di F. Dostoevskij, I demoni, è considerato quasi come un paradigma di tutte le conseguenze negative della coscienza rivoluzionaria. Nemico intransigente di ogni violenza rivoluzionaria, Dostoevskij non rigettava affatto l'uso della violenza in generale, tant'è che fu costretto a farsi quattro anni di lavori forzati e altri sei come soldato semplice nell'esercito. Il radicalismo russo ha sempre accettato l'idea secondo cui può essere giustificata la violenza diretta contro gli oppressori e gli sfruttatori. Nel suo Novembre 1916, A. Solgenitsin ricordò che persino la prima Duma liberale s'era rifiutata di condannare moralmente il terrorismo, anzi più volte pretese l'amnistia per i terroristi.

Varlam Shalamov (1907-82), autore dei Racconti della Kolyma, il cui destino fu tragico, scrisse che le cause di quel terrore così disastroso, che s'abbatté sulla Russia dagli anni Venti agli anni Quaranta, era stato una diretta conseguenza del fatto che gli scrittori "umanisti" russi della seconda metà del XIX sec. ritenevano del tutto giustificabile l'uso della violenza per abbattere i governi repressivi. Shalamov intendeva riferirsi non solo agli scrittori d'orientamento populista e socialista che predicavano la fine dello zarismo, ma anche ai seguaci della filosofia tolstoiana, la cui ben nota giustificazione della "non resistenza al male" fu solo una conseguenza della crisi mistica che colpì il grande scrittore, una crisi che in seguito riguarderà altri eminenti intellettuali, passati dal socialismo al cristianesimo, come p.es. il teologo S. N. Bulgakov, l'esistenzialista N. Berdjaev e lo stesso Dostoevskij.

Persino il filosofo religioso V. Solov'ev, le cui idee non vengono certo considerate antiumaniste, affermava che la violenza in sé non può essere considerata immorale. E lo diceva criticando le opinioni del Tolstoi cristiano, secondo cui la violenza è inammissibile sotto qualunque forma e in qualunque circostanza.

Solov'ev scriveva che in certe situazioni la violenza è addirittura necessaria dal punto di vista morale: p.es. quando si arriva a uccidere, anche involontariamente, un criminale che minaccia l'incolumità degli altri. Gli stessi cristiani - diceva ancora Solov'ev - non rinunciavano a servirsi della forza dello Stato per scatenare guerre contro i loro nemici.

Nonostante questo, egli disprezzava profondamente il socialismo, ritenendo ch'esso sacrificasse del tutto i valori morali sull'altare degli interessi materiali (cfr La critica dei principi astratti). A quel tempo, contro questa visione distorta del socialismo s'era sollevato un docente di diritto presso l'Università di Mosca, B. Cicerin, di idee liberali filo-occidentali, che invece vedeva proprio nei princìpi morali, il primo dei quali era la giustizia sociale, la molla che aveva fatto nascere il socialismo rivoluzionario (cfr Il misticismo nella scienza).

Persino un supporter della filosofia mistica di Solov'ev, E. Trubetskoj arrivò a dire che l'umanismo, nella seconda metà del XIX sec. era professato in Russia dai rivoluzionari atei e che sarebbe stata impossibile una diffusione così repentina del socialismo se ci si fosse basati unicamente sugli interessi materiali (cfr La concezione del mondo di V. Soloviev).

In effetti l'idea di servirsi di soluzioni pacifiche, diplomatiche, è relativamente recente, risalente al secondo dopoguerra: prima d'allora era normale considerare le civiltà fondate sulla violenza (schiavismo, servaggio...). Lo stesso sviluppo della borghesia sarebbe stato impossibile senza l'uso della violenza, che Marx definiva col termine di "levatrice della storia", senza per questo voler dire che i rivoluzionari erano dei vampiri assetati di sangue.

Le attuali procedure basate sul confronto democratico sono esse stesse il risultato di una lunghissima lotta cruenta che gli oppressi hanno condotto per rivendicare i loro diritti. Nella storia è difficile incontrare delle rivoluzioni che non siano fatte per liberare le masse da una qualche forma d'insopportabile oppressione. P.es. durante la prima rivoluzione borghese, iniziata nel 1566 nei Paesi Bassi, molti si sollevarono contro il culto cattolico delle immagini religiose (una sorta di iconoclastia come ai tempi del basileus Leone III). Oltre 5.500 chiese e monasteri vennero distrutti. Le truppe spagnole soffocarono nel sangue la rivolta, la cui motivazione fondamentale stava semplicemente nel fatto che la chiesa cattolica usava violenza contro i calvinisti. L'insurrezione riesplose sei anni dopo, scatenando una guerra civile che si concluderà solo nel 1609.

E la rivoluzione inglese non durò forse mezzo secolo? Circa sette anni dopo l'inizio della guerra civile, nel 1649, il re Carlo I fu giustiziato da Cromwell, il quale però, pur cercando di consolidare il proprio potere, fece molto perché in Inghilterra s'instaurasse un regime parlamentare.

Questo per dire che la storia nega l'idea che la democrazia possa svilupparsi senza rivoluzioni, il che di per sé non vuol dire che le rivoluzioni debbano essere considerate l'unico modo per sviluppare la democrazia, né che debbano per forza essere sanguinose. L'assalto al Palazzo d'Inverno, con cui si pose fine alla dittatura plurisecolare zarista, costò la vita soltanto a cinque marinai e un soldato.

Appare singolare che ancora oggi gli ideologi borghesi siano disposti ad ammettere un enorme spargimento di sangue nelle guerre tra nazioni, in cui vengono coinvolti, nel ruolo di militari, persone che non avrebbero alcun motivo di combattere, e non sono disposti ad ammettere uno spargimento molto minore di sangue quando i contendenti appartengono a classi sociali opposte all'interno di una medesima nazione. Quale guerra è più fratricida? Quella dove milioni di operai e contadini di una nazione ammazzano milioni di operai e contadini di un'altra nazione (come è avvenuto nelle ultime due guerre mondiali), o quella dove gli operai e i contadini di una nazione si ribellano a un pugno di sfruttatori della loro stessa nazione?

Qui non si deve dimenticare il fatto che dopo la lunghissima fase del comunismo primitivo, la storia ha conosciuto nuove civiltà basate unicamente sugli antagonismi sociali, cioè sulle differenze inconciliabili di ceti, classi, caste... La violenza è parte costitutiva di queste civiltà, nel senso ch'essa viene esercitata anche quando gli oppressi non manifestano atteggiamenti di protesta.

Per un intero secolo (1789-93, 1830, 1848, 1871) la Francia fu sconvolta da quattro rivoluzioni e da circa vent'anni di guerre napoleoniche. Ora, chi mai potrebbe dire che le rivoluzioni di questo paese sono state il risultato del carattere "sanguinario" dei propri rivoluzionari? Non sarebbe forse più giusto dire ch'esse sono state provocate dalla pervicace volontà delle classi egemoni di conservare i propri privilegi? E chi potrebbe oggi mettere in dubbio il carattere democratico delle istituzioni francesi?

In Russia le rivolte contadine furono solo un mezzo estremo per liberarsi di un giogo divenuto insopportabile e che gli agrari avrebbero voluto conservare ad libitum. N. Cernysevskij ebbe a dire che a volte persino i rivoluzionari che le sostenevano diventavano vittime delle masse insorte. Sapeva bene infatti che l'esasperazione contro i latifondisti intenzionati a non fare concessioni di sorta, portava facilmente a reazioni incontrollate.

Anche Herzen, Pisarev... consideravano la rivoluzione come un mezzo estremo cui era possibile ricorrere quando tutti gli altri mezzi s'erano rivelati inefficaci. Non vedevano in questo un soggettivismo malato dei rivoluzionari. Potrà anzi apparire inverosimile, ma lo stesso Comitato esecutivo populista, Narodnaja volja (Volontà del popolo), che decise di assassinare lo zar Alessandro II nel 1881, protestò contro l'attentato mortale, nello stesso anno, al presidente americano J. A. Garfield, sostenendo che in un paese come gli Stati Uniti esisteva, a differenza che in Russia, la possibilità di una lotta ideologica "onesta" e il popolo era in grado d'intervenire sulle leggi e di decidere persino il tipo di governo.

Lo stesso Comitato spedì una lettera al nuovo zar di Russia affermando che nel precedente regicidio non vi era stato nulla di "personale": i rivoluzionari venivano creati dalle circostanze, che nella fattispecie riguardavano milioni di contadini intenzionati a volere la fine del servaggio. Un assassinio del genere - possiamo aggiungere noi - non può neppure lontanamente essere paragonato a quello che fecero i bolscevichi nei confronti dell'ultimo zar Nicola II e della sua famiglia, per quanto l'organizzatore di quella fucilazione, Yurovski, fosse convinto d'aver compiuto un dovere supremo per il bene dell'intera umanità.

D'altra parte se è vero che grandi scrittori come Tolstoi, Dostoevskij, Saltykov-Scedrin... detestavano la violenza rivoluzionaria, è anche vero che detestavano ancor più quella ammantata di legalità dello zarismo. Chiunque insorgesse contro l'autocrazia suscitava ammirazione per il suo eroismo, per la sua abnegazione, anche in coloro che ne rifiutavano i mezzi di lotta.

Marx ed Engels appoggiavano le iniziative della Narodnaja volja, desiderando fortemente una rivoluzione in Russia, pur mentre condannavano la tattica terroristica nei paesi europei. E non erano i soli a comportarsi così: i rivoluzionari russi trovavano ampi consensi anche da parte delle grandi figure della cultura occidentale dell'epoca, come V. Hugo, B. Shaw, A. Daudet, M. Twain, C. Swinburne ecc. Di fronte a una situazione così assurdamente anacronistica, quale quella russa, era assai raro trovare qualcuno che predicasse la rassegnazione, la non-violenza, il progresso pacifico e graduale dei piccoli passi...

Quando nel 1887 si cercò di assassinare lo zar Alessandro III, i terroristi erano soltanto "giovani promesse", per lo più studenti universitari. P.es. A. Ulianov, fratello maggiore di Lenin, era uno studioso di scienze naturali all'Università di San Pietroburgo, nonché segretario della Società di Letteratura russa, coordinata dall'accademico O. Miller, propagandista e ammiratore appassionato di Dostoevskij. Tutti i quindici accusati furono condannati a morte ma dieci di loro ottennero la grazia. Aleksandr Uljanov, che aveva rivendicato la sua responsabilità alleggerendo quella degli altri imputati, rifiutò ogni manifestazione di pentimento e insieme ad altri quattro membri del complotto, fu impiccato l'11 maggio 1887. Fu a quel punto che il giovane Lenin maturò la convinzione che lo zarismo non avrebbe mai potuto essere abbattuto con azioni estremiste, ma solo con la rivoluzione di tutte le classi oppresse.

Tendenzialmente i populisti cercavano di evitare di coinvolgere, nei loro atti terroristici, la gente comune. Sul piano ideologico avevano rinunciato al principio: "Chi non è con noi è contro di noi". Anzi, sostenevano che le persone e i gruppi sociali al di fuori della lotta contro il governo andavano considerati come neutrali, inviolabili, anche nei loro beni. In realtà assai difficilmente potevano risparmiare a queste persone il rischio di diventare vittime del terrore antizarista. Era praticamente impossibile non violare le norme universali della morale.

Noi in occidente siamo soliti qualificare i terroristi come fondamentalisti islamici o come estremisti di destra o di sinistra, oppure come anarchici insurrezionalisti. Quest'ultimi vengono dipinti come soggetti asociali, individualisti, antistatalisti, insofferenti a qualunque forma di organizzazione sociale e politica in cui venga esercitato un "potere".

In realtà l'anarchia, il cui termine effettivamente significa "senza potere", va dall'anarco-individualismo di Stirner all'anarco-comunismo di Kropotkin. Se si esaminano le idee di quest'ultimo, si noterà facilmente che l'anarchia altro non è che una società di uomini giuridicamente uguali, che agiscono senza costrizioni esterne, senza timori di pene e sanzioni, ma soltanto in virtù di una matura coscienza interiore. L'idea di solidarietà umana di Kropotkin non era molto diversa da quella di Marx.

Certo, forse il suo umanismo era più ideal-naturalistico che storico-materialistico, ma è stato un errore del marxismo sovietico negare qualunque cittadinanza a questa ideologia politica. Kropotkin giustificava la violenza rivoluzionaria quando all'ordine del giorno vi era l'abbattimento di uno Stato oppressivo, e, nello stesso tempo, ammetteva la possibilità d'una trasformazione pacifica della società. Aveva in orrore l'idea di poter sacrificare vittime innocenti in nome della rivoluzione e pensava che la violenza potesse essere giustificata soltanto da un ideale elevato, che prevedesse la costruzione di una società alternativa a quella presente. Non per nulla salutò con entusiasmo la rivoluzione d'Ottobre, anche se negli anni Venti s'era già accorto - come Lenin, d'altra parte - che la crescente classe burocratica stava diventando una nuova borghesia.

Certo è che se non si usasse l'ideologia come un macete, forse le rivoluzioni sarebbero meno frequenti, oppure più popolari e forse meno violente. Le differenze ideologiche sono inevitabili, ma non dovrebbero essere preposte a una qualunque intesa politica volta a favorire la democrazia. P.es. quando E. Mounier cercò d'inserire il socialismo nella sua concezione di cristianesimo, favorì senza dubbio una collaborazione proficua dei comunisti coi cattolici in funzione anti-fascista.

Lo stesso "ritorno a Kant" della socialdemocrazia tedesca, alla fine del XIX sec., ch'era in fondo il tentativo di avvicinare cristianesimo e socialismo, non c'era bisogno di criminalizzarlo come un'aberrazione revisionistica. Anche E. Fromm cercò di sintetizzare socialismo e cristianesimo, dicendo che si sentiva debitore di Marx per aver capito la differenza tra "essere" e "avere".

Grandi scrittori non socialisti furono ostracizzati se non addirittura scomunicati dalle loro stesse chiese. P.es. la chiesa ortodossa russa, simbolo dell'autocrazia zarista, vedeva con grande sospetto le opere di Dostoevskij, Tolstoi, Solovev. I demoni di Dostoevskij anticipano perfettamente il fatto che dal totalitarismo religioso sarebbe nato quello ateo.

E' del tutto inutile elaborare un principio astratto umanistico che vada bene per qualunque circostanza. Infatti, anche se si dicesse che la soluzione migliore dei problemi è sempre quella pacifica o che nella ricerca di tale soluzione non si dovrebbe escludere il concorso di nessuno o che in ogni caso bisognerebbe permettere a tutti di esprimersi o che andrebbe dato un peso maggiore alla volontà della maggioranza, anche se si dicessero queste e altre cose astratte, generiche, le forze in campo le interpreterebbero in maniera opposta, a seconda degli interessi tutelati, e quelle egemoni farebbero di tutto per stravolgerle nel loro significato originario.

E' solo da un punto di vista meramente etico che si può sostenere che chiunque dovrebbe avere la preoccupazione di non considerare l'avversario politico un criminale, un nemico da abbattere in tutti i modi e con qualunque mezzo, anche perché qualunque atteggiamento intollerante non fa che aumentare l'intolleranza. Chi lotta per la giustizia e per il bene comune deve sapere che la violenza, al massimo, appartiene agli altri; a lui appartiene soltanto la legittima difesa, che non verrà mai esercitata in maniera sproporzionata al torto subìto o che comunque non verrà mai usata con uno spirito vendicativo, di rivalsa personale.

Detto questo, e per tutto il resto, possono essere solo le circostanze a stabilire, di volta in volta, da quale parte sia necessario mettersi per cercare la verità delle cose. E quando si pensa d'averla trovata, bisognerebbe evitare quegli atteggiamenti prevaricatori e supponenti che finiscono col ridurre al minimo le possibilità di successo della stessa verità.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018