SULLA NATURA DEL PROGRESSO

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


SULLA NATURA DEL PROGRESSO

Vivere un rapporto umano autentico oggi significa recuperare l'unità perduta. Il desiderio di recuperare questa unità forse oggi è molto più forte che nei secoli passati: semplicemente perché siamo ai limiti della follia. Chi ha letto Foucault sa che la follia è soltanto una verità disperata.

Nei secoli passati il desiderio era forte perché si aveva consapevolezza di quello che si stava perdendo. Oggi, in molti, la convinzione che quell'unità sia andata definitivamente perduta, porta a un radicale pessimismo; in altri invece il desiderio è ancora più forte, poiché si ha come la percezione che senza quell'unità (o senza una forma analoga di unità) l'umanità rischia di compiere azioni molto più irrazionali che nel passato. In fondo noi non abbiamo il diritto di pretendere che il nostro individualismo non abbia alcun prezzo da pagare, né il diritto di esigere condizioni migliori prima di poter scegliere il nostro destino. Le scelte vanno compiute hic et nunc, sulla base di quello che siamo.

Il concetto di "progresso" (storico) non implica di per sé un'attenuazione di quella tensione emotiva sempre presente nel momento in cui si giocano le possibilità della nostra libertà. Cambiano le circostanze, le proporzioni del rapporto, ma il risultato dev'essere equivalente: il poter compiere una scelta di vita, altrimenti tra un'epoca storica e l'altra non ci potrebbe essere comunicazione, scambio di idee paritetico. Il passato non deve avere possibilità minori, rispetto al presente e al futuro, di sentirsi migliore. La storia dev'essere concepita come un terreno in cui le varie civiltà, epoche o formazioni sociali si possono e si debbono confrontare nel bene e nel male, senza che nessuna abbia la pretesa d'insegnare alle altre e di non avere, nel contempo, l'umiltà d'imparare.

Vivere un rapporto umano autentico è, in questo senso, l'esigenza primaria dell'uomo storico. Ogni uomo della terra, infatti, ha desiderato, almeno per un momento, di recuperare l'unità perduta, ovvero ha desiderato superare tutte le forme di alienazione che lo dividevano dagli altri esseri umani e dalla natura. Paradossalmente si può dire che la storia è un percorso in avanti per ritrovare qualcosa che si è perduto nel passato. Almeno ad una generazione dovrà essere possibile ottenere questo, foss'anche solo in maniera simbolica o paradigmatica. Se su questa terra sarà ritrovata l'unità originaria, possiamo star certi che avremo una consapevolezza assai diversa da quella che aveva la generazione che cominciò a perdere quella stessa unità.

Ai posteri va lasciato il diritto non di giudicare (ché il futuro non è in grado di giudicare il presente più di quanto il presente non sia in grado di giudicare se stesso, in quanto ogni presente ha il suo significato e solo chi lo vive sino in fondo è in grado di giudicarlo), bensì va lasciato il diritto di affrontare il processo del continuo superamento delle contraddizioni, che è poi il diritto alla libertà di sbagliare e alla responsabilità di correggere i propri errori. Il maggiore contributo che possiamo offrire alle future generazioni è quello di non mettere ipoteche sul nostro futuro, è quello di considerare il presente come un'opera incompiuta, un momento transitorio verso un fine superiore. I posteri erediteranno senza dubbio il peso di tutte le contraddizioni irrisolte del presente, ma insieme a queste devono anche poter fruire delle opportunità per tentare soluzioni diverse dalle nostre. I posteri hanno il diritto di stabilire quali contraddizioni meritano di essere risolte e quali invece, sulla base di una diversa interpretazione, vanno giudicate di secondaria importanza. Ecco perché il nostro presente non deve creare delle condizioni per le quali il futuro sia invivibile. L'uomo deve sentirsi parte di un unico processo storico.

CIVILTA' E PROGRESSO SCIENTIFICO

Il progresso storico esiste anche se a volte sembra non esserci. Può infatti accadere che cose positive di un'epoca storica vengano perdute dalla successiva - e ciò soprattutto accade quando una civiltà crolla in modo tragico, come ad es. quella romana, oppure perché distrutta da eventi bellici, come ad es. quelle pre-colombiane, o da eventi del tutto naturali, come poteva accadere nel mondo primitivo. Ma non succede mai che a un'epoca di decadenza subentrino all'infinito altre epoche decadenti. Il "male" trova sempre un limite nella stessa capacità che gli uomini hanno di sopportarlo.

Ciò significa che se in un'epoca si perdono alcune positive conquiste dell'epoca precedente (cosa che soprattutto si verifica sul terreno della tecnologia), nel complesso si è fatto ugualmente un passo avanti, anche se nulla garantisce la permanenza e l'ulteriore sviluppo di tale progresso (ad es. il colonialismo ripropose, a partire dal XVI secolo, la schiavitù del mondo greco-romano che il Medioevo non aveva quasi conosciuto). In questo senso si può dire che ciò che soprattutto evolve è la concezione che l'essere umano ha di se stesso, è l'autoconsapevolezza degli uomini (ad es. il capitalismo ha sì restaurato, per alcuni secoli, la schiavitù, ma questo fenomeno incontrò una certa resistenza, anche da parte della stessa coscienza borghese, al punto che si è deciso di abolirla, tanto che se anche sul piano pratico continuasse clandestinamente a sussistere, è assai improbabile che sul piano giuridico la si potrebbe ripristinare). Certo, il progresso è stato lento, ma la causa di ciò va addebitata alla scarsa consapevolezza che gli uomini, in genere, hanno di loro stessi. Quanto più è grande la consapevolezza dell'identità e dignità umana, tanto più una determinata epoca si affermerà in modo autonomo (originale) rispetto all'epoca precedente, evitando di ereditarne gli aspetti più deteriori. Il Medioevo non conobbe gli acquedotti e le fognature del mondo romano, però seppe trasformare lo schiavo senza diritti in un servo con dei diritti.

Il progresso storico non può riguardare unicamente la scienza e la tecnica, il benessere materiale o l'industrializzazione. Se si dovesse interrompere la catena di tutte le innovazioni scientifiche, questo di per sé non sarebbe fonte di regresso sociale. O almeno non dovrebbe essere considerato come tale, poiché l'aspetto "sociale" riguarda ogni lato umano, non solo quello della produttività, del macchinismo, ecc. In verità, il progresso storico più autentico è quello dei valori umani, è quello del perfezionamento dell'umana autocoscienza. Il progresso tecnologico dovrebbe essere finalizzato a questo, oppure dovrebbe essere considerato irrilevante ai fini della maturazione di tali valori: non si può considerare più "democratica" una civiltà più "tecnologica" di un'altra; poter "fare" più cose (soprattutto nei confronti della natura) non significa di per sé "essere" migliori, più umani. Quanto a "civiltà umana" gli indiani d'America non erano certo inferiori ai coloni europei.

Il progresso tecnico-scientifico non costituisce motivo sufficiente perché una civiltà abbia il diritto di sopravvivere. Le civiltà che hanno questo diritto, cioè il diritto di continuare il processo storico, sono quelle ove i valori umani appaiono autentici, semplicemente perché vengono "vissuti". In Occidente i valori sono più che altro "formulati", "proclamati", "tutelati" dalle istituzioni, persino "garantiti" dalle Costituzioni...: il che dà l'impressione che, se non lo fossero, nessuno li rispetterebbe. Diceva il filosofo L. Hejdánek di Charta '77: "Ogni Stato che si sia assunto la posizione di garante dei diritti e delle libertà umani e civili, li viola già ipso facto". Purtroppo la realtà vuole che quando i valori umani vengono vissuti, ciò avviene non perché ci sono le leggi e le istituzioni borghesi, ma nonostante queste leggi e istituzioni. Da noi spesso ci si illude che i valori siano rispettati proprio perché sono formalmente previsti in qualche "documento", senza considerare che ad es. la criminalità d'ogni specie (legale e illegale) si serve proprio del fatto che tali valori sono soltanto "previsti" sulla carta. Il socialismo reale, in fondo, è crollato anche per l'incapacità di sostenere queste evidenti ipocrisie.

PROGRESSO SCIENTIFICO MONDIALE

Le civiltà extra-europee o extra-occidentali stanno lentamente acquisendo i frutti del nostro progresso tecnologico. Se anche subentreranno alla nostra civiltà a un livello tecnologico di molto inferiore, sarà lo stesso un progresso. La storia va avanti perché c'è l'uomo non perché c'è la tecnica. Le esigenza di umanità hanno sempre molte più ragioni di quelle della tecnica. Definire "preistorica" quell'epoca in cui l'uomo non disponeva di una tecnologia avanzata, è un atto di arroganza e di superficialità, poiché la tecnologia non è di per sé indice di umanità (ad es. molta tecnologia nata per un fine di bene viene tranquillamente usata per scopi opposti. Vi è addirittura una certa tecnologia, quella nucleare militare, che nasce con fini anti-umanistici: tanto che se fosse usata al 100% in maniera distruttiva, potrebbe portare l'uomo che la subisce a livelli di sopravvivenza primitiva).

L'uomo che si emancipa dal pregiudizio, l'uomo che supera l'alienazione tra lavoro e capitale, l'uomo che unisce in sé lavoro intellettuale e manuale, l'uomo che non sfrutta i più deboli o il suo simile per vivere nell'opulenza, è un uomo che contribuisce al progresso più di qualunque altra cosa. Importa poco, in tal senso, che le future generazioni rischino di avere meno scienza e meno tecnologia, se va avanti questo processo autodistruttivo del mondo occidentale. È un controsenso puntare tutto sugli aspetti esteriori del progresso umano, senza considerare minimamente quelli interiori e qualitativi. Oggi l'Occidente possiede molto di più del Terzo mondo sul piano tecno-scientifico, ma sul piano dei rapporti umani, cioè della consapevolezza che bisogna avere della dignità umana, non ha forse molto di meno?

Se dobbiamo dunque preoccuparci dei destini dell'umanità, facciamolo da un'angolazione mondiale e non occidentale. La storia è l'evoluzione dell'uomo globalmente inteso. Se un certo uso della tecnica, dei mezzi produttivi, della proprietà conduce gli uomini di una determinata area geografica all'autodistruzione, la storia sarà portata avanti da altri uomini di altre aree geografiche. L'importante è che l'autodistruzione non coinvolga l'intero genere umano: ecco perché, considerati i potenziali bellici di cui oggi disponiamo, il problema della pace è il più urgente di tutti. Occorre che il trapasso di una civiltà in un'altra avvenga nella maniera meno cruenta possibile. Il fatto che un destino sia segnato non deve portare l'Occidente alla disperazione o a commettere follie. In fondo anche la civiltà borghese e capitalistica ha contribuito, a suo modo, a far progredire l'uomo.

COLLETTIVISMO E PROGRESSO SCIENTIFICO

È vero oggi l'imperialismo borghese, per conservare gelosamente quello di cui dispone, sembra essere sempre più disposto ad affermare una nuova barbarie, che forse non avrà eguali nella storia: pur di restare privilegiati, siamo anche disposti a distruggere le ricchezze che abbiamo creato con la nostra stessa tecnologia, siamo disposti a scatenare le guerre più insensate. In questo momento, non per espanderci ma per conservare quello che abbiamo conquistato con la violenza e la forza, abbiamo bisogno di una dittatura "politica" del capitale. E' incredibile l'analogia coll'impero romano. È come se ci trovassimo vicini alla fine della Repubblica, nel momento del passaggio all'Impero. Anche allora l'impero economico c'era già: si trattava semplicemente di prenderne atto sul piano politico adeguandovi la forma di governo.

Ma è anche vero che se al capitalismo restano ancora alcuni secoli di esistenza, dobbiamo, nell'attesa del crollo, costruire le fondamenta per la futura civiltà europea, cioè per il "nuovo medioevo" ("nuovo" perché non dovrà avere né servaggio né clericalismo).

Non si tratta tanto di rassegnarsi a far posto ad altri popoli, quanto di rallegrarsi che ci sia ancora la possibilità di un ricambio. Vi sono infatti dei popoli che soltanto i nostri pregiudizi di classe o di casta, soltanto i nostri interessi legati al dominio e allo sfruttamento impediscono di riconoscere come superiori a noi. Noi misuriamo la superiorità e l'inferiorità sulla base delle conquiste scientifiche e tecnologiche, invece che sulla base delle capacità umane di vivere i valori della vita. Sarebbe stato interessante, in questo senso, vedere cosa avrebbero potuto fare le comunità primitive pre-schiavistiche se non ci fosse stato il colonialismo a loro danno, ovvero che possibilità di sviluppo avrebbe potuto avere il comunismo primitivo se non fosse stato sconfitto dallo schiavismo e da tutte le altre civiltà antagonistiche e individualistiche. Ovvero sapere se ci sarebbe stato un progresso non meno scientifico dell'attuale senza dover distruggere le basi del comunismo primitivo. O forse dobbiamo pensare che proprio questa distruzione ha determinato una modalità di progresso tecnico-scientifico destinata a non avere alcun futuro?

Il nostro progresso occidentale infatti è caratterizzato da un marcato individualismo (vedi ad es. il concetto di proprietà privata), il quale, affermandosi, ha distrutto l'eden primordiale. Questo era inevitabile? Non era in alcun modo possibile conciliare individualismo e collettivismo? esigenza di progresso ed esperienza comunitaria? Il progresso è forse nato perché l'esperienza comunitaria primitiva risultava frustrante alle esigenze del singolo individuo? E' insomma possibile creare un socialismo democratico moderno che risponda alle esigenze di progresso e di socializzazione?

SUL CONCETTO DI PROGRESSO

Il concetto borghese di progresso è un controsenso, poiché da un lato induce a desiderare con tutte le forze un'identità soddisfatta di sé, dall'altro impedisce con tutti i mezzi di realizzare tale desiderio. Stimola e reprime nello stesso momento. Il capitalista infatti ha bisogno di vendere, ma vuole anche che tutti gli altri abbiano bisogno di comprare. Ma se si può solo comprare, vendendo al massimo "forza-lavoro", come si può essere soddisfatti?

Il concetto borghese di progresso rimanda al futuro la nostra emancipazione e intanto nel presente ci fa vivere come alienati, come individui frustrati. Fa pagare prezzi salatissimi e alla fine non garantisce nulla. Spingendo a desiderare sempre più (consumismo), impedisce che gli uomini s'accontentino del minimo indispensabile per vivere dignitosamente, quel minimo che assicura alla loro coscienza che nessun altro sta pagando per loro. Sarà mai possibile diventare poveri e liberi? Non è forse questo il vero progresso: vivere modestamente senza essere schiavi di nessuno, sapendo che la propria ricchezza non dipende dalla miseria degli altri?

Laddove è esistito il comunismo primitivo, il benessere consisteva nel non morire di fame e nella libertà interiore, ovvero nel non temere più di tanto il proprio futuro e quello dei propri figli, nell'avere inoltre un rapporto sano, equilibrato con la natura, con gli altri, con se stessi... Se questo comunismo non è mai esistito, bisognerebbe inventarlo. Ma se lo avvertiamo come desiderio, esso probabilmente s'è conservato nella memoria collettiva inconscia. Se il socialismo scientifico non è che un modo d'essere maggiormente conformi alla natura di questa realtà, esso non servirà a nulla, anzi non farà che aggravare le contraddizioni antagonistiche.

Il benessere vero o è per tutti o è falso. Laddove esistono ingiustizie di varia natura, lì esiste non soltanto benessere materiale per pochi e fame per molti, ma anche un diffuso malessere spirituale, che negli strati inferiori, marginali, meno consapevoli si esprime in forma di ignoranza, superstizione, fatalismo, mentre negli strati superiori si esprime in forma di cinismo e paura: cinismo per poter conservare la propria fortuna, paura per timore di perderla.

Questo diffuso malessere spirituale non inquina solo la natura e i rapporti umani, ma anche la coscienza di chi vi si crede immune. Paradossalmente, ci troviamo ad essere oggi, con tutta la scienza, la tecnica, i capitali e le armi che abbiamo, molto più insicuri degli uomini primitivi, che di tutto ciò non possedevano nulla.

Ecco perché dobbiamo affermare un nuovo concetto di benessere, un nuovo senso della qualità della vita. Dobbiamo creare una società in cui ognuno consumi quel che produce (o un prodotto equivalente), in cui gli scambi commerciali siano volontari, non obbligati, e che siano equi, cioè reciprocamente vantaggiosi: una società in cui nessuno possa sfruttare il lavoro altrui, possedendo molto di più di quel che effettivamente gli occorre. Dobbiamo ricondurre tutte le merci al loro valore d'uso.

UMANITA' E POTENZA MATERIALE

Resta anche di sapere se l'odierno progresso è proporzionato al nostro livello di maturità umana. Ci si può cioè chiedere: l'uomo moderno, che ha puntato a valorizzare al massimo le proprie capacità intellettuali, che è riuscito a creare condizioni incredibili di produttività economica, di benessere materiale, di potenzialità bellica... ha oggi la maturità sufficiente per continuare a gestire questo progresso, visto e considerato che per ottenerlo ha dovuto opprimere, sfruttare e uccidere? Non è forse più realistica la prospettiva che vede il futuro più povero di progresso materiale e più ricco di umanità, cioè di giustizia, uguaglianza e libertà per tutti?

L'Europa occidentale, il Giappone e soprattutto gli Stati Uniti s'illudono d'essere il frutto più maturo della civiltà umana solo perché possiedono una forza economica, tecnologica e militare che nessun altro Stato è in grado di contrastare. Ma questi poli imperialistici sanno benissimo che:

  1. la potenza "materiale" di cui dispongono è "reale" solo nella misura in cui gli altri Stati agiscono in modo separato (usando per lo più gli stessi metodi del mondo occidentale). La storia invece documenta a sufficienza che l'unità può rendere i deboli più forti dell'oppressore e che la loro forza morale ha un potere straordinario;
  2. che tutta la potenza materiale dell'imperialismo non è affatto in grado di garantire uno sviluppo lineare, progressivo, democratico alla civiltà borghese. Esistono infatti delle contraddizioni antagonistiche così acute che stanno portando i tre poli suddetti, dall'interno, al definitivo crollo. Quando ciò avverrà non possiamo saperlo, ma se anche si trattasse di alcuni secoli, l'importante sarebbe che, nel frattempo, gli uomini s'impegnassero a costruire le fondamenta della futura civiltà, affinché il "parto" avvenga con meno dolore possibile.

TERZO MONDO E COMUNISMO PRIMITIVO

Quel che è certo è che in futuro le nazioni che vorranno opporsi al socialismo democratico dovranno farlo dal punto di vista dello stesso socialismo, non del capitalismo, che ormai non ha più giustificazioni. Il capitalismo, a causa della sua disumanità evidente, della superficialità e del vuoto che caratterizza i rapporti sociali che al suo interno si vivono, non potrà più essere strumento sufficiente per contrastare il progresso autentico dell'umanità. L'evoluzione del pensiero e dell'ideologia ha già segnato, anticipandola, la fine del capitalismo, al punto che anche il peggiore socialismo è sempre ideologicamente più maturo del migliore capitalismo. Un sistema che poggia su se stesso le ragioni della propria esistenza, merita sempre più considerazione di quello che si autoafferma sfruttando risorse altrui. Il capitalismo, soprattutto nella fase imperialistica, in fondo è questo, e tutte le illusioni ch'esso alimenta, dipendono al 100% da questa realtà oppressiva mondiale.

La superficialità dei rapporti borghesi la si nota facilmente nei momenti in cui scoppiano delle guerre imperialistiche o neocoloniali. Basta vedere la risposta di quei pacifisti alla domanda che, ad un certo punto, i governi borghesi sono costretti a porre loro: "Se non vogliamo entrare in guerra col Terzo mondo, ovvero con qualche nazione di quest'area periferica del capitalismo, che si ribella al nostro sfruttamento, l'attuale benessere dell'Occidente crollerà: siete disposti ad accettare pace e miseria?". Un vero pacifista dovrebbe rispondere: "Sì, a condizione che la miseria, in Occidente, sia uguale per tutti". Si è mai sentita una risposta del genere? Da noi molti pacifisti borghesi non si rendono neppure conto che non si può rifiutare la guerra e conservare nello stesso tempo il benessere agli attuali livelli.

Per questo non è lontano il giorno in cui l'Occidente, allorché si renderà conto di non poter più frenare l'emancipazione economica oltre che politica del Terzo mondo, dovrà per forza imporre alla propria popolazione un severo regime di restrizioni e di austerità (eventualmente appoggiandosi sui partiti della sinistra): il che riporterà l'Occidente all'alba del capitalismo, cioè in quell'epoca caratterizzata da profonde e laceranti contraddizioni sociali. Se il Terzo mondo si emancipa economicamente e la borghesia metropolitana non vuole perdere la propria egemonia mondiale, le alternative sono due: o guerra col Terzo mondo, o guerra col proletariato occidentale (o entrambe le cose). Senza ombra di dubbio la guerra contro il proletariato occidentale si farà tanto più intensa quanto più l'Occidente perderà il confronto col Terzo mondo.

Probabilmente se il comunismo primitivo avesse avuto la possibilità di evolvere in modo "naturale", senza l'ostilità e l'individualismo delle società antagonistiche, avrebbe raggiunto un relativo progresso, poiché è nella natura dell'uomo migliorare gli strumenti di produzione, le proprie capacità operative, ecc. E l'avrebbe raggiunto senza danneggiare il progresso altrui, restando conforme alle proprie capacità gestionali. Non ci sarebbero stati gli squilibri e le assurdità di oggi. Il socialismo democratico sarà sicuramente un ritorno al comunismo primitivo, passando attraverso le società antagonistiche: forse con un livello di perfezione tecnologica e di benessere materiale inferiori a quelli realizzati nell'Occidente capitalistico (alle spalle del Terzo mondo), ma sicuramente con una maggiore carica di giustizia.

PREISTORIA E NATURA

Gli uomini primitivi hanno vissuto per secoli in un rapporto equilibrato con la natura, senza conflitti antagonistici all'interno delle loro comunità. Noi non dobbiamo considerare il progresso storico-sociale e tecno-scientifico come strettamente legato al rifiuto del loro tipo di vita. Noi dobbiamo credere nella compatibilità di progresso e socialismo. Se il socialismo è un ritorno all'equilibrio dei rapporti umani e dei rapporti con la natura, lo è senza dubbio in relazione al progresso scientifico e tecnologico, anche se dovendo scegliere fra un socialismo più democratico con un minor progresso tecnologico e un socialismo meno democratico con un maggior progresso, è da preferirsi il primo.

Chi fa risalire al progresso in quanto tale la causa dell'autodistruzione della civiltà capitalistica, non dà agli uomini alcuna speranza: semplicemente perché il ritorno sic et simpliciter alla preistoria è impossibile. Se esso avverrà, dovrà avvenire con la consapevolezza di un percorso storico compiuto, altrimenti la storia non sarà che una parentesi da dimenticare.

Occorre dunque, più che rimpiangere il passato, cercare di capire in quale maniera "civile" e "democratica" si può utilizzare il progresso. Certo è che se si parte dall'idea che tale maniera è irrealizzabile, in quanto le forze antagonistiche sono troppo superiori, si sarà facilmente portati a considerare la preistoria migliore della storia.

Ma la preistoria non è stato un processo uniforme, in cui gli uomini sono sempre rimasti uguali a se stessi. Anzi, proprio la nascita della storia sta ad indicare il bisogno umano di uscire dalla preistoria, cioè dalla limitatezza degli strumenti di produzione, di lavoro, dalla precarietà materiale dell'esistenza. La storia è anche un indice del progressivo distanziamento degli uomini dal mondo degli animali, la cui unica preoccupazione è quella di sopravvivere.

Chi pensa tuttavia che le leggi del progresso siano così forti, così indiscutibili, da rendere irrilevante, rispetto ai benefici ottenuti, il peso delle ferite inflitte a certi popoli della storia, dimentica che sono proprio quelle ferite che possono aiutare la ragione a rendere più umana, in futuro, l'idea di progresso.

E in ogni caso quando si può costatare che determinati modi di produzione sono rimasti sostanzialmente inalterati nell'arco non di secoli ma di millenni, bisognerebbe convenire che ciò potrebbe anche rappresentare un progresso formidabile del genere umano e non un segno della sua arretratezza. Infatti non si cambiano le cose che funzionano.

Se con pochi mezzi a disposizione l'uomo primitivo è riuscito a garantirsi la sopravvivenza, senza dover sfruttare il lavoro altrui, ciò significa ch'egli aveva raggiunto una grande autonomia, una grande maturità personale. Il continuo bisogno di modificare i mezzi e i metodi produttivi è segno di grande instabilità e precarietà. Il capitalismo, in tal senso, rappresenta il massimo dell'irresponsabilità collettiva.

TRANSIZIONE SCIENTIFICA ALL'AUTOCONSUMO

Bisogna trovare il modo di convincere l'opinione pubblica del mondo occidentale che l'alternativa al capitalismo non può consistere in un ritorno semplicistico ai rapporti naturali dell'autoconsumo. Occorre un processo di transizione.

Dobbiamo cioè tornare alla semplicità del passato ma con la coscienza del presente. Ciò significa che non possiamo rinunciare a tutte le scoperte tecno-scientifiche. Se valesse il principio secondo cui bisogna anzitutto soddisfare i bisogni fondamentali di ogni individuo, noi dovremmo rinunciare a quegli aspetti del progresso che appaiono superflui, inessenziali.

Oggi abbiamo la consapevolezza democratica che gli sforzi per migliorare le conquiste tecnologiche non servono a nulla se non sono finalizzate al bene comune. Ora, siccome questo bene comune non viene mai soddisfatto dal suddetto progresso, poiché permangono ingiustizie dovute ai rapporti antagonistici sul piano socioeconomico, forse è giunto il momento di dire: rinunciamo a una parte del progresso materiale per concentrare i nostri sforzi verso la soluzione dei problemi sociali. Stabiliamo cioè delle priorità.

Se non si ottiene questa scelta di campo, aumenterà inevitabilmente la sfiducia non solo nei confronti del progresso scientifico, ma anche nella capacità umana di risolvere i problemi in generale, nel futuro stesso dell'umanità. Sempre più le masse saranno indotte a credere che le moderne società sono destinate all'autodistruzione e che l'unico modo per evitarla era forse quello degli uomini primitivi, totalmente privi di progresso tecnologico.

Queste in realtà sono solo sciocchezze, sia perché anche l'uomo primitivo conosceva il progresso tecnologico, sia perché non è tale progresso che di per sé porta gli uomini all'autodistruzione. Semmai sono i rapporti antagonistici ad esso sottesi.

Il "male" non sta nel progresso tecnologico in sé, ma nel modo di usarlo, nell'esigenza individualistica che lo fa muovere, nella finalità di profitto privato verso cui può essere indirizzato.

PROGRESSO E SVILUPPO

Il concetto di "progresso" non può coincidere con quello di "sviluppo", poiché questo, nei paesi capitalistici, riguarda soprattutto la crescita quantitativa del prodotto interno lordo. Il vero "sviluppo", nell'ambito di una società non borghese, dovrebbe riguardare il miglioramento della qualità della vita. L'aumento del pil non implica mai, di per sé, un miglioramento del genere, anzi, se lo si osserva dal punto di vista dell'impatto ambientale, si deve piuttosto pensare a un progressivo peggioramento della qualità della vita. Questo senza considerare che se nel mentre si cerca di ottenere l'aumento del pil, non ci si preoccupa di soddisfare i bisogni primari della gente comune, quell'aumento sarà servito soltanto a poche persone. Verranno richiesti sacrifici collettivi per dei benefici individuali.

Dobbiamo in tal senso cercare di capire quale livello minimo di tecnologia può garantire un miglioramento effettivo e generale della qualità della vita. Ma per poter risolvere questo problema dobbiamo prima superare due forme di antagonismo: quella tra capitale e lavoro e quella tra uomo e natura.

ESIGENZE ETICO-SOCIALI E TECNOLOGIA

Se il moderno progresso tecnico-scientifico non fosse stato subordinato alle esigenze del profitto, non sarebbe stato così sconvolgente. Il progresso è stato impetuoso perché pochi l'hanno voluto contro l'interesse di molti.

Sin dall'inizio infatti il progresso è stato usato per distruggere il modo di produzione precedente. Solo in apparenza sembrava un progresso al servizio della collettività, sembrava cioè lenire i lavori monotoni o evitare quelli pericolosi. Soprattutto si cercava d'illudere la gente che serviva per aumentare la produttività, per eliminare l'inefficienza di certi mezzi lavorativi, per aumentare di molto la velocità dei trasporti.

Ma si trattava di un inganno, poiché là dove si cercava di risolvere un problema se ne creava un altro, molto più complesso da risolvere. Là dove la scienza portava profitti a pochi imprenditori, recava anche grandi sofferenze a molti lavoratori, la prima delle quali era la disoccupazione. Un'automazione troppo spinta del lavoro di fabbrica rende infatti inutile il lavoro manuale. Una cosa di questo genere, se fosse generalizzata nel sistema capitalistico, farebbe scoppiare conflitti sociali a non finire.

Il fatto è che quando ci si accorse che i vantaggi del progresso erano in realtà molto relativi, non si poteva più tornare indietro. E' questo il dramma della modernità, che quando si sbaglia, le conseguenze che si pagano sono disastrose, proprio perché i processi risultano irreversibili e a forte impatto socioambientale.

L'autoconsumo medievale e la vendita delle sole eccedenze sui mercati sono stati completamente distrutti dalla concorrenza dei prodotti industriali, dal monopolio dei mezzi, delle risorse, delle materie prime, dei prezzi, e quindi inevitabilmente dall'emigrazione, dall'abbandono delle terre, da una loro riconversione produttiva, e più in generale dalle illusioni di una nuova libertà e dalla rassegnazione di chi si sentiva incapace di fermare questo processo.

Gli storici si sono meravigliati che nel corso del Medioevo le popolazioni avessero abbandonato del tutto le conquiste tecnico-scientifiche del mondo greco-romano. Ma quando si ha la percezione che il progresso tecnico non serva a nulla per migliorare effettivamente i rapporti sociali, perché spendere delle risorse per sostenerlo?

Il Medioevo puntò a valorizzare gli aspetti etico-sociali della convivenza umana e, se si escludono il servaggio e il clericalismo, vi riuscì in maniera adeguata (in Russia le tradizioni contadine restarono prevalenti sino agli anni 1920-30 e se non vi fosse stato lo stalinismo, probabilmente il socialismo est-europeo sarebbe stato più agrario che industriale).

Il progresso tecnologico non è di per sé indice di alcun benessere etico-sociale, tanto meno lo è quando la sua "socializzazione" reca i maggiori benefici solo a pochi proprietari dei mezzi produttivi. Questo discorso vale anche mettendo in relazione i pochi proprietari ai paesi occidentali, che obbligano il Terzo mondo a un rapporto di dipendenza economica. Gli operai occidentali, pur essendo sfruttati dai loro imprenditori, partecipano con loro allo sfruttamento delle risorse umane e naturali dei paesi colonizzati, proprio usando il medesimo progresso.

Se scienza e tecnica fossero davvero al servizio della collettività, da tempo si sarebbero risolti problemi come la disoccupazione, l'inquinamento, le malattie, la fame, la siccità ecc. Invece oggi ci sentiamo tanto più frustrati quanto meno riusciamo a star dietro a questa mania di acquistare sempre gli ultimi ritrovati tecnologici. Buttiamo via cose ancora perfettamente funzionanti.

Di fronte a ogni più piccola proposta di migliorare una qualunque cosa, dovremmo prima chiederci a chi giova, cioè se serve veramente o se è possibile, volendo, farne a meno. Una cosa infatti sono i lenti miglioramenti realizzati dai lavori tradizionali; un'altra gli sconvolgimenti che mettono in crisi in poco tempo un consueto modo di produrre, di lavorare e quindi di vivere la vita. E' più segno di progresso la stabilità che non la continua innovazione.

Ogni modifica della tecnologia dovrebbe essere vagliata dal popolo lavoratore, e solo dopo ampie e lunghe verifiche si dovrebbe dare il via alla sua produzione in serie. Non si può rischiare di distruggere le tradizioni del passato solo perché l'interesse di qualcuno, unito all'intelligenza di qualcun altro, ha prodotto qualcosa di rivoluzionario. I singoli vanno tenuti sotto il controllo della collettività.

Se gli interessi etico-sociali vengono minacciati dalle scoperte scientifiche, bisogna rinunciare a queste e non relativizzare l'importanza di quelli. Accettare l'innovazione in quanto tale, senza tener conto delle sue ripercussioni etico-sociali e ambientali, significa non avere a cuore le sorti della collettività.

Una questione etico-sociale fondamentale che il progresso tecnologico ha sempre trascurato è la seguente: il criterio di misurazione del tempo può essere dato dalla capacità di guadagnare un profitto? La risposta ovvia dovrebbe essere no, ma oggi non c'è più nulla di ovvio.

Lo scandire del tempo e quindi delle mansioni lavorative (produttive e non), nonché delle attività ricreative (individuali o collettive) dovrebbe essere deciso - se vogliamo restare entro i limiti dell'etica - solo da una tradizione socialmente riconosciuta. Non può essere il lavoro di per sé che scandisce i ritmi del tempo; non può essere l'esigenza del profitto a determinare i ritmi del lavoro e il significato dello scorrere del tempo.

Il lavoro può trovare il suo significato (e così il tempo) solo nel significato di vita che una determinata collettività ha dato, per tradizione, a se stessa: soltanto lei può decidere se, come e quando modificarlo. Di regola una modifica del significato della vita, che voglia restare nell'ambito dell'etica, non può mai avvenire stravolgendo le condizioni sociali ereditate dalle generazioni passate. Una qualunque innovazione, per poter essere accettata, dovrebbe rispettare la tradizione, cioè la memoria storica di una determinata comunità, altrimenti è un salto nel buio, un arbitrio ingiustificato. Quando non si rispetta la memoria storica, si è fuori da qualunque etica.

Ciò naturalmente non significa che le forme concrete in cui l'etica si manifesta, si contestualizza in uno spazio-tempo, non possano (o anche non debbano) entrare in crisi o subire dei mutamenti legittimi. Ogni mutamento è legittimo e anzi necessario se con esso si cerca di recuperare un passato perduto, ritenuto migliore del presente. Qui non si contesta l'esigenza di rinnovamento sottesa alla nascita del mondo moderno, ma semplicemente che tale esigenza la si sia voluta sviluppare per distruggere tutto il passato.

La critica del formalismo dell'etica è giusta solo fino a quando non si vuole sostituire l'etica con l'estetica, cioè con la sospensione dei valori e dei giudizi. In tal senso bisogna dire che il mondo moderno, già a partire dall'Umanesimo e dal Rinascimento, rappresenta il dominio dell'estetica, cioè di un pensiero e di un'azione che si sono voluti sottrarre al controllo della volontà popolare.

E' estetica la scienza, la tecnologia, l'economia, la politica, persino la filosofia. E' estetico ogni pensiero avulso dalla realtà, la cui logica è solo un artificio intellettuale. E' estetico il modo stesso di produrre del capitalismo, caratterizzato dall'individualismo più spinto. E' estetica la gestione politica dello Stato borghese, dove ciò che conta è unicamente il potere. E' estetico il modo di vivere la sessualità, che si tende a tenere separata dall'amore. Concetti come profitto, potere, piacere, sillogismo, logica, persino inconscio... sono tutti di derivazione estetica, in quanto non controllabili da un collettivo, essendo privi di veri valori etici.

Una società o una civiltà del genere può reggersi in piedi solo con l'uso della forza, che è, se vogliamo, il concetto estetico per eccellenza.

SCIENZA E RELIGIONE

Si può guardare lo sviluppo della scienza e della tecnica dal punto di vista della religione, cioè considerandola negativamente, come in genere fanno i credenti, specie quelli integralisti, che la ritengono responsabile del progressivo distacco dall'umanesimo religioso.

In tal modo però si finisce col diventare nostalgici di un passato clerico-feudale, o con l'avere come unico desiderio la fine di questo mondo tecnologizzato.

Si può, al contrario, guardare positivamente il medesimo sviluppo scientifico, come un progressivo liberarsi dalle catene della religione: una posizione, questa, che i filosofi considerano "illuminista", ma che è nata ben prima e che perdura ancora oggi.

Sono però entrambe posizioni ipostatizzate, astratte. Sarebbe meglio collegare la scienza al capitalismo e la religione al feudalesimo. La scienza è nata contro una religione strettamente connessa al feudalesimo, ovvero dalla contraddizione esistente fra una pratica antidemocratica (il servaggio) e una soluzione teorica altamente elaborata ma del tutto incapace di risolvere quella contraddizione (il clericalismo).

E' bene specificare questo, altrimenti non si comprende perché la scienza sperimentale non sia nata nel periodo greco-romano o nelle civiltà asiatiche. Se non ci fosse stata questa grande antinomia fra teoria e prassi, non sarebbe mai maturata una risposta così potente come quella tecnico-scientifica.

La nascita della scienza sperimentale, benché sia stato in sé un evento negativo, in quanto ha comportato un dominio arbitrario dell'uomo sulla natura, va considerata come un fatto comprensibile e, per certi versi, giustificabile. Non era certo inevitabile, ma, senza risolvere le contraddizioni del feudalesimo, prima o poi era destinato a diventarlo.

La nascita della scienza va collegata, se vogliamo, alla riscoperta accademica dell'aristotelismo. Senza uno sforzo prima teologico (o di filosofia religiosa), la scienza non avrebbe potuto porre le sue basi scientifiche, cioè antimetafisiche. I teologi non potevano certo sapere che stavano lavorando contro i loro stessi interessi.

D'altra parte la religione non avrebbe potuto in alcun modo risolvere i problemi socioeconomici del feudalesimo. Occorreva una riforma agraria che desse la terra in proprietà ai contadini, ma non venne mai fatta.

La scienza invece ebbe la pretesa di risolvere le contraddizioni del feudalesimo collegandosi al capitalismo, e in questa maniera finì col creare nuovi e ancora più gravi antagonismi.

Oggi dobbiamo superare le pretese della scienza superando quelle del capitalismo, e senza ricadere nella religione. Si badi: scienza e capitalismo vanno superati insieme. Oggi in occidente e sempre più nel mondo intero non esiste altra scienza che quella del capitale, per cui non ha alcun senso sostenere che la scienza è "neutrale" e che tutto dipende dall'uso che se ne fa.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018