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di Pino Nicotri de
L'Espresso
Quando in
Turchia è stato scarcerato Alì Agca, il terrorista
islamico che nel 1981 attentò alla vita di papa Wojtyla,
puntuale come un orologio svizzero sӏ levato il coro di
chi insiste a dire che la cittadina vaticana Emanuela Orlandi, bella
ragazza di poco meno di 16 anni scomparsa a Roma il 22 giugno 1983, è
stata rapita da sostenitori di Agca per essere liberata in cambio
della scarcerazione del terrorista. Ecco che dal cardinale ospite di
Bruno Vespa a Porta a Porta fino all”ultimo gazzettiere, dai
parenti di Emanuela fino all”ex magistrato Ferdinando
Imposimato, oggi avvocato e legale rappresentante della madre di
Emanuela nell'inchiesta per la scomparsa, tutti si sono rimessi
a battere un tasto che è ormai assodato essere fasullo.
E’
stata infatti la stessa magistratura italiana, con la sentenza
istruttoria firmata il 19 dicembre 1997 dall’allora giudice
istruttore Adele Rando, a scrivere che il movente
politico-terroristico fu “un’abile operazione di
dissimulazione dell’effettivo movente del rapimento di Emanuela Orlandi”. Lo stesso giudice istruttore indiziò inoltre
del grave reato di concorso nella sparizione della Orlandi non già
un terrorista turco né un agente del Kgb sovietico o della Cia
americana, bensì il vice capo della sicurezza vaticana,
ingegner Raul Bonarelli. Ripeto, per chi credesse di avere capito
male: la magistratura italiana ha messo per iscritto che se c’era
qualcuno da accusare per la scomparsa di Emanuela questo qualcuno
andava cercato dentro le mura della città del Vaticano. E a
partire da chi si occupa della sua sicurezza interna…
Ma lo sconcerto
non finisce qui. L’ufficio di Bonarelli è infatti a meno
di 30 metri dalla palazzina di piazzetta S. Egidio dove abitavano e
abitano gli Orlandi: è ancor più straordinario quindi
che i familiari della ragazza - il padre Ercole, la madre Maria, il
fratello Pietro e le tre sorelle Natalina, Federica e Maria Cristina
- non abbiano neppure mai fiatato sulla pesante e ben precisa accusa
del giudice istruttore Rando contro il loro vicino di casa, che è
legittimo pensare capitasse loro di incontrare non di rado in
piazzetta o nelle stradine limitrofe. Qualunque altro genitore
avrebbe ovviamente, se non scatenato l”inferno, almeno gridato
ad alta voce di volerne sapere di più. Invece in questo caso
sono stati zitti perfino gli avvocati, compreso l”ineffabile
Imposimato, tanto ciarliero quando si tratta di far balenare
speranze, se non certezze, di ritorno a casa della ragazza, sparita
ormai da quasi un quarto di secolo.
Imposimato in
questo affaire è il legale della signora Maria, madre di
Emanuela, nonostante sia stato per un breve periodo difensore di
Agca, cioè della persona in favore della quale sarebbe stata
rapita la figlia della stessa signora Maria di cui oggi è
l’avvocato. Strano, nevvero? Imposimato cercò di fare
ottenere la semilibertà ad Agca a patto che questi accettasse
di essere ospite della comunità gestita da monsignor Giovanni
D'Ercole, amico dell'ex magistrato e capuffico della
prima sezione della Segreteria di Stato vaticana. Agca non accettò
la proposta perché temeva pressioni per essere convertito al
cristianesimo.
Come se non bastasse, più di una volta alcuni
cardinali, a partire dal potente Giovan Battista Re - sostituto alla
Segreteria di Stato, carica che equivale a quella di vice primo
ministro del Vaticano, e presidente di quella Prima Sezione che ha
come capufficio proprio monsignor D’Ercole - hanno rifiutato la
richiesta della magistratura italiana di interrogarli. Segno
evidente, tra molti altri, che il Vaticano sulla scomparsa della sua
giovane e bella cittadina ha una lunga coda di paglia. Non a caso
quindi è proprio un monsignore vaticano, tale Bertani,
insignito del titolo di cappellano di Sua Santità, ad avere
telefonato a Bonarelli il giorno prima che venisse interrogato da
Adele Rando per raccomandargli di tacere: “Non dire che
l”Ufficio ha indagato e che la cosa è andata alla
Segreteria di Stato…. limitati a dire che è affare
della magistratura italiana perché la ragazza è
scomparsa su suolo italiano”.
E che in
Vaticano si sapesse molto, se non tutto, lo ha testimoniato per
iscritto anche monsignor Francesco Salerno, che all’epoca si
occupava delle “sante” finanze: “Mi risulta che
presso la Segreteria di Stato esiste un dossier con notizie
probabilmente risolutive riguardo la scomparsa di Emanuela Orlandi”.
Più chiari di così! Anzi, monsignor Salerno ha messo
per iscritto un”altra cosa sconvolgente: “Dato che grazie
al mio occuparmi delle finanze avevo conoscenze in molti ambienti,
pochi giorni dopo la scomparsa della Orlandi offrii a monsignor Re la
mia disponibilità a cercare notizie, ma monsignor Re rifiutò.
Mi disse che era meglio lasciare le cose come stavano”.
Monsignor Salerno mente o esagera o ricorda male? Impossibile. Dopo
tale testimonianza è stato infatti promosso a capo della
basilica del Laterano e annessi palazzi, vale a dire del più
importante centro ecclesiastico romano dopo quello di S. Pietro.
Qui
c’è da fare un inciso: il primo a parlare di rapimento,
quando ancora non c’era assolutamente nessun elemento per
poterne anche solo sospettare, è stato papa Wojtyla domenica 3
luglio, dopo la preghiera dell’Angelus. Chi e perché
abbia consigliato e convinto il papa a lanciare il suo appello per
Emanuela “a chi avesse responsabilità nel suo mancato
ritorno a casa” non è stato mai chiarito. Ma sicuramente
Re non poteva esserne all’oscuro data la sua contiguità
col papa e la carica di sostituto alla Segreteria di Stato. Non è
curioso che mentre da una parte si consiglia il papa a parlare di
rapimento dall’altra si rifiuta l”offerta di monsignor
Salerno a cercare notizie sui motivi dello stesso rapimento? Sembra
quasi che qualcuno sapesse che era inutile cercare notizie perché
non di rapimento si trattava…
Scarcerato Agca,
la foga nel ricreare la cortina fumogena attorno al caso Orlandi è
stata tale da far dimenticare totalmente Mirella Gregori, vale a dire
l”altra ragazza che secondo la montatura del “sequestro a
scopo politico-terroristico” sarebbe stata anch’essa
rapita per essere scambiata con Agca. Non solo: ci si dimentica anche
della logica. Imposimato infatti si è precipitato a dichiarare
a botta calda che “ora Agca è in pericolo di vita a
causa delle cose che sa e che potrebbe rivelare”, quando anche
un cretino sa che è più facile essere fatto fuori in un
incontrollabile carcere turco anziché in libertà da
qualche parte e quindi sotto gli occhi di altra gente.
Ma del resto Imposimato non è nuovo ad affermazioni perentorie,
dimostratesi però poi campate per aria, tanto campate per aria
da portare di fatto acqua al molino del depistaggio. Per esempio,
quando Agca venne estradato dalle carceri italiane a quelle turche
Imposimato affermò giulivo a più riprese la quasi
certezza che Emanuela Orlandi avrebbe potuto finalmente tornare a
casa. Concetto alla prova dei fatti privo di fondamento, ma che
Imposimato con sprezzo del ridicolo ha ribadito anche in televisione
nella puntata del 4 dicembre 2002 del programma Novecento, condotto
da Pippo Baudo, dedicata in parte al mistero Orlandi.
Anzi, vale la
pena ricordare che in quella puntata tra gli ospiti, oltre allo
stranamente ottimista Imposimato, c’era Orazio Petrosillo, il
vaticanista del Messaggero di Roma che dopo la morte di Wojtyla
pareva stesse per succedere a Navarro Vals come responsabile della
sala stampa vaticana. Petrosillo a Novecento ebbe l'ardire di
sostenere che si era letto tutte le carte dell'istruttoria Orlandi e che aveva fatto una scoperta clamorosa, un grande scoop:
non solo il Vaticano non aveva nulla da nascondere, ma aveva
addirittura “messo a disposizione della polizia italiana il
proprio centralino telefonico per tutta la durata delle indagini”.
Incuriosito da una tale affermazione, che mi risultava fasulla dato
che un paio di anni prima avevo scritto un libro proprio sulla
scomparsa della Orlandi basandomi sugli atti giudiziari, ho inviato
una e-mail a Petrosillo per chiedergli cortesemente lumi, cioè
se poteva darmi qualche ragguaglio sul suo “grande scoop”.
Inviperito, il collega mi ha risposto con una e-mail nella quale,
dopo avere detto che avevo scritto il libro “solo per infangare
la santa Sede”, mi assicura che “il magistrato Rosario
Priore ha potuto conferire con le più alte autorità del
Vaticano” senza che sulla scomparsa della Orlandi sia venuto
fuori alcunché di losco. Ma proprio questa risposta è
la migliore prova che Petrosillo mente: il giudice istruttore Priore
NON si è infatti MAI interessato del caso Orlandi! Altro che
essersi “letto tutti gli atti giudiziari” ed avere fatto
“un grande scoop”, come sostiene il bucolico Orazio…
La cosa grave è
che Baudo abbia lasciato parlare a ruota libera Imposimato e
Petrosillo, con le relative balle, ben sapendo cosa avessero invece
appurato i magistrati italiani. Avevo infatti avvertito Baudo via
mail e - su richiesta di una segretaria della sua trasmissione - gli
avevo anche spedito due copie del mio libro. E’ noto che non
c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Qui però
il problema non è solo la sordità, ma anche la
loquacità a raccontare e lasciar raccontare menzogne
clamorose. Non manca neppure il mutismo.
Per esempio un paio di anni
fa a Raitre Federica Sciarrelli, conduttrice di “Chi l”ha
visto”, nel suo programma televisivo ha pestato acqua nel
mortaio del caso Orlandi dando spazio alle divagazioni più
improbabili, ma si tiene bene alla larga dalle conclusioni dei
magistrati italiani. Tant’è vero che ha evitato
accuratamente di mandare in onda la lunga intervista fattami fare da
un suo giornalista, Fiore Di Rienzo, nella quale spiego appunto le
troppe cose strane appurate e messe per iscritto dagli inquirenti. La
più importante di queste cose è che gli asseriti
“rapitori” di Emanuela non hanno mai prodotto la minima
prova che fosse davvero nelle loro mani. Nonostante le tante
chiacchiere, l’unica cosa fatta trovare agli inquirenti è
stata sempre e solo una fotocopia del pagamento di una rata di
iscrizione al conservatorio musicale di piazza S. Apollinare -
adiacente a piazza Navona e a palazzo Madama - dove la ragazza
studiava flauto. Ma si tratta di una fotocopia che qualcuno può
tranquillamente avere fatto usando l’originale conservato in
segreteria, tanto più che il conservatorio era ed è
proprietà del Vaticano, sottratto quindi alla giurisdizione
italiana…
Di cose “strane”
il caso Orlandi è letteralmente lastricato, ed è
stranissimo che la stampa non se ne sia mai accorta.... I “rapitori”
fecero trovare all’Ansa in via della Dataria, su una finestra
del muro esterno del Quirinale, un nastro registrato con la asserita
voce di Emanuela “torturata”, anzi stuprata e sottoposta
al supplizio delle unghie strappate. Su tali violenze la stampa si è
scatenata, e anche Imposimato ha fatto la sua parte. Però poi
nessuno ha scritto che i magistrati hanno appurato che non della voce
di Emanuela si trattava, bensì del riversamento di parte del
sonoro di un film porno!
In ogni caso, ascoltando il nastro si
capisce subito che non di tortura si tratta, bensì di bidone
per gonzi: si sente infatti una voce femminile di donna chiaramente
impegnata in un rapporto sessuale, vero o simulato che sia, che a un
certo punto prorompe in un grido da orgasmo talmente prolungato che
possono crederci solo i militari di leva di decenni or sono. Per
giunta, dopo essere stata “stuprata e torturata”, la
pretesa Emanuela si rivolge con il tu al suo preteso aguzzino e con
un mezzo sbadiglio gli dice “beh, ora lasciami dormire”....
Del resto si è dimostrato un falso anche la lugubre lettera ai
genitori firmata Emanuela, nella quale pure si parlava di supplizi
vari. Quando ho fatto notare ai genitori di Emanuela che nel diario
della figlia, da loro fornito agli inquirenti per la perizia
grafica, c’era scritto “sto da nove mesi” con un
tizio e che questo contraddiceva quanto da loro sempre dichiarato
riguardo l’assoluta mancanza di fidanzati e affini, dopo
qualche minuto di imbarazzo mi sono sentito rispondere: “Si
vede che abbiamo sbagliato, evidentemente abbiamo consegnato agli
inquirenti il diario di una sorella di Emanuela”!!!
Il “portavoce
dei rapitori” che telefonava a casa degli Orlandi venne
soprannominato “l’Americano” per via dell’accento
che scimmiottava quello americano. Una perizia ordinata dal Sisde ha
concluso che non di americano si trattava, bensì di un
religioso o ex religioso di professione con accento est europeo. La
prima volta che il cosiddetto Americano ha telefonato in Vaticano
chiedendo di parlare con l’allora segretario di Stato Agostino
Casaroli, la suora del centralino si affanna a chiedere alla
Segreteria di passare la telefonata a Casaroli: ma il cardinale
tarda, e la suora è sempre più agitata e scongiura la
Segreteria di fare presto: ma Casaroli se la prende calma. Passano
ben 120 secondi, da me cronometrati, prima che si decida a rispondere
con un serafico “Pronto?” seguito dal silenzio assoluto.
Il Vaticano ha infatti provveduto a smagnetizzare tutti i nastri –
pochi – che a un certo punto s’è deciso a
consegnare alla magistratura italiana!
Un particolare
davvero sconcertante, per non dire di peggio, è il seguente.
Nel corso del sequestro a casa Orlandi a rispondere al telefono non
erano i genitori di Emanuela, troppo sconvolti, ma lo zio materno
Mario Meneguzzi. Lo stesso che una sera apre la porta e fa entrare in
casa l’agente del Sisde Giulio Gangi interessato alle indagini.
In tutte le interviste, in televisione o ai giornali, Ercole Orlandi
ha sempre sostenuto che Gangi era per lui uno sconosciuto e che anzi
venne colpito dal fatto che a un certo punto l’agente del Sisde
disse che usava trascorrere la vacanze estive a Torano, cioè
nello stesso paese laziale nel quale trascorrevano le ferie estive
gli Orlandi, compresa Emanuela.
Studiando le carte processuali si
scopre però che Gangi era fidanzato con la figlia di
Meneguzzi, cioè con una cugina di Emanuela, motivo per cui era
impossibile che Meneguzzi, la sera in cui Gangi si è recato
per le indagini a casa degli Orlandi, non abbia detto ai padroni di
casa chi fosse quel visitatore, anche a voler ipotizzare che gli
Orlandi non lo conoscessero già e piuttosto bene. Quando ho
fatto notare al papà di Emanuela, a casa sua, la stranezza del
suo comportamento nei racconti ai mass media riguardanti Gangi, ho
vissuto il forte disagio di chi si trova di fronte a un interlocutore
colto in castagna, e pertanto incapace di uscire dall’impaccio
dando risposte convincenti. L’unica cosa che ha saputo dirmi è
che forse Emanuela e Gangi si conoscevano, “ma non ne sono
sicuro”.
Una volta che ho messo alle strette Ercole Orlandi,
enumerandogli le troppe cose “strane”, a partire dalla
nomina degli stessi avvocati, scelti e pagati non da lui ma dai
servizi segreti italiani, mi ha risposto che “qui in Vaticano
mi dicono sempre di stare tranquillo, che Emanuela prima o poi torna
e che intanto pensano loro a tutto”. Che Ercole fosse un padre
che soffriva per la scomparsa della figlia era fin troppo evidente, e
questo ha acuito il mio disagio man mano che scoprivo le molte cose
taciute e i non pochi comportamenti strani. Ma non ho potuto fare a
meno di fargli notare che “loro dicono “prima o poi”,
però intanto sono passati quasi 20 anni”.
C’è
infine una doppia stranezza sempre taciuta alla stampa. Il dirigente
del parlamento italiano che invia in Vaticano le rogatorie con le
quali i magistrati italiani chiedono di interrogare su caso Orlandi
alcuni prelati, dottor Antonio Marrone, è la stessa persona
che in Vaticano ricopre l’incarico di magistrato unico e che in
tale veste ha risposto no alle sue stesse rogatorie. Incredibile, ma
vero. E come se non bastasse, la sua segretaria nel parlamento
italiano è Natalina Orlandi, cioè una delle sorelle di
Emanuela. Natalina quindi assiste in silenzio a un fatto decisamente
singolare: il suo capufficio prima gira da Montecitorio al Vaticano
le richieste italiane di interrogare alcuni cardinali e poi dal
Vaticano gira al se stesso di Montecitorio le risposte negative.
Sembra un film, invece è la realtà.
In questa trama
davvero sconvolgente l'unica cosa sufficientemente chiara è
che il Vaticano sa e tace. Non a caso il papà di Emanuela ne
diffidava: quando dovevo incontrarlo nel periodo in cui lavoravo al
libro sulla scomparsa di sua figlia mi aveva chiesto di cercarlo sul
suo telefonino anziché al telefono di casa, perché
voleva evitare eventuali ascolti del centralino vaticano. E ogni
volta che mi dava un appuntamento mi veniva a prendere di persona
fuori della porta di S. Anna, per sottrarmi così alla
curiosità e al controllo delle guardie svizzere. Eppure, lo
stesso Ercole, dopo avere visionato e approvato le bozze del libro
che gli avevo spedito a casa, di punto in bianco si è messo a
chiedermi il taglio di una cinquantina di pagine addirittura tramite
il fax del giornale L’Osservatore Romano!
Dov’era finita
la prudenza che lo portava a non voler far sapere a nessuno che stava
collaborando con un giornalista a un libro che cercava di vederci
chiaro sulla fine di sua figlia? La domanda ha una possibile
risposta. Inizialmente il libro averi dovuto scriverlo assieme al
magistrato Rosario Priore e all’ex magistrato Imposimato.
Priore però non ha avuto il tempo di occuparsi di quasi nulla,
mentre Imposimato invece per vari mesi mi ha fornito una serie di
notizie “clamorose”: a partire dal colore della macchina
usata dai rapitori armati di cloroformio e dal loro numero fino alle
passeggiate di Emanuela su una spiaggia del Mar Nero dopo essere
scomparsa. Roba da Premio Pulizer! Peccato però che a furia di
insistere per sapere quali fossero le fonti dopo sei mesi mi sono
sentito rispondere che “sono mie ipotesi. Però
certamente vere”.....
Nonostante
tutto, visto che ormai il contratto con la casa editrice Kaos era
stato firmato anche con Imposimato, non mi sono opposto al fatto che
eventualmente firmasse anche lui il libro pur avendolo scritto
totalmente io e avere subito sei mesi di ritardo per le sue strane
“notizie” inventate. Imposimato è così
venuto a Milano per ritirare una copia delle bozze, che si è
portato a Roma.
Dopo pochi giorni ha iniziato a pretendere che io
tagliassi una cinquantina di pagine, pena il rivolgersi al
magistrato, e poiché io non ho voluto tagliare nulla a un
certo punto ha iniziato a chiedermi la stessa cosa Ercole Orlandi
(tramite il fax dell’Osservatore Romano). L’unica
spiegazione che trovo per lo strano cambio di atteggiamento di
quest’ultimo è che Imposimato abbia fatto leggere le
bozze del libro al suo buon conoscente monsignor D’Ercole,
dirigente di rango della Segreteria di Stato alle dirette dipendenze
di monsignor Re.... Proprio quello che a suo tempo rifiutò
l’offerta di aiuto a vederci chiaro nel “rapimento”
avanzata da monsignor Salerno.
Chiaro come il sole che qualcuno della
Segreteria di Stato, molto contrariato, ha convocato a razzo Ercole Orlandi per “consigliare” come comportarsi, vale a dire
di pretendere da me i tagli vanamente chiesti minacciando querele e
altri sfracelli giudiziari. Che però, guarda caso, non ci sono
stati nonostante io non abbia tagliato neppure mezza riga. L’unica
cosa che è stata tagliata è la firma di Imposimato come
coautore del libro assieme a me: ma si tratta di un taglio deciso da
lui, non da me.
Qualche tempo
dopo avere pubblicato il libro ho incontrato un noto studioso di cose
vaticane che era quasi sempre al seguito dei viaggi all”estero
di Wojtyla. Col solito cinico candore che contraddistingue certi
personaggi, mi ha spiegato chiaro e tondo che Emanuela non è
stata rapita, ma è morta la sera stessa della scomparsa in un
appartamento di Salita Monte del Gallo, a un tiro di sasso dal
Vaticano. Sono andato a fare un sopralluogo e ho notato che lì
vicino c'è la stazione ferroviaria di S. Pietro della
linea Livorno-Roma. Non so se sia vero che Emanuela è morta
lì, e ignoro il perché, ma mi è venuto in mente
un particolare: si sentono distintamente alcuni fischi di treno nella
registrazione di uno dei contatti con gli Orlandi del finto portavoce
dei “rapitori”, l’anonimo che la stampa aveva
soprannominato l’Americano e che i consulenti scientifici del
Sisde erano sicuri fosse o fosse stato un religioso di professione. Quei fischi
di treno fanno pensare: il cosiddetto “americano” viveva e forse vive ancora in
salita Monte del Gallo? Questa faccenda di Salita Monte del Gallo io l’ho
raccontata in alcune interviste. Strano, ma nessuno mi ha chiesto chiarimenti…
Al tempo del
caso Orlandi l’anticamera del papa aveva un addetto molto
particolare: il monsignore polacco Julius Paetz, che verrà in
seguito allontanato dal Vaticano con una bella promozione in Polonia
come arcivescovo di Poznan e che varrà poi cacciato dal
governo polacco perché denunciato per abusi sessuali da decine
di giovanissimi seminaristi. Insomma, Paetz era un accanito pedofilo.
Così come Emanuela Orlandi era una bella minorenne. A questo
punto vale allora la pena di raccontare come il Vaticano, per volontà
di Wojtyla, cioè del papa degli anni anche del caso Orlandi,
abbia deciso di proteggere in tutto il mondo i preti pedofili o
comunque abusatori sessuali.
Per raccontarlo, con i suoi risvolti
sconvolgenti, è bene raccontare il caso esploso a cavallo
della Pasqua di quest’anno a Firenze, dove una ventina di
fedeli si sono rivolti con fiducia alla Chiesa, anziché ad
avvocati e tribunali, inviando fin dal gennaio 2004 alla curia locale
esposti e memoriali sulle violenze sessuali subite quando erano
bambini per iniziativa del parroco Lelio Cantini, titolare della
parrocchia Regina della Pace. A furia di insistere, le vittime di
Cantini hanno ottenuto qualche incontro con l’allora
arcivescovo Silvano Piovanelli, con l’arcivescovo Ennio
Antonelli e con l’ausiliare Claudio Maniago. Ma tutto quello
che sono riusciti a ottenere è stato il trasferimento del
parroco mascalzone in un’altra parrocchia della stessa diocesi
nel settembre 2005, cioè ben 20 mesi dopo gli esposti,
motivato ufficialmente “per motivi di salute”, vale a
dire senza che venisse né denunciato alla magistratura né
svergognato in altro modo né privato dell’abito talare
con la sospensione “a divinis”.
Deluse,
le vittime e i loro familiari si sono allora rivolti al papa, con una
lettera del 20 marzo 2006 recante in allegato i dettagliati memoriali
di dieci tra le almeno venti vittime di abusi. “Non vogliamo
sentirci domani chiedere conto di un colpevole silenzio”, hanno
spiegato al papa il 13 ottobre 2006 con una nuova, nella quale
parlano di “iniquo progetto di dominio sulle anime e sulle
esistenze quotidiane” e lamentano come a “quasi due anni”
dall’inizio delle denunce dalla Chiesa fiorentina non fosse
ancora arrivata né “una decisa presa di distanza”
dai personaggi coinvolti nella vicenda né “una scusa
ufficiale” e neppure “un atto riparatore autorevole e
credibile”.
Alla
loro missiva ha risposto il cardinale Camillo Ruini, ma in un modo
francamente incredibile, di inaudita ipocrisia e mancanza di senso
della responsabilità. Il famoso cardinale, tanto impegnato
nella lotta incessante contro la laicità dello Stato italiano,
a fronte alle porcherie del suo sottoposto si rivela quanto mai
imbelle, omertoso e di fatto complice: tutta la sua azione si riduce
a una lettera agli stuprati per ricordare loro che il parroco
criminale il 31 marzo ha lasciato anche la diocesi e per augurare che
il trasferimento “infonda serenità nei fedeli coinvolti
a vario titolo nei fatti”.
Insomma, fuor dalle chiacchiere e
dall’ipocrisia, Ruini si limita a raccomandare che tutti si
accontentino della rimozione di Cantini e se ne stiano pertanto d’ora
in poi zitti e buoni, paghi del fatto che il prete pedofilo e
stupratore sia stato spedito a soddisfare le sue brame carnali
altrove. Come a dire che i parenti delle vittime della strage di
piazza Fontana o del treno Italicus si sentano rispondere dal Capo
dello Stato non con il dovuto processo ai colpevoli, bensì con
una letterina buffetto sulle guance che annuncia, magno cum gaudio,
che i colpevoli anziché andare in galera sono stati trasferiti
in altri uffici e che pertanto augura, cioè di fatto ordina,
“serenità” tra i superstiti e i parenti delle
vittime.
Un simile comportamento oggi non ce l’hanno neppure
gli Stati Uniti: è vero che non permettono a nessuno Stato
estero di giudicare i propri soldati quali che siano i crimini da
loro commessi, da Mai Lay al Cermis, da Abu Graib a Guantanamo e
Okinawa, ma è anche vero che gli Usa anziché stendere
il velo omertoso del segreto li processa pubblicamente in patria e
non sempre in modo compiacente.
Come
sempre la Chiesa si comporta in tutto il mondo come uno Stato nello
Stato, con la pretesa non solo di intervenire – come è
particolarmente evidente in Italia - contro l’autonomia della
politica, ma per giunta di sottrarre il proprio personale alla
magistratura competente. Il dramma però è che Ruini ai
fedeli fiorentini che hanno subìto quello che hanno subìto
non poteva rispondere altrimenti, perché – per quanto
possa parere incredibile – a voler imporre il silenzio, anzi il
“segreto pontificio” sui reati gravi commessi dai
religiosi, compresi gli stupri di minori, è stato proprio
l’attuale papa, Ratzinger.
Con una ben precisa circolare
inviata ai vescovi di tutto il mondo il 18 maggio 2001 e che più
avanti riproduciamo per intero, l’allora capo della
Congregazione per la dottrina della fede, come si chiama oggi ciò
che una volta era la “Santa” (!) Inquisizione e poi il
Sant’Ufficio, non solo imponeva il segreto su questi orribili
argomenti, ma avvertiva anche che a volere una tale sciagurata
direttiva era il papa di allora in persona. Vale a dire, quel Wojtyla
che più si ha la coda di paglia e più si vuole sia
fatto “santo subito”, in modo da sottrarlo il più
possibile alle critiche per i suoi non pochi errori.
Da
notare che per quell’ordine scritto diramato a tutti i vescovi
assieme all’allora suo vice, cardinale Tarcisio Bertone (oggi
ancor più potente perché scelto dal papa tedesco come
nuovo Segretario di Stato, cioè ministro degli Esteri del
Vaticano), Ratzinger nel 2005 è stato incriminato negli Stati
Uniti per cospirazione contro la giustizia in un processo contro
preti pedofili in quel di Houston, nel Texas.
Per l’esattezza,
presso la Corte distrettuale di Harris County figurano imputati il
responsabile della diocesi di Galveston Houston, arcivescovo Joseph
Fiorenza, i sacerdoti pedofili Juan Carlos Patino Arango e William
Pickand, infine anche l’attuale pontefice. Questi è
accusato di avere coscientemente coperto, quando era prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, i sacerdoti colpevoli di
abusi sessuali su minori. Da notare che l’omertà e la
complicità di fatto garantita dalla circolare
Ratzinger-Bertone ha danneggiato non solo la giustizia di quel
processo, ma anche dei molti altri che hanno scosso il mondo intero
scoperchiando la pentola verminosa dei religiosi pedofili negli Stati
Uniti (dove la Chiesa ha dovuto pagare centinaia di milioni di
dollari in una marea di risarcimenti) e in altre parti del mondo. Un
porporato che si è visto denunciare dalle vittime un folto
gruppo di preti, anziché punire i colpevoli li ha protetti
facendoli addirittura espatriare nelle Filippine, in modo da
sottrarli per sempre alla giustizia.
A
muovere l’accusa contro l’attuale pontefice, documenti
vaticani alla mano, è l’agguerritissimo avvocato Daniel
Shea, difensore di tre vittime della pedofilia dei religiosi di
Galveston Houston. E Ratzinger sarebbe stato trascinato in tribunale,
forse in manette data la gravità del reato, se non fosse nel
frattempo diventato papa. Nel settembre 2005 infatti il ministero
della Giustizia, su indicazione di Bush e Condolezza Rice, ha
bloccato il processo contro Ratzinger accogliendo la richiesta
dell’allora segretario di Stato del Vaticano, Angelo Sodano, di
riconoscere anche al papa, in quanto capo dello Stato pontificio, il
diritto all’immunità riconosciuto non solo dagli Stati
Uniti per tutti i capi di Stato. A questo punto è doveroso e
niente affatto scandalistico porsi una domanda, decisamente scomoda:
quanto ha pesato nella scelta di eleggere papa proprio Ratzinger la
necessità di sottrarlo alla giustizia americana e di
difenderlo per avere in definitiva eseguito la volontà del
pontefice precedente?
Come
che sia, Shea però non demorde. Due anni fa è venuto a
Roma per protestare in piazza S. Pietro assieme ai radicali in
occasione della Giornata mondiale contro la pedofilia. E oggi si dice
pronto a ricorrere fino alla Suprema Corte di Giustizia degli Stati
Uniti per evitare che i firmatari della circolare vaticana che
protegge i sacerdoti pedofili la facciano del tutto franca. Intanto
dobbiamo constatare con sbigottimento che i tre nomi più
impegnati nella lotta contro la laicità dello Stato italiano e
del suo parlamento, vale a dire Ratzinger, Ruini e Bertone, sono
stati colti con le mani nel sacco della sottrazione alla magistratura
dei preti pedofili e strupratori di minori.
Ecco
il testo integrale tradotto dal latino dell’ordine impartito
per iscritto da Ratzinger e Bertone:
«LETTERA
inviata dalla Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi di
tutta la Chiesa cattolica e agli altri ordinari e prelati
interessati, circa I DELITTI PIU’ GRAVI
riservati alla medesima Congregazione per la dottrina della fede, 18
maggio 2001
Per
l’applicazione della legge ecclesiastica, che all’art. 52
della Costituzione apostolica sulla curia romana dice: “[La
Congregazione per la dottrina della fede] giudica i delitti contro la
fede e i delitti più gravi commessi sia contro la morale sia
nella celebrazione dei sacramenti, che vengano a essa segnalati e,
all’occorrenza, procede a dichiarare o a infliggere le sanzioni
canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio”, era
necessario prima di tutto definire il modo di procedere circa i
delitti contro la fede: questo è stato fatto con le norme che
vanno sotto il titolo di Regolamento per l’esame delle
dottrine, ratificate e confermate dal sommo pontefice Giovanni Paolo
II, con gli articoli 28-29 approvati insieme in forma specifica.
Quasi
nel medesimo tempo la Congregazione per la dottrina della fede con
una Commissione costituita a tale scopo si applicava a un diligente
studio dei canoni sui delitti, sia del Codice di diritto canonico sia
del Codice dei canoni delle Chiese orientali, per determinare “i
delitti più gravi sia contro la morale sia nella celebrazione
dei sacramenti”, per perfezionare anche le norme processuali
speciali nel procedere “a dichiarare o a infliggere le sanzioni
canoniche”, poiché l’istruzione Crimen sollicitationis finora in vigore, edita dalla Suprema sacra
Congregazione del Sant’Offizio il 16 marzo 1962, doveva essere
riveduta dopo la promulgazione dei nuovi codici canonici.
Dopo
un attento esame dei pareri e svolte le opportune consultazioni, il
lavoro della Commissione è finalmente giunto al termine; i
padri della Congregazione per la dottrina della fede l’hanno
esaminato più a fondo, sottoponendo al sommo pontefice le
conclusioni circa la determinazione dei delitti più gravi e
circa il modo di procedere nel dichiarare o nell’infliggere le
sanzioni, ferma restando in ciò la competenza esclusiva della
medesima Congregazione come Tribunale apostolico. Tutte queste cose
sono state dal sommo pontefice approvate, confermate e promulgate con
la lettera apostolica data in forma di motu proprio Sacramentorum
sanctitatis tutela.
I
delitti più gravi sia nella celebrazione dei sacramenti sia
contro la morale, riservati alla Congregazione per la dottrina della
fede, sono:
-
I delitti contro la santità dell’augustissimo sacramento
e sacrificio dell’eucaristia, cioè:
-
l’asportazione o la conservazione a scopo sacrilego, o la
profanazione delle specie consacrate:
-
l’attentata azione liturgica del sacrificio eucaristico o la
simulazione della medesima;
-
la concelebrazione vietata del sacrificio eucaristico assieme a
ministri di comunità ecclesiali, che non hanno la successione
apostolica ne riconoscono la dignità sacramentale
dell’ordinazione sacerdotale;
-
la consacrazione a scopo sacrilego di una materia senza l’altra
nella celebrazione eucaristica, o anche di entrambe fuori della
celebrazione eucaristica;
-
Delitti contro la santità del sacramento della penitenza,
cioè:
-
l’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto
comandamento del Decalogo;
-
la sollecitazione, nell’atto o in occasione o con il
pretesto della confessione, al peccato contro il sesto comandamento
del Decalogo, se è finalizzata a peccare con il confessore
stesso;
-
la violazione diretta del sigillo sacramentale;
-
Il delitto contro la morale, cioè: il delitto contro
il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un
minore al di sotto dei 18 anni di età.
Al
Tribunale apostolico della Congregazione per la dottrina della fede
sono riservati soltanto questi delitti, che sono sopra elencati con
la propria definizione.
Ogni
volta che l’ordinario o il prelato avesse notizia almeno
verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolte un’indagine
preliminare, la segnali alla Congregazione per la dottrina della
fede, la quale, a meno che per le particolari circostanze non
avocasse a sé la causa, comanda all’ordinario o al
prelato, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori
accertamenti attraverso il proprio tribunale. Contro la sentenza di
primo grado, sia da parte del reo o del suo patrono sia da parte del
promotore di giustizia, resta validamente e unicamente soltanto il
diritto di appello al supremo Tribunale della medesima Congregazione.
Si
deve notare che l’azione criminale circa i delitti riservati
alla Congregazione per la dottrina della fede si estingue per
prescrizione in dieci anni. La prescrizione decorre a norma del
diritto universale e comune: ma in un delitto con un minore commesso
da un chierico comincia a decorrere dal giorno in cui il minore ha
compiuto il 18° anno di età.
Nei
tribunali costituiti presso gli ordinari o i prelati possono
ricoprire validamente per tali cause l’ufficio di giudice, di
promotore di giustizia, di notaio e di patrono soltanto dei
sacerdoti. Quando l’istanza nel tribunale in qualunque modo è
conclusa, tutti gli atti della causa siano trasmessi d’ufficio
quanto prima alla Congregazione per la dottrina della fede.
Tutti
i tribunali della Chiesa latina e delle Chiese orientali cattoliche
sono tenuti a osservare i canoni sui delitti e le pene come pure sul
processo penale rispettivamente dell’uno e dell’altro
Codice, assieme alle norme speciali che saranno date caso per caso
dalla Congregazione per la dottrina della fede e da applicare in
tutto.
Le
cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio.
Con la
presente lettera, inviata per mandato del sommo pontefice a tutti i vescovi
della Chiesa cattolica, ai superiori generali degli istituti religiosi clericali
di diritto pontificio e delle società di vita apostolica clericali di diritto
pontificio e agli altri ordinari e gerarchi interessati, si auspica che non solo
siano evitati del tutto i delitti più gravi, ma soprattutto che, per la santità
dei chierici e dei fedeli da procurarsi anche mediante necessarie sanzioni, da
parte degli ordinari e dei gerarchi ci sia una sollecita cura pastorale.
Roma,
dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio
2001.
Joseph
card. Ratzinger, prefetto.
Tarcisio
Bertone, SDB, arc. em. di Vercelli, segretario»
Fonte:
www.ratzinger.it
Il
segreto pontificio
Come
avrete notato, lo scippo della pedofilia alla magistratura civile e
penale di tutti gli Stati dove viene consumata è nascosto tra
molte parole che parlano di tutt’altro. E il ruolo
“giudiziario”, cioè di fatto omertoso, della
Congregazione ex Sant’Ufficio è comunque confermato in
pieno dalla vicenda fiorentina.
A difendere i fedeli violati sono
scesi in campo anche i locali preti ordinari e a causa delle loro
insistenze il cardinale Antonelli il 17 gennaio ha scritto alle
vittime di Cantini che al termine di un “processo penale
amministrativo” tutto interno alla curia e sentita per
l’appunto la Congregazione per la dottrina della fede, l’ex
parroco “non potrà né confessare, né
celebrare la messa in pubblico, né assumere incarichi
ecclesiastici, e per un anno dovrà fare un’offerta
caritativa e recitare ogni giorno il Salmo 51 o le litanie della
Madonna”. Tutto qui!
Di denuncia alla magistratura, neppure
l’ombra, e del resto il “segreto pontificio” non
lascia scampo. Per uno che per anni e anni se l’è fatta
da padrone anche con il sesso di ragazzine di soli 10 anni - e di 17
le più “vecchie” – senza neppure scomodarsi
con un viaggio nella Thailandia paradiso dei pedofili, si tratta di
una pena piuttosto leggerina…. Da far felice qualunque
pedofilo incallito! Quanto alle vittime, Antonelli ha anticipato
l’ineffabile Ruini: visto che “il male una volta compiuto
non può essere annullato”, il cardinale invita le
pecorelle struprate a “rielaborare in una prospettiva di fede
la triste vicenda in cui siete stati coinvolti”, e a invocare
da Dio “la guarigione della memoria”.
Ma
a guarire, anche dai troppi condizionamenti opportunistici della
memoria, deve essere semmai il Vaticano. E infatti i fedeli
fiorentini, che hanno letto la missiva del cardinale con “stupore
e dolore”, hanno deciso di non fermarsi. Finora non hanno fatto
nemmeno causa civile, ma d’ora in poi, dicono, “nulla è
più escluso”. I preti schierati dalla loro parte
chiedono al papa – nella lettera inviata tramite la Segreteria
di Stato oggi retta proprio da Bertone! - “un processo penale
giudiziario”, che convochi testimoni e protagonisti, e applichi
“tutte le sanzioni previste dall’ordinamento
ecclesiastico”.
Chiedono inoltre che Cantini, colpevole di
avere rovinato non poche vite, sia “privato dello stato
clericale” anche “a tutela delle persone che continuano a
seguirlo”. Però, come avrete notato, neppure i buoni
preti fiorentini si sognano di fare intervenire la magistratura dello
Stato italiano. I panni sporchi si lavano in famiglia… Che è
il modo migliore di continuare a non lavarli. Come per la scomparsa
di Emanuela Orlandi.
Chi
difende a spada tratta Ratzinger e Bertone per il documento del 2001,
arrivando a sostenere che esso semmai facilitava la giusta punizione
per i preti pedofili, mente o sapendo di mentire o per eccesso di
ignoranza. Già è molto grave che in quel documento la
pedofilia sia definita “peccato contro la morale” anziché
contro la persona. Forse che i bambini e le bambine non sono persone,
ma solo oggetti? Dei quali abusare senza troppi problemi, vedasi il
caso a Firenze del parroco Delio Cantini o del fondatore dei
Legionari di Cristo condannato dal papa a “fare penitenza”
anziché essere privato dell’abito talare e spedito in
galera.
Il papa o chi per lui può denunciare quel che meglio
crede in Mondovisione, ma resta il fatto che avere imposto il
“segreto pontificio” sui casi di religiosi pedofili
significa avere imposto di non parlarne a nessuno, tanto meno ai
magistrati, come del resto dimostrano le cronache non solo americane.
In quel documento è stato anche ordinato di elevare da 16 a 18
anni la definizione di età minore e a 10 anni il periodo
necessario per la decorrenza termini per l’eventuale processo
davanti al tribunale religioso (religioso, non civile, cioè
non statale, non con magistrati ordinari). Possono parere due buone
misure, moralizzatrici: ma l’unico risultato è quello di
sottrarre i colpevoli alla denuncia alla magistratura ordinaria per
almeno 10 anni filati e di dare loro la possibilità di
spassarsela anche con ragazzi tra i 16 e i 18 anni senza finire
automaticamente nei guai.
Saranno anche state buone le intenzioni di
quelle due estensioni, ma come si sa - e in Vaticano dovrebbero
saperlo meglio di tutti - di buone intenzioni è lastricata la
strada dell’inferno…. E infatti dover mantenere il
segreto pontificio per almeno 10 anni sui “peccati” di
pedofilia significa dove tenere la bocca cucita con le magistrature
ordinarie dei vari Paesi finché quello che per Ratzinger e
Bertone è solo un “peccato” (ma solo contro la
morale) e non più un reato: dopo 10 anni infatti il reato di
pedofilia si estingue quasi dappertutto. E considerare minorenni
anche i giovani tra i 16 e i 18 anni significa poter avere rapporti
sessuali con loro senza il minimo pericolo di essere denunciati alla
magistratura dal clero. Insomma, una cuccagna! Anche perché la
fascia d’età tra i 16 e i 18 anni è quella più
esposta alle tempeste ormonali, cioè alle tentazioni sessuali.
Ripeto: forse le intenzioni erano buone, ottime, encomiabili, ma i
risultati sono sicuramente l’esatto contrario, cioè
pessimi: tanto da poter far pensare non solo ai maligni che in realtà
erano proprio questi risultati ciò che si voleva ottenere con
quelle due “piccole” modifiche.
Per
evitare dubbi e per evitare che ci sia ancora chi possa fare il
furbo, ho recuperato dagli archivi vaticani la definizione di cosa
sia il “segreto pontificio”. Definizione data non da un
kommunista mangia bambini o da un terrorista islamista, bensì
nel 1974 dall’allora Segretario di Stato del Vaticano,
cardinale Jean Villot, dopo opportuna direttiva datagli a voce da
papa Paolo VI. Come chiunque può rendersi onestamente conto
leggendo il testo - che tratta il problema del segreto in modo
talmente pignolo da fare invidia a comandi militari e massonerie
varie - è assolutamente escluso che un argomento sottoposto a
segreto pontificio possa essere portato a conoscenza di “estranei”.
Cioè, per esempio, di polizia, carabinieri e magistrati o
degli stessi genitori delle vittime. Buona lettura.
Segreteria
di Stato
Norme
sul segreto pontificio
Quanto
concordi con la natura degli uomini il rispetto dei segreti, appare
evidente anzitutto dal fatto che molte cose, benché siano da
trattare esternamente, traggono tuttavia origine e sono meditate
nell’intimo del cuore e vengono prudentemente esposte soltanto
dopo matura riflessione.
Perciò
tacere, cosa davvero assai difficile, come pure parlare pubblicamente
con riflessione sono doti dell’uomo perfetto: infatti c’è
un tempo per tacere e un tempo per parlare (cf. Eccle 3,7)
ed è un uomo perfetto chi sa tenere a freno la propria lingua
(cf. Gc 3,2).
Questo avviene
anche nella Chiesa, che è la comunità dei credenti, i
quali, avendo ricevuto la missione di predicare e testimoniare il
Vangelo di Cristo (cf. Mc 16, 15; At 10,42), hanno
tuttavia il dovere di tenere nascosto il sacramento e di custodire
nel loro cuore le parole, affinché le opere di Dio si
manifestino in modo giusto e ampio, e la sua parola si diffonda e sia
glorificata (cf. 2 Ts 3, 1).
A buon diritto,
quindi, a coloro che sono chiamati al servizio del popolo di Dio
vengono confidate alcune cose da custodire sotto segreto, e cioè
quelle che, se rivelate o se rivelate in tempo o modo inopportuno,
nuocciono all’edificazione della Chiesa o sovvertono il bene
pubblico oppure infine offendono i diritti inviolabili di privati e
di comunità (cf. Communio et progressio, 121).
Tutto questo
obbliga sempre la coscienza, e anzitutto dev’essere severamente
custodito il segreto per la disciplina del sacramento della
penitenza, e poi il segreto d’ufficio, o segreto confidato,
soprattutto il segreto pontificio, oggetto della presente istruzione.
Infatti è chiaro che, trattandosi dell’ambito pubblico,
che riguarda il bene di tutta la comunità, spetta non a
chiunque, secondo il dettame della propria coscienza, bensì a
colui che ha legittimamente la cura della comunità stabilire
quando o in qual modo e gravità sia da imporre un tale
segreto.
Coloro poi che
sono tenuti a tale segreto, si considerino come legati non da una
legge esteriore, quanto piuttosto da un’esigenza della loro
umana dignità: devono ritenere un onore l’impegno di
custodire i dovuti segreti per il bene pubblico.
Per quanto
riguarda la Curia Romana, gli affari da essa trattati a servizio
della Chiesa universale, sono coperti d’ufficio dal segreto
ordinario, l’obbligo morale del quale dev’essere
stabilito o da una prescrizione superiore o dalla natura e importanza
della questione. Ma in taluni affari di maggiore importanza si
richiede un particolare segreto, che viene chiamato segreto
pontificio e che dev’essere custodito con obbligo grave.
Circa il segreto
pontificio la segreteria di stato ha emanato una istruzione in data
24 giugno 1968; ma, dopo un esame della questione da parte
dell’assemblea dei cardinali preposti ai dicasteri della Curia
Romana, è sembrato opportuno modificare alcune norme di quella
istruzione, affinché con una più accurata definizione
della materia e dell’obbligo di tale segreto, il rispetto del
medesimo possa essere ottenuto in modo più conveniente.
Ecco dunque qui
di seguito le norme.
Art.
I
Materia
del segreto pontificio
Sono coperti dal
segreto pontificio:
1) La
preparazione e la composizione dei documenti pontifici per i quali
tale segreto sia richiesto espressamente.
2) Le
informazioni avute in ragione dell’ufficio, riguardanti affari
che vengono trattati dalla Segreteria di stato o dal Consiglio per
gli affari pubblici della Chiesa, e che devono essere trattati sotto
il segreto pontificio;
3) Le
notificazioni e le denunce di dottrine e pubblicazioni fatte alla
Congregazione per la dottrina della fede, come pure l’esame
delle medesime, svolto per disposizione del medesimo dicastero;
4) Le denunce
extra-giudiziarie di delitti contro la fede e i costumi, e di delitti
perpetrati contro il sacramento della penitenza, come pure il
processo e la decisione riguardanti tali denunce, fatto sempre salvo
il diritto di colui che è stato denunciato all’autorità
a conoscere la denuncia, se ciò fosse necessario per la sua
difesa. Il nome del denunciante sarà lecito farlo conoscere
solo quando all’autorità sarà parso opportuno che
il denunciato e il denunciante compaiano insieme;
5) I rapporti
redatti dai legati della Santa Sede su affari coperti dal segreto
pontificio;
6) Le
informazioni avute in ragione dell’ufficio, riguardanti la
creazione di cardinali;
7) Le
informazioni avute in ragione dell’ufficio, riguardanti la
nomina di vescovi, di amministratori apostolici e di altri ordinari
rivestiti della dignità episcopale, di vicari e prefetti
apostolici, di legati pontifici, come pure le indagini relative;
8) Le
informazioni avute in ragione dell’ufficio, riguardanti la
nomina di prelati superiori e di officiali maggiori della Curia
Romana;
9) Tutto ciò
che riguarda i cifrari e gli scritti trasmessi in cifrari.
10) Gli affari o
le cause che il Sommo Pontefice, il cardinale preposto a un dicastero
e i legati della Santa Sede considereranno di importanza tanto grave
da richiedere il rispetto del segreto pontificio.
Art. II
Le
persone tenute al segreto pontificio
Hanno l’obbligo
di custodire il segreto pontificio:
1) I cardinali,
i vescovi, i prelati superiori, gli officiali maggiori e minori, i
consultori, gli esperti e il personale di rango inferiore, cui
compete la trattazione di questioni coperte dal segreto pontificio;
2) I legati
della Santa Sede e i loro subalterni che trattano le predette
questioni, come pure tutti coloro che sono da essi chiamati per
consulenza su tali cause;
3) Tutti coloro
ai quali viene imposto di custodire il segreto pontificio in
particolari affari;
4) Tutti coloro
che in modo colpevole, avranno avuto conoscenza di documenti e affari
coperti dal segreto pontificio, o che, pur avendo avuto tale
informazione senza colpa da parte loro, sanno con certezza che essi
sono ancora coperti dal segreto pontificio.
Art.
III
Sanzioni
1) Chi è
tenuto al segreto pontificio ha sempre l’obbligo grave di
rispettarlo.
2) Se la
violazione si riferisce al foro esterno, colui che è accusato
di violazione del segreto sarà giudicato da una commissione
speciale, che verrà costituita dal cardinale preposto al
dicastero competente, o, in sua mancanza, dal presidente dell’ufficio
competente; questa commissione infliggere delle pene proporzionate
alla gravità del delitto e al danno causato.
3) Se colui che
ha violato il segreto presta servizio presso la Curia Romana, incorre
nelle sanzioni stabilite nel regolamento generale.
Art. IV
Giuramento
Coloro
che sono ammessi al segreto pontificio in ragione del loro ufficio
devono prestar giuramento con la formula seguente:
“Io…
alla presenza di…, toccando con la mia mano i sacrosanti
vangeli di Dio, prometto di custodire fedelmente il segreto
pontificio nelle cause e negli affari che devono essere trattati
sotto tale segreto, cosicché in nessun modo, sotto pretesto
alcuno, sia di bene maggiore, sia di causa urgentissima e gravissima,
mi sarà lecito violare il predetto segreto. Prometto di
custodire il segreto, come sopra, anche dopo la conclusione delle
cause e degli affari, per i quali fosse imposto espressamente tale
segreto. Qualora in qualche caso mi avvenisse di dubitare
dell’obbligo del predetto segreto, mi atterrò
all’interpretazione a favore del segreto stesso. Parimenti sono
cosciente che il trasgressore di tale segreto commette un peccato
grave. Che mi aiuti Dio e mi aiutino questi suoi santi vangeli che
tocco di mia mano”.
Il Sommo
Pontefice Paolo VI, nell’udienza concessa il 4 febbraio 1974 al
sottoscritto, ha approvato la seguente istruzione ed ha comandato che
venga pubblicata, ordinando che entri in vigore a partire dal 14
marzo del medesimo anno, nonostante qualsiasi disposizione contraria.
Jean card.
Villot - Segretario di Stato
web.infinito.it/utenti/i/interface/Secreta.html
“Tentare
la castità di una donna durante la confessione è un
delitto, non un abuso”. “Ci sono religiosi che cercano di
tentare la castità delle donne virtuose perfino durante la
confessione, e osano abusare di questo solenne sacramento per
sedurle”. “Ma degli enormi abusi si faccia una relazione
modesta, per non scoprire le nostre vergogne”. “Non si
faccia nessuna menzione dei sacerdoti scellerati e degli enormi
delitti”. “Autorizziamo i tribunali spagnoli a perseguire
in giudizio gli abusi sessuali dei padri confessori”.
“Estendiamo ai tribunali portoghesi il permesso di perseguire
in giudizio gli abusi sessuali dei padri confessori”.
“Estendiamo a tutti i tribunali, non solo a quelli spagnoli e
portoghesi, l’autorizzazione a perseguire in giudizio gli abusi
sessuali perpetrati approfittando del sacramento delle confessione”.
Sono parole pronunciate nel corso del programma Anno Zero di Michele
Santoro dedicato ai preti pedofili? Sono accuse lanciate da “nemici
della Chiesa”? O sono accuse lanciate “per colpire
ingiustamente il sommo pontefice”? Anche questa volta, non lo
indovinereste mai.
Si
tratta infatti di accuse e preoccupazioni emerse niente di meno che
durante il Concilio di Trento, specialmente nella sessione del 1547.
Le parole che invitano a parlare il meno possibile, e solo in modo
riservato, del “vizietto” dei confessori sono del vescovo
di Upsala e di quello di Albi. L’invito al tribunale spagnolo
perché intervenisse contro il clero che abusava del sesso e
della confessione è di papa Pio IV, emesso nel 1561.
La
discesa in campo anche del tribunale portoghese prima e di tutti gli
altri dopo è stata decisa dai successori di Pio IV, e le norme
di carattere generale sull’argomento si trovano in una
“costitutio” emessa da papa Gregorio XV nel 1622. Da
notare che si trattava dei tribunali dell’Inquisizione, quelli
che torturavano e bruciavano i condannati al rogo sulla pubblica
piazza. Insomma, ce n’è a iosa per restare allibiti di
fronte all’ignoranza e alla malafede di chi oggi, dentro e
fuori Vaticano, si straccia le vesti perché, grazie a Beppe
Grillo e Michele Santoro, si parla delle malefatte dei preti pedofili
e del vertice della gerarchia che di fatto li sottrae ai tribunali
statali.
Come dimostrano anche gli atti del Concilio di Trento, le
bolle papali citate, il Concilio di Cosenza (1579) e quello di
Firenze, le sentenze dell’Inquisizione e una marea d’altri
documenti, la Chiesa ha da sempre il grave problema degli abusi
sessuali in particolare dei confessori, e da sempre cerca di “non
rivelare le nostre vergogne”, cioè a dire cerca di non
far trapelare nulla.
Il comportamento scorretto a fini sessuali in
confessionale finì con l’avere una sua particolare
definizione: sollicitatio ad turpia, cioè
sollecitazione alle cose turpi. E non è certo un caso
che uno dei due documenti vaticani di cui oggi tanto si discute e sui
quali ci si accapiglia, e cioè quello emesso nel 1924 e
aggiornato nel 1962, avesse un nome simile: Sollicitatio
criminis. Solo che se a quei tempi ci sono stati papi che
contro gli arraffatori sessuali hanno fatto intervenire la mano molto
pesante del tribunale dell’Inquisizione, oggi ci troviamo
sgomenti di fronte a un papa che quando era al comando dell’erede
dell’Inquisizione, vale a dire della Congregazione per la
dottrina della fede, nel maggio del 2001 ha emanato invece l’ordine
di sottrarre quei misfatti ai tribunali statali per relegarli a
quello vaticano all’epoca da lui presieduto, che però da
un bel pezzo aveva e ha tuttora solo carattere religioso e
disciplinare.
Sull’uso
adescatorio del confessionale vale la pena leggere il volume del 1988
“Sesso e religione nel Seicento a Venezia: la sollecitazione in
confessionale”, di Claudio Matricardo. Chi vuole saperne di più
dal punto di vista statistico si legga in particolare le pagine da
110 a 119 e da 144 a 147 del libro “The Inquisition in Earlly
Modern Europe. Studies on Sources and Method”,
di John Tedeschi e Gustav Henningsen, edito nel 1986 dalla Northern
Illinois University Press.
Gli abusi erano tali e tanti che si
dovette proibire la confessione a domicilio o nelle celle dei
confessori e imporre l’uso del confessionale che vediamo oggi
nelle chiese. Il primo disegno a stampa di questo attrezzo si ha a
Milano, ideato a bella posta da S. Carlo Borromeo e realizzato
materialmente nei prototipi da Ludovico Moneta, suo devoto
funzionario di curia ed ebanista dilettante. Nelle sue Instructiones
fabricae et suppellectilis ecclesiasticae, scritto nel 1573 –
in occasione del terzo concilio provinciale, tenuto a Milano - e
pubblicato a fine ’77, Borromeo raccomanda che i confessionali
modello Moneta fossero dislocati in posti ben visibili nella parte
pubblica delle chiese e che “la parte frontale [del
confessionale] deve essere completamente aperta, senza chiusure di
sorta”. Per giunta, S. Carlo ordina, subito accontentato da
Moneta nei disegni del progetto, che ci sia una apposita parete
divisoria per impedire il contatto fisico o anche il solo guardarsi
da vicino tra confessore e penitenti.
La
prima idea e la prima pratica di confessionale anti abusi sessuali
sono della Verona del vescovo Gian Matteo Giberti, ed è
possibile che S. Carlo gliel’abbia copiata, visto che il suo
assistente e organizzatore del concilio tenuto a Milano è quel
Niccolò Ormaneto che era stato stretto collaboratore di
Giberti proprio a Verona. Nel 1565 gli abusi sessuali dei religiosi
costrinsero le autorità civili di Chiari, nel Bresciano, a
chiedere al vescovo, che acconsentì, di proibire le
confessioni nelle celle dei frati. Nel 1575 papa Gregorio XIII proibì
del tutto le confessioni a domicilio e nelle celle e rese
obbligatorio l’uso del confessionale ordinando che “il
sacerdote e il penitente siano in piena vista del popolo”.
Leggiamo
cosa scrive alla curia vaticana - ancora dieci anni dopo la decisione
di papa Gregorio - lo stesso Ormaneto, diventato nel frattempo nunzio
apostolico in Spagna: “Da diverse parti molte persone di
buon zelo lacrimano meco la gran abominatione di molti huomini impii
che violano il sacramento della penitentia, tentando nell’atto
della confessione et fuori d’essa di saziar il suo sfrenato et
bestial appetito con figliole spirituali; et di questo abominevole
peccato ho sentito gran querele “. Ormaneto era talmente
scandalizzato che suggerì di ampliare la definizione di
sollecitatio ad turpia non solo all’adescamento
sessuale in occasione della confessione, ma anche in quello comunque
attuato mentre si è in chiesa anche solo per meditare.
Addirittura propose di fare intervenire l’Inquisizione in tutte
le trasgressioni sessuali dei confessori, cioè non solo in
quelle avvenute in chiesa.
Ma papa Gregorio XIII, che pure aveva reso
prudentemente obbligatorio il confessionale come lo conosciamo oggi,
non gli diede retta e in una lettera del 20 febbraio 1576 obiettò
- all’esatto contrario di Ratzinger - che “li errori
che direttamente non contraddicono a la fede Cattolica non debbano
essere conosciuti dal Sant’Officio”, come pure
veniva chiamata la terribile Inquisizione. Per evitare il più
possibile le tentazioni del sesso, venne proibito esplicitamente
l’antico gesto dell’imposizione delle mani sul penitente
al momento dell’assoluzione, gesto già reso pressoché
impossibile dalla stessa struttura del confessionale “brevettato”
da Moneta e S. Carlo.
Come
si vede, il momento della confessione è sempre stato per la
Chiesa anche un cruccio, perché ottima occasione di
adescamento: il prete costretto al celibato - e in teoria anche alla
mancanza di vita sessuale - si trova infatti solo con una donna, che
parla di peccati sessuali, cioè di lussuria…. Come
parlare di prosciutto, bistecche e cosce di pollo a un affamato. “La
carne è debole” è una realtà che vale per
tutti, specie se mancano i controlli e la sorveglianza. I soldati
quando sono loro i padroni della situazione ne approfittano, quale
che sia la loro nazionalità, così come i funzionari
dello Stato o di partito, bianco, rosso o nero che sia, che
maneggiano fondi o fette di potere e i boss delle televisioni con
potere di assunzione in pianta stabile.
C’è qualcuno
davvero convinto che esista solo Vallettopoli? O che a stuprare
fossero solo i soldati nazisti o quelli titini o i sovietici arrivati
a Berlino? Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, e non si vede
proprio perché si stracciano le vesti i vari Buttiglione,
Casini, Fini, ecc., per non parlare dell’impagabile Calderoli,
convinto che si possa sbeffeggiare Maometto con canotte padane
all’uopo disegnate ed esibite in tv, ma che non si possa
criticare il papa per documenti deprecabili da lui firmati.
Convinzioni un po’ demenziali, ma tant’è…
tutto fa brodo. Che costoro siano afflitti da ciclopica ignoranza
sull’argomento del quale straparlano è fin troppo
evidente. Ma è difficile pensare che siano ignoranti in
materia anche i vari Ruini, Bagnasco, Bertone,ecc.
In
Italia è impossibile criticare la Chiesa e il suo re assoluto,
vale a dire il papa, pena aggressioni, insulti, bavagli,
intimidazioni e imposizioni di varia natura. Per esempio, è
chiaro come il sole – anche da quel che leggo sui giornali –
che a Michele Santoro nella famosa puntata di Anno Zero dedicata a un
nastro della BBC su un caso di prete pedofilo inglese è stata
imposta la presenza del prelato Fisichella , che è anche il
“parroco” del nostro Parlamento, il titolare cioè
di un privilegio che è anche un abuso. Il Parlamento infatti
non ha, per esempio, un suo rabbino, pur essendo ebrei non pochi
parlamentari, e tanto meno un suo imam, pur non potendo escludere che
possano essere musulmani alcuni parlamentari, data la non
indifferente presenza islamica in Italia. E’ noto che tra i
parlamentari non mancano i massoni, né gli atei: eppure in
Parlamento non è previsto un Gran Maestro della Massoneria o
un esponente dell’ateismo e tanto meno un “tempio”
per loro.
Abusi
e imposizioni a parte, resta il fatto che le cose dette ad Anno Zero
da Fisichella sono – alla luce della storia anche solo del
confessionale - evidentemente infondate, se non false e non del tutto
oneste. Criticare fatti accaduti nel mondo ecclesiastico, pedofilia
compresa, non significa affatto “attaccare la Chiesa”,
così come attaccare l’eccesso di presenza di mafiosi in
Sicilia e di camorristi in Campania non significa affatto attaccare
la Sicilia o i siciliani in blocco né la Campania e i campani
in blocco.
Se ragionassimo come ragiona Fisichella dovremmo
concludere che Berlusconi e i suoi attaccano in continuazione
l’Italia, visto che sparano in continuazione bordate (per
giunta menzognere) contro il capo del governo Romano Prodi e non di
rado anche contro il capo dello Stato, della Camera, del Senato, per
non dire della violenza continua e non solo verbale contro la
magistratura. Perché i vari colleghi di Fisichella, cioè
i Ruini, Bagnasco, ecc., e lo stesso papa Ratzinger possono attaccare
in continuazione i politici italiani non asserviti al Vaticano, le
leggi della Repubblica italiana non gradite al Vaticano, i progetti
di legge detestati dal Vaticano, per giunta mobilitandosi per
bloccarli anche intimidendo le coscienze, senza che si possa dire che
si tratta di attacchi contro l’Italia intera?
Criticare gli
errori, pedofili in tal caso, di parte del clero cattolico viene
invece spacciato per un “pesante e ingiusto attacco contro la
Chiesa e il papa”. Il vizio dei due pesi e due misure, e Fisichella dovrebbe ben saperlo, alla lunga è anche un
peccato… Perché equivale infatti alla menzogna, al
sopruso, alla sopraffazione, alla falsa testimonianza, peccato
quest’ultimo gravissimo per un cristiano.
Si
può gridare da Santoro, come ha fatto Fisichella, “chi
sa, parli”, ma il problema resta: resta infatti il “segreto
pontificio” su quelle che già al Concilio di Trento
venivano definite “le nostre vergogne”, e resta il fatto
che per i religiosi quel segreto è vincolante, violarlo è
un grave “peccato mortale”, come abbiamo visto nella
puntata precedente del mio blog nel documento a firma del cardinale
Jean Villot. Si possono fare le acrobazie che più si
preferiscono, ma resta il fatto che l’ordine emanato nel 2001
da Ratzinger e Bertone è un ordine indifendibile: per il
semplice motivo che ordina l’omertà a favore dei preti
pedofili e di quelli che usano la confessione per adescare minorenni
e maggiorenni così come una professionista usa il marciapiedi
per adescare i passanti.
Se si scoprisse un documento del presidente
della Regione Sicilia che ordina il silenzio sui mafiosi e il dovere
di parlarne solo a un ufficio della Regione incaricato di “giudicare”
senza che la magistratura ne sappia nulla, beh, credo che quel
presidente passerebbe dei guai, quali che fossero le sue migliori
intenzioni nell’impartire quell’ordine. Si può
sostenere, con sprezzo del ridicolo, della logica, del significato
delle parole scritte e della grammatica, che le intenzioni dei due
firmatari del maggio 2001 erano ottime, ma resta il fatto che le
conseguenze – processualmente documentate in tutto il mondo –
sono state pessime. Compreso il caso di Firenze, con il parroco Delio
Cantini che dopo avere fatto per decenni i suoi porci comodi con
minorenni della sua parrocchia s’è visto solo cambiare
di parrocchia.
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