Le ossessioni di Giovanni Testori

L’hobby(t) della reazione. Note a margine del giustificazionismo tolkieniano di Wu Ming

I - II

XEPEL


Nel 2013 il collettivo di critici e artisti noto come Wu Ming [1] ha pubblicato un libro in difesa di Tolkien (Difendere la Terra di Mezzo) i cui argomenti sono poi stati ripresi online contro chi aveva attaccato il libro sul web. Cercheremo in questo breve scritto di spiegare perché su questo tema Wu Ming, che pure ha spesso prodotto lavori di qualità, ha assunto posizioni superficiali [2].

Vale la pena partire proprio dal titolo del libro per evidenziare il fraintendimento che contiene. Che cosa difende Wu Ming con quest’opera? Una creazione letteraria incentrata sulla descrizione della Terra di Mezzo, ossia la ricostruzione di un panorama medievale (la terra è “di mezzo” nel tempo e non solo nello spazio, l’era di mezzo è appunto il medioevo) proiettata nel ventesimo secolo. Davvero oggi c’è bisogno di difendere il medioevo? Si badi bene non lo studio del medioevo, non l’approfondimento di quell’epoca ma la difesa di quei valori proiettati nel presente. Quale parte di questo retaggio culturale merita di essere difeso secondo Wu Ming? Dal libro non si evince, ovviamente. Va dunque letto come una difesa dell’autore più che dei territori che racconta, si tratta di “Difendere Tolkien” più che la Terra di Mezzo, ma si tratta di capire in che senso Tolkien può essere difeso. Wu Ming ritiene che vada difeso nelle sue finalità narrative e ideologiche. Oltre a risultare assurdo a chiunque non sia irrimediabilmente intrappolato nel passato, questo obiettivo è totalmente futile. Cerchiamo di spiegare perché.

Le finalità narrative di Tolkien sono chiarissime e sono state più volte spiegate da lui stesso. Il senso della sua opera è mitopoietico: rifondare un mito attorno a cui raccogliere lo spirito di un popolo nell’epoca della guerra atomica. In una famosa intervista del ‘56 alla BBC, Tolkien spiegò chiaramente che la mitologia per l’uomo (nordico) del XX secolo non poteva basarsi su Thor o sui Nibelunghi. Andava calata nel contesto presente. Tolkien ci provò fondendo una descrizione arcaizzante, nello stile e nelle ambientazioni, a tematiche moderne. Questo è ciò che lo rende uno scrittore importante e lo distanzia dai suoi innumerevoli epigoni.

Gli obiettivi che si pone fanno di Tolkien, come vedremo, un conservatore nel senso più etimologico del termine, ma la cosa è irrilevante per il critico. È un elementare errore di critica letteraria difendere o attaccare un’opera d’arte per il suo contenuto narrativo o peggio per le idee professate dal poeta, che potranno interessare al massimo al suo biografo. Ad esempio, è difficile trovare un gruppo umano più detestabile degli eroi greci dell’Iliade, un branco di predoni stupratori, invasati e ingordi per giunta marionette del volere degli dei. Non se ne salva uno. Per questo smettiamo di leggere l’Iliade? Oppure per assaporare quest’opera difendiamo le ragioni di questi personaggi che invadono e distruggono una città dando vita a una pulizia etnica che ricorda la ferocia nazista? Che dire poi della Divina Commedia, in cui si difende una versione pienamente medievale del cattolicesimo, come è ovvio attendersi, e che è piena di meschine vendette personali di Dante contro i suoi nemici politici? Bisogna prendere parte tra guelfi bianchi e neri per apprezzare la poesia dantesca? Non ha nemmeno senso porsi queste domande. Perché mai dovrebbe essere diverso per le gesta nella Terra di Mezzo che per giunta non è mai esistita?

Merita appena un accenno il tentativo semplicemente imbarazzante di Wu Ming di utilizzare il successo commerciale di Tolkien come metro di valore storico. Sarebbe sin troppo facile osservare quanti artisti immortali risultino meno venduti di mestieranti che possiamo definire eufemisticamente minori. Anche in casa Tolkien è successo, dato che il fantasy nel suo complesso continua ad avere molto successo, seppure si tratti di letteratura di genere nel migliore dei casi. A ciò aggiungiamo che sarebbe difficile stabilire quale pubblico oggi avrebbe Tolkien senza i film, proprio come vale per la saga di Harry Potter che, per inciso, ha venduto molto di più di Tolkien senza che ciò la renda un capolavoro letterario.

Wu Ming sottolinea giustamente che Tolkien ha avuto il genio di creare un intero mondo, descritto con una precisione fotografica, partendo dalla leva più improbabile: il linguaggio. Come professore di inglese antico, iniziò per puro divertimento intellettuale a creare lingue antiche e da lì gli venne l’idea di dare un mondo a queste lingue. La lingua creata da Tolkien nasce essenzialmente dalla nomenclatura, dall’elencazione di mitici nobili e potenti che l’autore pesca a piene mani da leggende e lingue del passato germanico (dal gotico e dall’Edda per esempio). L’effetto arcaizzante non è dunque una scelta successiva, determinata dal materiale narrativo sprigionato dalla fantasia dell’autore, ma pre-esiste e per certi versi è fondativo della narrazione stessa. Il ruolo della lingua nella creazione tolkieniana è idealista nel senso più platonico immaginabile: l’idea produce un mondo sbiadito. In principio fu letteralmente il verbo.

Il mondo di Tolkien

Come si è detto, la motivazione principale con cui Tolkien sviluppa il suo mondo è lanciare un ponte verso i miti del passato, consentire allo spirito delle leggende medievali di tornare a vivere con un senso rinnovato. Il punto è che lo sviluppo del capitalismo ha distrutto ogni legame con il medioevo, compresi i suoi miti e nessun ponte, per quanto ben costruito, può rimediare. Si tratta allora di creare ex novo dei miti che si pongano gli stessi scopi di quelli originali: difendere l’ideologia dominante, cattolica come nel medioevo, ma il cui contenuto sociale e politico è radicalmente differente. Adesso infatti si tratta di difendere l’impero britannico dai suoi nemici interni ed esterni. L’opera di Tolkien è dunque apertamente religiosa:

“In a widely quoted letter written in 1953 to Fr. Robert Murray S.J., J.R.R. Tolkien wrote: “The Lord of the Rings is of course a fundamentally religious and Catholic work; unconsciously so at first, but consciously in the revision”.”[3]

A ben guardare, alcuni aspetti specifici dell’intreccio narrativo rimandano a tematiche cristiane: portare l’anello è come portare la croce, il male non può essere mai sconfitto a causa del peccato originale, il sacrificio di Gandalf che muore e risorge ecc.; nel complesso la narrazione di Tolkien è profondamente escatologica, e il sostrato cattolico è ben visibile nel ruolo totalmente marginale delle donne che non incidono in nulla di significativo nella storia (non ce n’è una nella Compagnia dell’Anello) nemmeno come spose, madri o figlie dei protagonisti. C’è da salvare il mondo dal male, le donne stiano a casa. Poi certo almeno Aragorn ha una sposa promessa e una spasimante, d’altronde non per nulla è l’eroe. Wu Ming sostiene invece che poiché Frodo cede al male e non redime nessuno questo racconto “non può essere una metafora di Cristo”; eppure nei Vangeli Cristo cede più volte a sentimenti ben poco divini: l’ira, la sfiducia verso Dio suo padre, ed è proprio questo suo essere uomo a tutti gli effetti, comprese le umane debolezze, che salva il mondo, come sottolinea la dottrina cattolica. Come vedremo, il legame debolezza-salvezza è non a caso centrale nella narrazione tolkieniana. Tuttavia, gli elementi specificamente cattolici sono meno rilevanti dell’aspetto mitopoietico nel suo complesso, che ha un obiettivo più importante e più direttamente politico rispetto alla difesa della religione che, all’inizio, è la difesa dell’impero britannico, e dopo il ‘45 diviene la difesa dell’occidente dal comunismo. Partiamo dal primo aspetto.

L’opera di Tolkien è una difesa dell’imperialismo britannico dalle pretese delle altre potenze, in primis la Germania. Alla luce delle caratteristiche e delle esigenze dell’impero si comprendono gli aspetti centrali della Terra di Mezzo nelle sue caratteristiche ben poco medievali. Prendiamo il tema delle razze e del razzismo. L’impero britannico comprendeva un variegato insieme di popoli ed etnie (razze nella definizione ottocentesca), ugualmente utili per il benessere dell’impero grazie alla guida di Londra, della razza superiore, l’uomo bianco cristiano. Le razze, dunque, hanno tutte un ruolo da giocare nella storia e risultano tutte decisive per la salvezza dell’impero, come diviene chiaro quando viene loro richiesto un tributo di sangue nelle molte guerre combattute dall’Inghilterra. Aiutare l’impero a prosperare, ovviamente, non rendeva questa gente meno oppressa, ad eccezione di qualche singolo individuo che veniva educato come un membro della razza superiore e assimilato ai suoi padroni. La lotta dei popoli della Terra di Mezzo contro Sauron è la trasposizione di questo meccanismo reso magnificamente dalla penna di Tolkien. Al contrario, Wu Ming vi vede una sorta di ecumenismo progressista  perché la Compagnia dell’Anello è formata da molte razze. Ovviamente, gli indiani o i sudafricani morti nelle trincee della prima guerra mondiale per la gloria dell’impero britannico non hanno alcuna valenza ecumenica. Citiamo proprio i sudafricani perché Tolkien fu tra loro e le trincee ebbero un ruolo decisivo nello spingere l’autore a creare l’universo narrativo di cui ci stiamo occupando.

Il mondo di Tolkien è una trasposizione dell’impero britannico minacciato da nemici interni ed esterni. È in questo senso che si può definire razzista la sua opera: è ovvio che i regnanti e i Lord britannici sono maschi bianchi e tali saranno dunque le razze superiori della Terra di Mezzo. Eppure, non è questo l’aspetto più importante della narrazione, al contrario, la perfezione elfica e l’impeto guerriero degli uomini si rivelano totalmente impotenti. Tanto più grandi e grossi, tanto più inadeguati a fermare il male. Qui si pone il ruolo degli Hobbit che, come vedremo, sono la chiave di volta dell’opera narrativa di Tolkien. Gli Hobbit, per certi versi inferiori a tutti gli altri abitanti della Terra di Mezzo, sono proprio per questo i predestinati a salvare il mondo. Il merito di Aragorn che non è folle come Boromir che concepisce i rapporti con gli altri come una prova di forza fisica, e si considera dunque superiore ai mezzuomini, è che riesce a unire tutte le razze di fronte al nemico, ed è il vero eroe proprio perché non ha pregiudizi contro le altre razze e riesce a servirsi di tutti per i suoi scopi. Il razzismo è un elemento propriamente medievale e dunque statico. Qualunque impero ha alla base un’ideologia razzista, ossia la pretesa, variamente basata, che l’élite dominante sia superiore alle plebi subordinate, ma poi per sopravvivere ha dovuto pescare gli elementi più utili dalle classe oppresse. Come osservò Marx: “quanto più una classe dominante è capace di assimilare gli uomini più eminenti delle classi dominate, tanto più solida e pericolosa è la sua dominazione”. La genialità di Tolkien sta nell’unire questi due aspetti. Le razze sono nettamente segnate nella Terra di Mezzo, più di quanto potrebbero mai volere nei loro sogni i razzisti più incalliti, ma non è dalla purezza e dalla forza delle razze superiori che viene la salvezza, ma dall’umiltà dei più piccoli. Una lezione cristiana che dipinge le esigenze dell’impero britannico di quegli anni.

Infatti di fronte a nemici sempre più minacciosi, l’impero chiama a sua difesa tutte le razze  perché collaborino sotto la direzione illuminata della Corona. La salvezza di Londra non viene da grandi guerrieri ma dall’uomo comune, disposto a morire in trincea, sbudellato dal suo omologo tedesco. Gli Hobbit appunto, non gli Elfi. È il legame tra mito e impero britannico che permette di comprendere in che senso l’opera di Tolkien si basa sul razzismo ma anche l’origine delle posizioni personali dell’autore. Ad esempio, Tolkien appoggiò Franco perché la Spagna franchista non costituiva una minaccia per l’imperialismo britannico che anzi, beneficiava del massacro della classe operaia iberica a opera delle milizie del Generalissimo. Tuttavia, rifiutò sdegnosamente di dichiararsi ariano per compiacere un editore tedesco e avrebbe volentieri combattuto nella seconda guerra mondiale come combatté nella prima, perché il nazismo era una minaccia diretta alla sopravvivenza dell’impero. Nel mondo di Tolkien dunque, il razzismo è selettivo ma non per questo meno pervasivo. Tolkien non era antisemita e apertamente fascista come Howard, il creatore di Conan, d’altra parte quale complesso mito potrebbe mai fondare un personaggio il cui spessore verbale è costituito da bestemmie? Difende più i valori occidentali un sorriso di Topolino che Conan con tutta la sua futile prestanza fisica.

L’epoca in cui Tolkien concepisce la sua opera è scandita da avvenimenti davvero epici: due guerre mondiali, la rivoluzione bolscevica e la controrivoluzione stalinista, il nazifascismo, la decolonizzazione, la guerra fredda per non parlare della guerra civile in Spagna o della rivoluzione cinese. Sono eventi con cui è difficile confrontarsi attraverso un romanzo. Ci riuscì Orwell che produsse opere direttamente connesse a questi eventi, dalla fattoria in cui si consuma la vittoria stalinista contro i bolscevichi al mondo immerso nel terrore burocratico. Tolkien scelse un’altra strada, la mitopoiesi appunto. Già con L’Hobbit, uscito nel ‘37, il successo fu clamoroso e lo spinse a realizzare il suo disegno in spazi ben più ambiziosi e in un contesto peraltro molto differente: l’impero britannico aveva nuovi nemici e nuovi alleati. L’oscura minaccia si spostava verso est: al nazismo si sostituiva la guerra fredda.

L’Hobbit contiene già tutte le caratteristiche del romanziere Tolkien. È un’opera che può piacere a un ragazzo ma non è certo scritta per ragazzi. È tutto fuorché un prodotto escapista e disimpegnato. Al contrario Tolkien è impegnatissimo nel difendere la propria visione delle cose, cattolica e imperiale, una  visione che si incarna in storie complesse e combattute, dove gli eroi sono tormentati da un male pervasivo e invincibile da cui sono oppressi.

L’hobby(t)

Nata per hobby nella mente di un professore di linguistica, l’opera di Tolkien è grande nel senso più diretto del termine. È complessa, ricca di intrecci, accurata, coerente, ma anche di una semplicità infantile. Il male è inestirpabile  perché è il peccato originale. Usare la forza per eliminarlo conduce al lato oscuro, per citare una nota saga di fantascienza che riprende a piene mani dalla poetica tolkieniana. L’unica speranza che rimane alla Terra di Mezzo per non soccombere alle armate di Saruman e Sauron è coinvolgere uomini-bambini e dunque rimanere bambini, ingenui, ma veri, come gli hobbit che incarnano tutto ciò, rappresentando in forma fantastica la piccola borghesia rurale, base sociale della reazione europea da prima di Napoleone.

Gli uomini sono deboli nello spirito ma forti nel corpo, aspetti che li rendono inclini al male. Non possono dunque salvarsi da soli. Cercare di sconfiggere il male con la forza è un errore imperdonabile. In questa idea, che percorre tutta l’opera di Tolkien, c’è la valutazione realistica che i dirigenti dell’impero britannico facevano della situazione creatasi con la fine della seconda guerra mondiale. La Germania era stata sconfitta con la forza delle armi in ben due guerre mondiali, ma nell’epoca atomica cercare di distruggere il nemico Sauron, a capo di un vasto impero che si estendeva dalla Siberia ai paesi baltici, avrebbe comportato l’annientamento del genere umano. Bisognava piuttosto farsi piccoli e umili, accettare un lungo percorso di dolore e insidie sinché l’impero del male non sarebbe crollato da solo. Tolkien come la CIA sino al 1991, non aveva idea di quando sarebbe successo, però sapeva che non c’erano altre strade. Di fronte al male gli uomini scelgono il bene e arginano il male seppure non lo vincono in campo aperto. È la politica del containment di Truman.

Nella visione di Tolkien tutto ciò che è moderno è male. Ciò vale innanzitutto per la produzione industriale. Gli unici intenti a produrre qualcosa su larga scala nella Terra di Mezzo sono orchi e simili; tra i buoni vi sono fabbri artigiani, i nani, non a caso la razza di “buoni” più ripugnante. Vale poi per il potere, sempre cattivo come gli esseri che lo difendono. Di fronte a Mordor, dipinta come un’immensa workhouse medievale, la soluzione è rifugiarsi nelle campagne. Difendere il passato contro il futuro. Se si mette assieme la visione tradizionalista e la realtà della bomba atomica si può capire da dove vengono gli Hobbit che pure, storicamente parlando, predatano Hiroshima di diversi anni.

Gli hobbit sono l’invenzione più genuina di Tolkien e la più efficace. Nel ventesimo secolo, narrare le storie dal punto di vista dei re, degli eroi, non attirerebbe nessuno. Tolkien parte invece dalla visione del mondo degli hobbit, il piccolo uomo che deve affrontare i problemi mondiali con una “percezione delle cose moderna e borghese a noi familiare” spiega bene Wu Ming. Gli hobbit non sanno nulla del passato e nemmeno del presente del loro mondo al di fuori del loro piccolo ambiente, sono dunque guide perfette per il lettore che si immedesima nell’uomo qualunque catapultato in vicende eroiche, meccanismo che compare anche in innumerevoli film hollywoodiani. Delle vicende di elfi e orchi agli hobbit non interessa nulla. Vorrebbero solo coltivare i campi ed essere lasciati in pace, solo che il mondo non li lascia in pace. Come Cincinnato devono salvare il loro mondo dal nemico sperando di tornare presto alle proprie occupazioni e all’erba pipa. Il loro è un eroismo dell’uomo comune, che pur lontano dalle vicende che sconvolgono gli equilibri mondiali, fa la cosa giusta: gli hobbit appena Mordor aggredisce gli uomini entrano in azione. Definire però come fa Wu Ming questa una “concezione democratica dell’eroismo” è antistorico. L’impero britannico è stato una democrazia lungo tutto l’arco delle numerose guerre coloniali con cui ha sterminato e sottomesso popoli in tutti i continenti, mandando a morire contadini e operai britannici sui campi di battaglia e nei mari di mezzo mondo, per la gloria e la ricchezza dell’élite imperiale. Se morire in una guerra votata da un parlamento rappresenta l’eroismo democratico, la storia dell’Inghilterra degli ultimi secolo ne è intrisa.

Gli hobbit non amano la guerra, sono pacifici, senza re, senza vistose differenze sociali, senza grilli per la testa. Quintessenza dell’anti-eroe sono i veri eroi di Tolkien: chi può salvare il mondo dal comunismo se non l’arretratezza sociale e politica delle campagne dei paesi occidentali? La campagna contro la città, i campi contro l’industria. Il piccolo uomo ignorante ma sincero. Nota Shippey, in un saggio contenuto nel libro di Wu Ming, che “la Contea rappresenta in forma idealizzata l’Inghilterra medio-borghese della giovinezza di Tolkien”. Nella Contea le classi sono appena accennate, mentre nel Mark o a Gondor chi lavora non si vede ma c’è e mantiene gli eroi. Ecco la differenza chiave. Ecco  perché gli hobbit possono salvare il mondo, e i cavalieri di Rohan no. A questi piccoli uomini, lontani dalle lusinghe del potere, pacifici e incolti, spetta il compito di distruggere il nemico, il male. La distanza dal machismo superomista di Conan e di cento altri supereroi non potrebbe essere più siderale.

È altrettanto fuori luogo usare la Contea o gli Ent per parlare di ecologismo ante-litteram. Non è più ecologista della caccia alla volpe o della mezzadria. Tolkien è naturalmente contro l’industria in quanto fonte di progresso tecnico, ideologico e potenzialmente sociale. Wu Ming cita Owen, Engels, Morris per dimostrare quanta letteratura socialista leghi industria moderna e immiserimento del proletariato. È vero, ma questa stessa letteratura individua la soluzione nella socializzazione dell’industria non nel ritorno al medioevo. La differenza tra Tolkien e questi pensatori è abissale.

Difendere il passato o il futuro?

Abbiamo osservato che il contenuto dell’opera di un autore o le sue idee politiche possono interessare al suo biografo, ma non dicono molto sull’importanza dell’opera stessa. Si può apprezzare l’opera di Tolkien senza condividerne in nulla gli ideali reazionari o le finalità per cui compose i suoi romanzi. Wu Ming preferisce la strada della difesa a oltranza. Così inventa un Tolkien eterodosso, propugnatore dell’“eresia di chi è andato controcorrente". Che cosa ci sia di eretico nel difendere il medioevo non è dato saperlo. Comunque sia anche i nazisti nella Germania odierna sono controcorrente, questo non li rende meritevoli di difesa.

Allo stesso modo definire Aragorn un personaggio dalla moderna umanità è del tutto soggettivo così come parlare di eroi "sfaccettati"; si tratta in realtà di macchiette, ad eccezione non casuale degli hobbit, a cui l’autore dona un minimo di profondità, e ciò vale particolarmente per Gollum, l’unico personaggio davvero interessante di tutta l’opera di Tolkien. Ben più ponderato pare un giudizio citato proprio nel libro di Wu Ming, preso da una recensione sull’Observer del ‘55, che parla di "ragazzi mascherati da eroi adulti" ed è così, questi sono i personaggi di Tolkien. In fondo tutti gli uomini non sono che dei ragazzini di fronte all’Altissimo.

Futili sono anche le lamentele per l’accostamento che è sempre stato fatto in Italia con Evola e altri anti-modernisti. Che Tolkien sia un anti-modernista non v’è dubbio. Sarebbe stato il primo a riconoscerlo. La differenza non sta in quello, la differenza sta nel fatto che ha prodotto opere d’arte di qualità ed è per questo che è immortale.

Ma dove la difesa di Tolkien non consente di capire la vera natura della sua opera è proprio quando si parla degli hobbit. Difendendosi da una critica di Del Corso e Pecere, Wu Ming scrive:

"Il fatto che il vero eroe del Signore degli Anelli sia Samvise Gamgee, cioè un esponente delle classi basse, non viene registrato. Non pervenuti nemmeno gli Hobbit che insorgono contro l’usurpatore Saruman, evidentemente indegni d’essere considerati «popolo» (forse perché non impugnano una bandiera rossa).”[4]

Come abbiamo osservato, in tutte le epoche la classe dominante è costituita da un’esigua minoranza della popolazione. La sopravvivenza del dominio sull’immensa maggioranza è dunque assicurata dalla capacità di cooptare gli elementi migliori delle classi subordinate. Da Sargon a Napoleone e Hitler, questa selezione ha dato ottimi frutti. Gli hobbit hanno appunto questo ruolo che si può definire della carne da macello quando sono tanti, di eroi quando sono pochi. Un contadino che salva il reame è un elemento di conservazione e di prosecuzione dello status quo. Non conta la classe di appartenenza, come sembra credere Wu Ming, ma la classe che si difende. Se Aragorn e Boromir avessero sconfitto Sauron senza l’aiuto degli hobbit l’opera di Tolkien non sarebbe stata di nessun interesse per il lettore comune, che non è un re, non è un grande guerriero, ma è un hobbit, ossia uno che lavora dalla mattina alla sera, vive un’esistenza alquanto semplice e non mettendo in discussione lo status quo, permette ai re e alla classe dominante di continuare a comandare.

Altrettanto debole è il rifiuto del manicheismo tolkieniano:

“Quanto poi alla divisione carismatica tra buoni e cattivi, suona davvero paradossale imputarla a un romanzo il cui protagonista, Frodo Baggins, indubbiamente «buono» in partenza, viene alla fine sopraffatto dal male e sceglie di non distruggere l’Anello e di tenerlo per sé”

Si è già detto che persino Gesù Cristo nel momento saliente delle sue vicende umane dubita di suo padre (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) e ogni super-eroe che si rispetti ha la sua kryptonite. Se un eroe non avesse debolezze, incertezze, vacillamenti, sarebbe un automa. La replica alla difesa di Wu Ming è alquanto facile: quanti orchi passano con i buoni nel Signore degli Anelli? Nelle opere reazionarie e particolarmente in quelle anticomuniste, il male è male senza se e senza ma mentre il bene è composto da elementi incerti, ed è ovvio: i comunisti senza eccezioni sono cattivi, gli occidentali invece sono compositi  perché democratici e  perché illusi di poter arrivare a un accomodamento con il male. Tuttavia, alla fine, gli eroi sono eroi  perché fanno la cosa giusta, ossia combattono il male. Frodo vacilla ma con l’aiuto di Sam fa il suo dovere. In questo tentativo maldestro di respingere il manicheismo, a onor del vero non sono soli. Lo stesso Tolkien in una lettera che scrisse a Naomi Mitchison, scrittrice e poetessa socialista dice:

“Alcuni recensori hanno definito il libro semplicemente come una lotta fra Bene e Male, dove tutti i buoni sono buoni, e i cattivi sono cattivi. Scusabile, forse (anche se si sono lasciati sfuggire Boromir) in persone che hanno fretta, e con un unico frammento a disposizione da leggere e, naturalmente, senza le storie sugli elfi scritte in precedenza ma non pubblicate[5]. 

In realtà, Boromir viene ucciso dalla propria debolezza, ben altri sono gli eroi del “frammento” ossia le centinaia e centinaia di pagine che Tolkien dedica alla Compagnia dell’Anello. Ripetiamo anche qui l’ovvia considerazione: dove sono non gli elfi cattivi (ovvio rimando dottrinale ai diavoli come angeli caduti in disgrazia), ma i diavoli (ossia gli orchi) buoni? È la redenzione dei cattivi che taglia alla radice una visione del mondo manichea ma questa redenzione non potrà mai darsi. Il male, ossia i nemici dell’impero prima e il comunismo dopo, vanno distrutti.

Per concludere, la Terra di Mezzo come visione del mondo non può essere difesa da nessun punto di vista. Se Tolkien dovesse essere valutato in quanto narratore della Terra di Mezzo sarebbe inferiore anche a Peyo, il creatore dei Puffi, che come gli hobbit vivono felici in mezzo ai boschi senza interessarsi del resto del mondo, allegri e spensierati e come gli hobbit si ritrovano un nemico stregone che riescono a vincere con l’aiuto di un vecchio saggio. Se possiamo relegare i Puffi a divertimento per bambini e mantenere Tolkien tra la narrativa importante non è per gli intenti ideologici che lo hanno animato, ma nonostante questi. Difendere Tolkien dalla Terra di Mezzo è l’unico modo per poterlo continuare a leggere e apprezzare.

http://it.wikipedia.org/wiki/Wu_Ming

(http://www.xepel.altervista.org/index.php/arte/44-letteratura-e-fumetti/56-la-poetica-di-tolkien-un-punto-di-vista-materialista.html).

[3] In AA VV (a cura di Hammond e Scull) The Lord of the Rings 1954-2004. Scholarship in Honor of

Richard E. Blackwelder, Marquette University Press, 2006, p. 217.

[4] http://www.jrrtolkien.it/2013/11/10/difendere-la-terra-di-mezzo-un-altro-libro-su-tolkien/.

[5] Lettera del 25 settembre 1954, riportata nell’articolo di Wu Ming citato alla nota 4.

Fonte: www.xepel.altervista.org

Testi di Tolkien


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019