MARIO RAPISARDI (1844-1912)
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Mario Rapisarda (Rapisardi si chiamò poi, in sottinteso omaggio a uno dei suoi autori preferiti, Leopardi) nacque a Catania nel 1844. Suo padre, un agiato procuratore legale, pur non impegnato politicamente, era di idee liberali e amico di alcuni dei rivoluzionari borbonici fucilati nel '37. Mario, oltre ad amare la letteratura e la storia, suonava discretamente il violino e coltivava la pittura. Studiò dai gesuiti. Nel '59 esordiva con l'Ode a Sant'Agata vergine e martire catanese. Lettore appassionato di Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi e di vari autori risorgimentali, scrisse, ancora adolescente, un Inno di guerra, agl'italiani e l'incompiuto poemetto Dione, nella cui prefazione esalta le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta, partecipando così all'atmosfera politica di quei mesi, culminati coll'impresa di Mille, che pose fine alla monarchia borbonica. Per contentare il padre, frequenta un corso di giurisprudenza, ma non giungerà a laurearsi. Invece lo interessa moltissimo lo studio dei classici greci e latini, che gli suggeriscono le prime traduzioni, le ricerche filologiche e filosofiche di carattere positivistico. Frutti di questo periodo formativo il poemetto Fausta e Crispo e i Canti. Nel '65 parte per Firenze, allora capitale del Regno, per il centenario della nascita di Dante, cui dedicò l'ode declamata in quell'occasione, e qui, in un clima acceso da fermenti mazziniani e repubblicani, stringe amicizia coi poeti Dall'Ongaro, Prati, Aleardi, Fusinato, Maffei, col dotto Pietro Fanfani, con l'orientalista De Gubernatis e con altri importanti artisti e intellettuali. Nel '68 pubblica il suo primo poema, La Palingenesi, dove in 10 canti polimetri condanna la corruzione del clero e difende l'azione moralizzatrice di Lutero, prospettando col connubio arte-scienza il ritorno del cristianesimo alla purezza originaria. Il successo dell'opera (Verga fu uno dei primi a congratularsi) echeggia anche all'estero (Victor Hugo è tra i più significativi estimatori), mentre il municipio di Catania assegna all'autore una medaglia d'oro e il ministro Correnti lo chiama a insegnare letteratura italiana nell'ateneo catanese. Nel '72 escono i versi de Le Ricordanze che, pur nei limiti dell'imitazione leopardiana, rivelano una genuina vena intimista. Nello stesso anno sposa Gisella Fojanesi. Uno studio critico su Catullo gli vale nel '75 la nomina a professore straordinario di Letteratura italiana e l'incarico di Letteratura latina all'Università di Catania. Già da qualche anno il poeta è dedito alla stesura del suo secondo poema, il Lucifero, ispirato dalle Guerre de Dieux del Parny, ma anche da Milton e dal carducciano Inno a Satana. Il poema, in 15 canti polimetri, pur essendo diseguale a livello artistico (a efficaci descrizioni e qualche episodio memorabile oppone una certa macchinosità d'insieme e non rare cadute di tono per non dire di gusto), resta l'espressione più significativa della poesia italiana d'indirizzo positivista. Per il Lucifero, che esce nel '77, Rapisardi riceve un biglietto entusiastico di Garibaldi, che si firmò "suo correligionario", mentre l'arcivescovo di Catania ordinò, pare, un autodafé del libro. Insignito -lui, schietto repubblicano- del titolo di Cavaliere della Corona d'Italia (per aver celebrato, nell'XI canto del poema, le guerre d'indipendenza e l'ossario di Solferino) e nominato professore ordinario di Letteratura italiana e latina dal ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, che lo stimava, Rapisardi pubblica nell'83 i versi sociali (e sarcastici) di Giustizia, che trovarono vasti consensi (suo epicentro sta nel Canto dei mietitori). Quest'opera nel '24 sarà addirittura proibita dalla politica fascista. Alla fine dell'83 rompe il matrimonio con la moglie, che intanto s'era legata al Verga. Il Carducci, al quale aveva "devotamente" inviato una copia del Lucifero, resosi conto d'essere oggetto di caricatura in alcuni versi dell'XI canto ("plebeo tribuno e idrofobo cantor, vate di lupi"), apre con Rapisardi quella polemica che avrebbe divido l'Italia letteraria degli anni '80. Dall'epistolario del Carducci si scoprono fin dagli anni '60 frasi poco tenere nei confronti del Rapisardi, che certo non era di carattere facile. D'altro canto, di tutti i poeti della sua generazione, egli in fondo stimava solo Arturo Graf. Molte delle sue frecciate tuttavia rimasero o inedite o affidate alla discrezione dei suoi interlocutori epistolari. Di pubbliche vi furono solo le allusive caricature schizzate in certi passi dei poemi. Naturalmente la polemica col Carducci è una storia a sé. Nell'84 usciva il poema Giobbe, che è il suo capolavoro: la figura del protagonista, umiliato e castigato da Dio senza motivo, diventa un simbolo dell'umanità sofferente. I distici dove il personaggio grida a Dio la sua disperazione (libro III della parte I) toccano altezze forse ineguagliate nella poesia italiano del secondo Ottocento. Nell'85 inizia a convivere con una diciottenne assunta come segretaria, Amelia Poniatowski, figlia di genitori ignoti: gli sarà compagna fedele per tutta la vita. Nell'87 dà alle stampe le splendide Poesie religiose, forse il suo vertice lirico, cui seguono i cesellati Poemetti ('92) e gli Epigrammi ('97), nonché delle impegnative traduzioni di opere di Catullo, Shelley e Orazio, anche se la cosa più importante resta la traduzione e lo studio critico del poema La natura di Lucrezio ('79). Nel '94 pubblica il suo quarto e ultimo poema, L'Atlantide, dove, ispirandosi ai Paralipomeni del Leopardi, disegna nelle vicissitudini del poeta Esperio la società italiana lasciva e inetta, additando nella corruzione il principio dei mali. Nel mentre disprezza la borghesia, canta le figure di Newton, Darwin, Pisacane, Marx, Cafiero e altri grandi della storia universale. Denuncia con lucidità e coraggio la criminale politica del governo Crispi (vedi la repressione dei "fasci siciliani"), nella prefazione a Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause ('94) e nel dialogo Leone ('95), che spiegano le feroci repressioni dei moti contadini e operai, nonché nel pamphlet Africa orrenda ('96) e in alcune poesie, avverse al truculento colonialismo. Negli ultimi anni si chiude in un silenzio ostinato, indifferente agli onori dei concittadini, che superano di gran lunga quelli tributati a Verga, De Roberto, Capuana… Non lo toccano neppure le critiche di molti studiosi (specialmente il Croce), anche se tra le sue carte si sono trovati feroci epigrammi a gran parte dei letterati dell'epoca: Fogazzaro, Croce, Pascoli, Carducci, D'Annunzio… Egli muore nel 1912 a Catania: al suo funerale parteciparono oltre 150.000 persone, con rappresentanze ufficiali che giunsero addirittura da Tunisi. Catania tenne il lutto per tre giorni. Nonostante questo, a causa del veto opposto dalle autorità ecclesiastiche, la sua salma rimase insepolta per quasi dieci anni in un magazzino del cimitero comunale. Il nome di Rapisardi, rimasto in ombra per tutto il periodo del fascismo, riemerse dopo la Liberazione, grazie agli studi di Concetto Marchesi, Asor Rosa, La Penna e Saglimbeni. |