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I
PREMESSA
Durante i secoli della dominazione romana il latino si era imposto sulle
lingue indigene in Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Romania, mentre nella
parte orientale dell'impero si era conservata la lingua greca. Quando l'impero
crollò, le lingue occidentali parlate prima d'essere influenzate dall'egemonia
latina, presero il sopravvento e mescolandosi col latino parlato (assai diverso
da quello scritto di Virgilio, Orazio o Cicerone) determinarono le nuove lingue
romanze o neolatine. Le invasioni germaniche dispersero la debole influenza
romana nell'Europa centrale, settentrionale e orientale.
E così si formarono: in Francia, a nord, il gallo-romanzo, antenato del
francese, a sud il provenzale; in Spagna, al centro, lo spagnolo o castigliano,
sulle coste atlantiche il gallego, antenato del portoghese, a est il catalano
(simile al provenzale); in Romania i contadini conservano la loro lingua di
origine latina, che diventa ufficiale nel XVI sec..
In Italia riemergono i vari substrati pre-latini, che però restano per molto
tempo senza scrittura, in quanto alle necessità dello scrivere - testi
scientifici, filosofici, teologici, giuridici- continuano a provvedere col
latino gli ecclesiastici. Tali substrati si mescolano con popolazioni straniere
che, stanziatesi in territori diversi della penisola, parlano linguaggi
completamente diversi: Longobardi, Greco-Bizantini, Franchi, Arabi, per citare
solo i più importanti.
In una situazione del genere, il latino parlato evolve inevitabilmente per
suo conto, mentre per la conservazione di quello scritto si preoccupa la chiesa.
E così il bilinguismo tra parlato e scritto riproduce, in un certo senso, il
distacco fra le élites dotte e le masse degli analfabeti: non a caso
nella funzione della messa l'aspetto liturgico vero e proprio viene recitato in
latino, mentre l'omelia è sempre pronunciata in volgare (o comunque esiste
l'obbligo, a partire dagli inizi del IX sec., di tradurla in volgare).
Ciò significa che è impossibile ricostruire la nascita dei vari dialetti
italiani. Delle trasformazioni del latino parlato si hanno pochissimi documenti
ed essi non riproducono la lingua parlata del popolo nella sua genuina
spontaneità, ma una lingua che il popolo potesse capire, elaborata quindi da
intellettuali.
A tutt'oggi, le lingue diverse dall'italiano (parlate alloglotte di circa
600.000 persone) presenti nella nostra penisola sono le seguenti:
franco-provenzale nelle Alpi piemontesi, in Val d'Aosta e in due Comuni della
Puglia; provenzale nelle Alpi piemontesi e in un Comune della Calabria; tedesco
nell'Alto Adige e in altre zone alpine e prealpine; sloveno in alcune zone del
Friuli e nelle Alpi Giulie; serbo-croato in alcuni Comuni del Molise; greco in
alcune zone del Salento e della Calabria; albanese in alcuni Comuni del Molise,
della Campania, del Gargano, della Lucania, della Calabria e della Sicilia;
catalano nel Comune di Alghero e in Sardegna. Quelle riconosciute come lingue
ufficiali sono il francese in Val d'Aosta, il tedesco in Alto Adige e lo sloveno
in alcune zone del Friuli.
Se poi prendiamo la situazione dei dialetti italiani la situazione si
complica incredibilmente. Infatti all'interno di tre grandi gruppi di dialetti:
settentrionali, toscani e centro-meridionali (cui bisogna aggiungere i dialetti
sardi e ladini), vi sono un'infinità di sottogruppi. Per quanto oggi relegati a
un uso quasi esclusivamente locale e familiare, continuano a sussistere,
costituendo un bacino di risorse espressive per la stessa lingua italiana. Non a
caso è notevolmente aumentato il loro studio da parte degli specialisti.
* * *
In Italia le prime parole in volgare si trovano in una serie di iscrizioni
latine (392, 404…). Di regola i documenti che ci sono pervenuti sono stati
compilati da persone che conoscevano perfettamente il latino e si sforzavano di
comunicare in volgare, per fissare regole comuni, rapporti giuridici, contratti
ecc.
Il famoso indovinello veronese, vergato da un amanuense che descrive con
ironia la propria arte, risalente all'inizio del IX sec.: Se pareba boves…,
manifesta una lingua certamente non più latina. Il Glossario di Monza
del X sec. ha 63 parole dell'Italia padana tradotte in greco. Con la Carta
capuana del 960 siamo addirittura in presenza, per la prima volta, di una
frase in volgare indicante un giuramento formulato da un giudice ai testimoni.
Nel 1084 vengono trovate nella basilica di S. Clemente di Roma delle frasi
ingiuriose in un affresco di pittore ignoto.
Il modello umbro, già presente nell'XI sec., raggiunge le sue più alte
espressioni nelle Laude di Jacopone da Todi e nella poesia religiosa.
Particolare importanza hanno taluni documenti scritti in dialetto piemontese,
come i 22 Sermoni subalpini del sec. XII, che presentano caratteristiche tipiche
di tutta la famiglia dei dialetti settentrionali.
Il primo tentativo sistematico di elaborare una vera e propria lingua
letteraria volgare, nella quale possano essere espressi contenuti di carattere
profano e amoroso, è rappresentato dal cosiddetto linguaggio franco-veneto,
che si afferma nella Padania, regione aperta agli influssi francesi e
provenzali. Esempi tipici di questa lingua sono le opere di Bonvesin da La Riva
(1240-1313) e di Giacomino da Verona (seconda metà del XIII sec.).
C'è poi il modello bolognese, di cui sono esempi le glosse di Irnerio
(1055-1125) al Corpus Juris Civilis di Giustiniano; la cosiddetta
"Glossa ordinaria" di Francesco d'Accursio (1182-1258); le opere del
maestro di retorica Guido Fava (c.1190-c.1243).
E così fino a quando la prevalenza del volgare assumerà un suo punto di
forza nel toscano e, particolarmente, nel fiorentino che, per la sua omogeneità
espressiva e affinità strutturale è il volgare più vicino al latino: cosa
resa possibile dal fatto che la Toscana fu relativamente la regione meno
influenzata dalle invasioni barbariche.
* * *
La letteratura italiana nasce e si sviluppa nel corso del XIII sec. Essa
nasce dotta e in un periodo in cui nuovi strati di intellettuali emergono dalla
rivoluzione socioeconomica legata all'affermarsi dei Comuni (specie nell'Italia
centrosettentrionale), che si verifica nel corso dell'XI sec. e soprattutto del
XII sec. I Comuni cioè tendono a trasformarsi in città-stato, in grado
d'imporsi ai feudatari della campagna circostante e capaci di difendere la loro
autonomia dalle interferenze dell'imperatore (il quale infatti con la pace di
Costanza del 1183 sarà costretto a riconoscerla). I Comuni possono eleggere i
propri dirigenti politici, amministrare la giustizia, battere la moneta,
armarsi. Gli strati sociali più importanti sono quelli mercantili
(commercianti, artigiani...), oltre a quelli professionali (giuristi, medici,
maestri...), tutti legati a Corporazioni o Arti per tutelare i loro interessi.
Questi nuovi strati cittadini ebbero subito bisogno di intellettuali non più
collegati alla Chiesa né di provenienza nobiliare. Gli intellettuali però si
muovono ancora in un clima culturale dominato dalla teologia medievale, anche se
alcune correnti teologiche si vanno progressivamente laicizzando (ad es. lo
Stato non è più visto come "braccio secolare" della Chiesa ma come
una naturale forma associativa degli uomini). Ciò significa che i primi
intellettuali dei ceti mercantili e borghesi non potevano essere originali sul
piano dei contenuti, però lo erano sicuramente sul piano della forma
espressiva. Infatti, la più importante caratteristica del nuovo ceto
intellettuale è l'uso del volgare (cioè della lingua del popolo, in
contrapposizione alla lingua dei dotti, della cultura: il latino).
Naturalmente l'affermazione iniziale del volgare avviene con molte
difficoltà. I problemi maggiori però non erano tanto quelli posti dai cultori
laici ed ecclesiastici del latino, quanto quelli posti dall'esigenza di farsi
capire sia dalle persone colte che dal popolo. Da un lato infatti s'imponeva
l'uso della lingua di tutti i giorni, dall'altro -essendo questa lingua divisa
in tanti dialetti e scarsamente definita- c'era il rischio di creare una
letteratura sempre subalterna al latino, il quale, nonostante non fosse più
parlato dalle masse, restava la lingua scritta universale. Di qui l'esigenza di
trovare un compromesso. E fu così che nacque una sorta di volgare
"nobilitato" e illustre, adatto sia ai colti che al popolo, un volgare
elevato alla dignità espressiva del latino.
II
LA LETTERATURA VOLGARE IN POESIA (SEC. XIII)
"Le lingue non possono esser semplici,
ma conviene che sieno miste con l'altre lingue".
Niccolò Machiavelli
Il sec. XIII segna in Italia, con ben due secoli di ritardo rispetto alla
Francia, l'inizio dell'affermazione del volgare scritto. Il ritardo era dovuto
al fatto che in Italia persisteva una tradizione letteraria classico-latina,
sostenuta dal ceto ecclesiastico e anche dagli intellettuali laici che
frequentavano le corti signorili, tenendosi ben lontani dalle esigenze popolari.
Sulla nostra letteratura in volgare cominciano ad esercitare una certa
influenza due letterature neolatine sorte in Francia già nell'XI sec.: quella
d'OC o provenzale od occitanica (Francia meridionale), attraverso i poeti
provenzali stanziati in Italia, e, in misura minore, quella d'OIL od oitanica
(Francia settentrionale). La lingua d'OC era ritenuta particolarmente adatta
alle rime; quella d'OIL alla prosa.
In particolare, la poesia provenzale influenzò tutta la nostra lirica
amorosa, per la tematica e per il rigore stilistico-espressivo. Dalle corti
feudali francesi si diffusero valori come lealtà, liberalità, discrezione,
eroismo, l'amore inteso come passione irresistibile e dedizione assoluta. Il
poeta, come un vassallo, rende omaggio all'amata (una castellana), aspetta da
lei un beneficio per la sua dedizione (che può anche essere un sorriso), soffre
per la lontananza.
La letteratura in lingua d'OIL, costituita dalle canzoni di gesta eroiche,
epiche e dai romanzi dei cicli carolingio e bretone (ad es. la Chanson de
Roland, che narra le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i
saraceni dilagati in Spagna; oppure Le gesta di re Artù e dei cavalieri
della tavola rotonda, Lancillotto, Leggende di Tristano e Isotta
ecc.), si mescola con la lingua veneta, producendo una letteratura non molto
diffusa.
La scuola siciliana
La prima espressione poetica italiana, attuata da una omogenea cerchia di
intellettuali e rimatori, che seppero fondere influssi arabi, elementi indigeni,
tradizioni franco-normanne coi motivi della poesia lirico-provenzale, si svolge
alla corte palermitana di Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore del
Sacro Romano Impero. L'Italia meridionale, con questo felice esordio, entra a
pieno titolo, seppure per breve tempo, nell'ecumene della lirica cortese,
accanto a Catalogna, Francia del Nord, Germania renano-danubiana, Portogallo,
Galizia e ovviamente Provenza.
Ciò che ha sempre stupito i critici è stata l'improvvisa apparizione di
tale scuola proprio nella Magna Curia palermitana, visto e considerato che
Federico II, una volta divenuto imperatore, non mostrò alcun particolare
interesse nei confronti dei poeti-musici tedeschi, autori e cantanti del Minnesang
(canzoni d'amor cortese). È probabile che l'impulso dato da Federico alla
"traduzione" e all'adattamento in un volgare italiano del modello
trobadorico, fosse dettato sia da ragioni politiche: suo obiettivo era quello di
realizzare uno Stato italiano forte e accentrato e la diffusione del volgare (il
cui nemico principale era il latino ecclesiastico) serviva certamente allo
scopo; che da ragioni culturali: gli ambienti della corte sveva dovevano essere
già permeati di cultura cortese; intellettuali e funzionari non siciliani come
Pier della Vigna, Rinaldo d'Aquino, Jacopo da Lentini (cui è attribuita
l'invenzione del sonetto) e altri ancora non potevano ignorare la presenza di
diversi trovatori nelle corti dell'Italia settentrionale, o non essere a
conoscenza di precedenti traduzioni della lirica d'OC in altre lingue (almeno in
francese e in tedesco).
I poeti siciliani (Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Cielo d'Alcamo,
Giacomino Pugliese…), quasi tutti funzionari di stato (a differenza dei
trovatori del Mezzogiorno francese, provenienti dalle classi più disparate),
pur richiamandosi alla tradizione lirica provenzale, di questa rifiutano i temi
dell'esaltazione delle imprese militari, gli insegnamenti morali, la polemica
politica, la satira dei costumi, e accettano solo l'amore cortese, intendendo la
poesia solo come evasione intellettuale. La tendenza amorosa comprende la
passionalità che rende "schiavi d'amore", il dolore per il distacco
dall'amata, l'esitazione a manifestare il proprio amore, le lodi della donna, il
biasimo per i maldicenti-indiscreti-invidiosi. La donna spesso è immaginata
bionda e raffinata.
La prima canzone scritta in siciliano è Madonna, dir vo voglio, del
Lentini, che è un fedele rifacimento di una canzone di Folchetto di Marsiglia.
Ben più importante di questi contenuti è lo stile delle poesie. I poeti
siciliani usarono come strumento linguistico di partenza il volgare dell'isola e
non una varietà letteraria sovraregionale, come nella lingua dei trovatori. Il
volgare siciliano viene perfezionato nel lessico e nella sintassi, modellandolo
sull'esempio del latino usato dagli intellettuali e arricchendolo di molte
parole provenzali tradotte.
Con la morte di Federico II (1250), cui seguì il rapido declino del dominio
imperiale nel Mezzogiorno, conteso da Angioini e Aragonesi, la scuola ebbe
termine. Quasi nessun manoscritto meridionale ci è giunto dei Siciliani, e i
modesti poeti insulari del XIV sec. sembrano ignorare completamente i loro
illustri predecessori.
La scuola toscana
L'eredità dei poeti federiciani fu raccolta nell'Italia centrale dai
cosiddetti poeti siculo-toscani (solo grazie ai canzonieri toscani oggi possiamo
leggere, seppure in forma non originale, la poesia dei Siciliani), e in un
ambiente culturale più avanzato: Firenze, dopo la battaglia di Campaldino
(1289) era diventata una capitale economica europea, in fase di espansione per
tutta la Toscana. Il maggior poeta fu Guittone d'Arezzo (1235-94).
La tradizione siciliana viene dunque proseguita in Toscana perché molti
intellettuali di questa regione erano vissuti per vario tempo alla corte di
Federico II. Qui i componimenti ispirati al tema dell'amore non si discostano
dai motivi cari ai siciliani e ai provenzali, però la preoccupazione -essendo
le condizioni politico-sociali delle città toscane molto sviluppate- è quella
di fare una lirica dotta, erudita, in uno stile complesso-difficile-ricercato.
Inoltre non mancano i temi politici, soprattutto quelli dedicati a Firenze.
Il dolce Stil novo
A Firenze si sviluppa la scuola più significativa di questo periodo.
Rappresentanti principali sono Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti (quest'ultimo
influenzerà notevolmente Dante). Qui il tema dell'amore viene purificato da
ogni sensualità e diventa strumento di perfezione morale (che porta anche a
Dio), per cui esso è patrimonio di pochi virtuosi. La donna è angelicata,
oggetto di contemplazione. Lo stile diventa molto raffinato-limpido-musicale.
C'è molta più attenzione per l'interiorità psicologica, per i sentimenti
profondi. Lo stesso concetto di "nobiltà" ora si riferisce solo allo
stato d'animo, agli intenti o all'ingegno.
La poesia comico-realistica
Si sviluppa sempre in Toscana e si contrappone allo stilnovismo. È
l'espressione della piccola-borghesia comunale e degli strati popolari più
attivi. Essa esalta ciò che la vita offre come piacere: vita gioiosa,
spensierata, amore sensuale, piaceri materiali e immediati. La donna a volte è
criticata perché considerata incapace di sentimenti disinteressati. Altri
motivi sono la polemica e la satira politica contro i nemici personali, la
caricatura scherzosa degli amici, l'anticlericalismo. Lo stile è mediocre
perché molto vicino al parlato, adatto per una comunicazione immediata.
Esponente più significativo: Cecco Angiolieri.
Letteratura religiosa in volgare
È quella di Francesco d'Assisi, che rifiuta i valori medievali fondati sulle
rigide gerarchie e sulla guerra, i valori materialistici della nascente civiltà
borghese-mercantile, i valori della religiosità ufficiale, che a livello
teologico risultano incomprensibili alle masse e che a livello pratico risultano
poco credibili. Poema principale: Cantico di Frate Sole (detto anche delle
creature) del 1224. Si tratta di una lode degli elementi naturali (aria,
acqua, fuoco, terra, sole) che rispecchiano -secondo l'autore- la bontà di Dio
e che guidano l'uomo all'amore, al perdono dei nemici, alla serena accettazione
della morte. È scritto in volgare umbro, semplice e comprensibile al popolo,
benché sia ripulito dai termini dialettali e modellato sul latino.
Poi vi sono le laudi di Jacopone da Todi (francescano). Le migliori sono
quelle a sfondo politico, ove egli attacca gli abusi del papato e i teologi che
credono di poter trovare una giustificazione razionale della fede.
Anche i Fioretti di s. Francesco vennero scritti in un volgare di
carattere popolare. Viceversa, la Leggenda di S. Francesco, di
Bonaventura di Bagnoregio (1221-1274), che pure tratta della vita di un santo
caro alle masse popolari, per ragioni di decoro venne redatta secondo i soliti
canoni linguistici.
Letteratura volgare in prosa
Rispetto alla produzione in versi poetici, la prosa volgare si afferma più
lentamente, a motivo del fatto che in questo campo il latino deteneva
un'assoluta egemonia, mentre il genere poetico (visto sopra) non aveva riscontri
nella tradizione culturale latina del Medioevo. La prosa in volgare si afferma
perché le nuove classi dirigenti borghesi hanno bisogno di esprimere
culturalmente i loro interessi e la loro sensibilità in una lingua alla loro
portata. La prosa d'arte in volgare risponde generalmente ad esigenze pratiche
ed è costituita da cronache, resoconti di viaggio (si pensi al Milione
di Marco Polo), raccolte di novelle, riduzioni enciclopediche, traduzioni in
volgare di opere francesi e latine.
III
LE TESI DI DANTE ALIGHIERI
"Non ci stupisce pertanto se i giudizi degli uomini,
che son presso che bestie,
stimano che una stessa città
abbia sempre parlato un medesimo linguaggio".
Dante Alighieri
I) Il primo scrittore che pone il problema di una lingua nazionale e che
elabora un tentativo per risolverlo, è Dante Alighieri. Il testo in cui ne
parla è De Vulgari Eloquentia (Sulla retorica in volgare), scritto in
esilio verso il 1304, in latino, perché rivolto ai chierici, cioè ai letterati
di professione: è quindi un'opera specialistica. (Si interrompe al cap. XIV del
II° libro). Scrivendolo, Dante si rifà a quell'esigenza di unità linguistica,
culturale e nazionale che molti intellettuali, anche prima di lui, sentivano in
varie parti d'Italia. Lo scopo del trattato è quello di definire un idioma
volgare che possa conseguire un'alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra
delle varie parlate regionali e sottraendosi all'egemonia del latino. Dante era
convinto che i tempi fossero maturi per trattare temi di alta cultura e di alta
poesia anche in lingua volgare (dal latino "vulgus"=popolo).
II) Dante sostiene che in Europa si sono stabilite delle stirpi dotate di un
triplice idioma: germanico, greco, romanzo (quest'ultimo viene suddiviso in
lingua d'OIL o francese, lingua d'OC o provenzale e lingua del Sì o italiana).
Il latino non è per Dante una lingua-madre o capostipite, ma la grammatica
inalterabile per mezzo della quale i popoli riescono a intendersi al di sopra
degli idiomi particolari, cioè è il prodotto di un'alta elaborazione logica,
in quanto possiede una struttura grammaticale rigidamente definita e serve alla
comunicazione dei concetti più complessi e difficili del sapere. In tal senso
il periodo migliore per gli italiani è stato, secondo Dante, quello
romano-imperiale.
III) Dante individua, nell'ambito della lingua del Sì, 14 dialetti,
distinguendoli in due gruppi secondo i due versanti tirrenico e adriatico
dell'Appennino. Egli ritiene che nessuno di essi possa aspirare a diventare il
linguaggio eletto, comune a tutti i letterati italiani; lo stesso toscano non
era che turpiloquium, e "infroniti" (dissennati) coloro che,
solo perché parlanti, lo ritenevano il dialetto migliore. La lingua nazionale
si sarebbe potuta facilmente avere in Italia -secondo Dante- se ci fosse stata
l'unificazione nazionale: in questo caso, alla corte del sovrano si sarebbero
riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e dal loro contatto quotidiano
sarebbe nata una lingua che, senza identificarsi con un dialetto particolare,
avrebbe ritenuto il meglio di tutti. Non essendo politicamente possibile
l'unità, il volgare illustre non poteva essere il prodotto di fattori storici e
naturali, ma solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti, ecc.: una
lingua scritta, non parlata o parlata solo in ambienti molto ristretti, da
persone di rango elevate.
IV) Si badi, Dante avrebbe voluto un volgare illustre non come sintesi
suprema delle espressioni e delle parole più raffinate dei vari dialetti, ma
come risultato di una progressiva liberazione dai limiti municipali delle varie
parlate, dalle necessità pratiche e contingenti che rendono i vari volgari di
scarsa dignità letteraria. Il volgare illustre doveva diventare il prodotto di
un processo di depurazione delle forme rozze dialettali che ciascun poeta e
scrittore doveva compiere nei confronti del proprio dialetto, al punto da
determinare, nelle varie regioni, risultati abbastanza simili. Dante vedeva
"in Italia -dice nel De Vulgari- un volgare illustre, cardinale,
aulico e curiale, quello che è di ogni città italiana e non appare essere di
nessuna, col quale i volgari tutti degli italiani sono misurati, pesati,
ragguagliati". Egli diceva d'inseguire una "pantera" che s'aggira
"per monti boschivi e pascoli d'Italia" (come fosse esiliata?),
mandando ovunque il suo profumo, senza apparire in alcun luogo. Quanto, in tutto
ciò, Dante avesse consapevolezza della superiorità del proprio volgare, è
facile intuirlo. È lui stesso a dirlo. L'unico volgare illustre ch'egli intende
veramente salvare, per la poesia, è quello degli stilnovisti (in
particolare Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e lui stesso) che ne
hanno uno "egregio, limpido, perfetto, urbano".
V) Questa nuova lingua sprovincializzata doveva avere per Dante quattro
caratteristiche: illustre (che dia onore e gloria a chi lo usa), cardinale
(come un "cardine" attorno al quale devono ruotare le minori parlate
locali), aulico (da "aula", cioè degno d'essere ascoltato in
una corte regale), curiale (adatto all'uso di un'assemblea legislativa o
senato). (Un'unica corte regale e un unico senato ancora l'Italia non li aveva,
però le forze intellettuali, secondo Dante, costituivano potenzialmente la
curia imperialculturale d'Italia).
VI) Dante poi distingue, nell'uso del volgare, lo stile elevato tragico
(proprio della canzone) che può trattare gli argomenti più significativi:
prodezza delle armi, amore e rettitudine, dallo stile medio o comico (che si
addice alla ballata e al sonetto) e da quello umile o allegorico.
VII) Nella Divina Commedia Dante diede il primo esempio di come fosse
possibile usare il volgare (in questo caso il fiorentino) ottenendo effetti
poetici di grande valore e affrontando astratti problemi filosofici, politici,
culturali. Il Petrarca e il Boccaccio proseguono sulla strada da lui indicata.
Qui tuttavia va precisato che la lingua della Commedia è il fiorentino
parlato medio e non tanto il volgare illustre di Firenze: si può anzi dire che
l'opera sia plurilinguistica, a causa dei suoi molti gallicismi, latinismi,
lombardismi, idiotismi vari e neologismi.
VIII) Dopo la morte del Petrarca (1374) e del Boccaccio (1375), per un secolo
circa, i letterati italiani più colti interrompono l'iniziativa intrapresa nei
primi decenni del Duecento di scrivere in volgare e ritornano al latino, non a
quello medievale ma addirittura a quello classico della Roma antica. Di qui il
disprezzo per quelle opere di Dante, Petrarca, Boccaccio, ecc. scritte in
volgare (benché Petrarca e Boccaccio, ad es., per il loro tormentato distacco
dalla scala di valori umani e spirituali del Medioevo anticipassero in un certo
senso i temi dell'Umanesimo).
IX) L'uso del volgare, tuttavia, non scompare nel Quattrocento. Coloro però
che continuano a scrivere in questa lingua compongono opere che hanno un
carattere più pratico che letterario e che si rivolgono a un pubblico poco o
per nulla colto. Gli stessi autori spesso erano di cultura inferiore. I generi
preferiti erano le prediche pubbliche rivolte agli umili, le laudi che
continuavano quelle trecentesche, i cantàri, cioè poemetti epico-avventurosi,
recitati sulle piazze; lettere, ricordi familiari, vite dei santi, trattati
ascetici e soprattutto sacre rappresentazioni, che erano drammi sacri recitati
in piazza da attori dilettanti.
X) L'attività letteraria in volgare ora non solo è subalterna a quella in
latino, ma appare anche estranea ai valori, agli ideali e ai temi culturali
proposti dall'Umanesimo e si presenta piuttosto come una prosecuzione di generi
letterari e contenuti tipici della civiltà trecentesca, per quanto tale
letteratura non affronti più i sottili e astrusi argomenti teologici della
Scolastica, ma i problemi più concreti e quotidiani della spiritualità
cristiano-borghese.
XI) Paradossalmente, i contenuti più avanzati dell'Umanesimo (di carattere
laico, razionalistico, naturalistico, ecc.) venivano espressi in una lingua
sconosciuta al vasto pubblico, mentre la grande diffusione del volgare non
implicava affatto una trasmissione di nuovi contenuti di vita. Perché questo
dualismo? Perché gli intellettuali italiani, strettamente legati alle loro
Signorie, non avevano più una preoccupazione di carattere nazionale e,
nell'ambito delle loro corti, disprezzavano il popolo incolto e soprattutto
erano convinti che la grande occasione del XIV sec., di creare un'Italia unita
sotto un monarca la cui sovranità derivasse direttamente dal popolo, fosse
definitivamente fallita. Ecco perché, invece di proseguire sulla strada del
volgare, diffondendo le loro idee laiche e progressiste, gli umanisti
preferiscono rivalutare le lingue classiche, latino e greco. Invece di
concentrare gli sforzi verso un obiettivo comune: la democratizzazione della
vita sociale, che portasse anche all'unificazione nazionale e la formazione di
un unico mercato interno, i maggiori Comuni avevano preferito utilizzare le loro
risorse culturali, politiche, economiche e militari per trasformarsi in
Principati sempre più potenti e rivali tra loro.
UNA CRITICA AL DE VULGARI ELOQUENTIA
La cosa più curiosa di questo trattato è che Dante, per fare l'apologia del
volgare illustre, sceglie l'antivolgare per eccellenza: il latino. La
motivazione è ch'egli intende rivolgersi ai "letterati".
Dunque, il volgare parlato da operai, artigiani, contadini, commercianti…
può trovare per Dante una legittimazione all'esistenza letteraria solo se viene
sanzionato da quel ceto di intellettuali che quando scrive usa il latino proprio
per tenersi lontano dal popolo! E non si può neppure dire che Dante sia stato
il primo a comprendere l'importanza di mettere per iscritto gli idiomi popolari…
Prima di lui altri intellettuali si erano cimentati nell'impresa: si pensi a
Francesco d'Assisi, Jacopone da Todi, la scuola siciliana, Guittone d'Arezzo,
gli stessi stilnovisti cui lui apparteneva.
Alcuni critici hanno giustificato la scelta del latino dicendo che Dante, in
realtà, era incerto su quale tipo di volgare chiedere agli intellettuali di
usare per poter scrivere di alta poesia; egli cioè non si pose il problema
dell'unificazione linguistica degli italiani.
Ma questa interpretazione è alquanto riduttiva. Dante infatti non era solo
un letterato, ma anche un politico e se, come politico, aspirava
all'unificazione territoriale sotto l'egida imperiale (l'unica che secondo lui
permettesse di superare gli antagonismi fra le Signorie), era davvero
impossibile che non avvertisse, come letterato, il problema dell'unificazione
linguistica (che il latino da tempo non era più in grado di garantire, se non
appunto a livello di ceti intellettuali molto ristretti).
Un'altra cosa curiosa del trattato è che da un lato Dante vuol far
l'apologia del volgare illustre (con cui sostituire il latino), dall'altro
sottopone a critica serrata tutti i volgare della penisola, senza salvarne
alcuno in particolare. Cioè invece di mostrare agli intellettuali i meriti, i
pregi di questo e quel volgare, li squalifica en bloc, mettendo una seria
ipoteca sull'utilità del trattato stesso. Persino il toscano (cioè la sua
stessa lingua, quella che aveva usato per cantare le lodi di Beatrice) viene
definita col termine di turpiloquium. Dunque perché atteggiamenti così
contraddittori?
Qui si ha l'impressione che Dante misurasse il valore di tutti i volgari
italiani col metro del proprio volgare. Egli infatti riteneva sì il toscano un turpiloquium,
ma da esso ovviamente escludeva la produzione letteraria degli stilnovisti e, in
particolare, la propria (anche se poi si cela dietro la falsa modestia di non
citarsi mai per nome).
Probabilmente il trattato non era rivolto, in astratto, al ceto degli
intellettuali, ma, in concreto, a qualche corte principesca che, politicamente
forte, sapesse poi far valere su un territorio abbastanza grande, il più grande
possibile, la superiorità del volgare letterario di Dante. "La bilancia
capace di soppesare [le azioni da compiere] -egli afferma- si trova d'abitudine
[???] solo nelle curie più eccelse".
A suo giudizio, infatti, occorreva scegliere un volgare piuttosto che un
altro rispettando le condizioni "politiche" della "curialità"
e "aulicità".
Dante mescolava di continuo i piani "letterario" e
"politico", oppure li distingueva tenendoli però sempre ben presenti
nell'economia delle sue trattazioni. Qui abbiamo a che fare con un genio
letterario di altissimo livello (cosciente di esserlo), politicamente su
posizioni tardo-feudali, cioè lontano dalla sensibilità borghese emergente.
L'animo di Dante è terribilmente aristocratico.
A causa delle esigenze democratiche del suo tempo egli non poteva sostenere
che il suo volgare letterario era il migliore di tutti (a causa dei risentimenti
personali dovuti all'esilio egli non volle neppure sostenere che il fiorentino
era il migliore di tutti: qui il Machiavelli ha perfettamente ragione);
tuttavia, egli, in nome del suo idealismo aristocratico, pretende che
l'unificazione linguistica avvenga con mezzi politici (cosa che poi in effetti
avverrà più di mezzo millennio dopo).
In sostanza, Dante, in quest'opera, non sembra voler discutere con gli
intellettuali su quale volgare meriti l'onore di sedersi sul trono delle
letterarietà; si chiede soltanto in che modo sia possibile che il volgare
illustre usato dagli stilnovisti e, in particolare, da lui, possa sedere su
questo trono, visto e considerato che sul piano politico non esiste alcuna
condizione per poterlo permettere. Mancando tali condizioni, un'opera come il De
Vulgari non poteva che essere interrotta.
Il trattato quindi si presta a varie interpretazioni, avendo come background
l'ambiguità fondamentale di un autore che è politicamente anacronistico
rispetto al suo tempo, ma letterariamente di molto più avanti. In Dante, in un
certo senso, vengono riflesse le contraddizioni anche di quegli intellettuali
che pur essendo politicamente più moderni di lui, non seppero mai cercare con
le masse un rapporto organico.
Molti critici ritengono che Dante cercasse un volgare italiano come principio
ideale, senza riscontri storici. Cioè la sua intenzione non era
propriamente quella di vedere nel fiorentino la lingua che la futura nazione
avrebbe dovuto usare. Il volgare illustre da lui cercato viene trovato solo in
parte in molti dialetti e integralmente in nessuno, proprio perché la sua
lingua ideale, "quintessenza del volgare in sé", non esisteva che
nella sua mente.
Qui ci si può chiedere: può il pensiero di una persona essere interpretato
sulla base di quello che la stessa persona vuol far credere? E se si sostenesse
la tesi opposta, cioè che Dante sottopose a critica tutti i volgari perché in
realtà voleva perorare sola la causa del proprio, chi potrebbe negarla con
prove indiscutibili? Se il tentativo di Arrigo VII avesse avuto successo, Dante,
che si accinse addirittura a scrivere il De Monarchia, non l'avrebbe
forse interpellato, come politico e letterato, chiedendogli di diffondere per
tutta la nazione il volgare fiorentino? Non fece forse la stessa cosa il Manzoni
coi Savoia, lui che non era neppure toscano?
Ma supponendo anche che Dante cercasse una "lingua pura", che
andasse al di là delle parlate locali stricto sensu, per lui tutte
difettose in questa o quella parte, non lo si dovrebbe forse criticare sempre di
astratto idealismo? Può forse trovare una qualche legittimazione l'estrapolare
arbitrariamente il volgare illustre dalle tante parlate locali, quando proprio i
"difetti" di una qualunque lingua sono le condizioni fondamentali che
ne sanciscono la storicità?
Quando Dante esordisce nel trattato dicendo che "cercheremo [tra il
vulgare italico] quale sia la più colta e illustre loquela in Italia", non
è forse già partito col piede sbagliato? Un volgare avrebbe potuto diventare
"nazionale" solo perché considerato "illustre" dagli
intellettuali, non perché ritenuto unanimemente più "popolare"?
Avrebbe dovuto dunque essere il popolo a prendere atto di una decisione presa a
tavolino da una ristretta cerchia di persone?
vedi anche De Vulgari Eloquentia
IV
LA SOLUZIONE RINASCIMENTALE
"Conviene che le lingue abbino una comune
intelligenza"
Niccolò Machiavelli
I) Il problema della ricerca di una lingua letteraria era naturale in un
paese come l'Italia che, divisa politicamente e stratificata in classi sociali
assai differenziate, adoperava, parlando, dialetti molto diversi tra loro.
II) Il latino veniva ancora usato nella trattatistica filosofica e
scientifica, nei congressi dei dotti, nei tribunali (giudici ed avvocati
parlavano in latino, gli imputati in volgare), nella medicina, nell'insegnamento
universitario di tutta Europa. Tuttavia, nelle più comuni attività pratiche,
nella corrispondenza epistolare dei dotti, nei rapporti diplomatici, nella
storiografia l'uso del volgare tendeva a prevalere.
III) Nel '500 fu sentita vivamente l'esigenza di una lingua che fosse, nel
contempo, nazionale (una per tutti gli scrittori) e letteraria (da potersi usare
in opere di temi elevati e di forme eleganti).
IV) Vi erano due fondamentali correnti che si fronteggiavano per risolvere il
problema di quale lingua darsi a livello nazionale: una tendenzialmente
democratica, l'altra chiaramente autoritaria.
Corrente tendenzialmente democratica:
La lingua italiana. Il più importante fu il vicentino Giangiorgio
Trissino (1478-1550), allora il più popolare di tutti. Nelle sue due
opere Dubbi grammaticali e Il Castellano (1529) egli, in
polemica col Bembo e col Machiavelli, sostiene che la lingua italiana
dovrebbe essere detta "italiana" per genere, mentre come specie
si dovrebbe chiamare lingua toscana, siciliana ecc. (al pari delle lingue
straniere: francese/provenzale; spagnolo/castigliano). Il Trissino aveva
posto per primo il principio della italianità della lingua. Egli
riconosceva il primato stilistico alla lingua toscana, ma negava che i
vocaboli usati da Dante e da Petrarca fossero tutti fiorentini o toscani,
essendo invece specifici di altre regioni o comuni a tutte le regioni. Per
cui rifiutava l'idea di dover imporre il fiorentino a livello nazionale.
Traducendo e divulgando il De vulgari eloquentia, egli cercò di
convincere gli intellettuali del tempo che anche Dante, non avendo
privilegiato alcun volgare particolare, fosse favorevole a un'idioma
"italiano". La lingua italiana doveva in sostanza essere il
frutto delle parti migliori di tutti i volgari.
La lingua cortigiana, cioè delle varie corti d'Italia. Il più
importante fu il conte mantovano Baldassar Castiglione (1478-1529), che
nell'opera Cortegiano (1528) e nella Lettera dedicatoria a Don
Michel de Silva (1527) si mostra contrario all'esclusivismo del
toscanesimo linguistico, parlato e scritto, e rivendica i diritti della
lingua italiana comune, senza pregiudiziale esclusione di latinismi o
arcaismi latineggianti (quando sanzionati dall'uso colto), lombardismi
(ch'egli tendeva a preferire), forestierismi, neologismi… Ognuno ha il
diritto di scrivere nella propria lingua materna, diceva. Regola d'oro per
la scelta delle parole è il loro uso effettivo, a condizione che il
parlato non sia sciatto. Di qui l'uso spregiudicato, eclettico, meramente
funzionale della sua lingua… Secondo lui gli intellettuali che
frequentavano le corti principesche erano garanzia sicura di un buon
volgare.
La lingua materna. Benedetto Varchi (1503-65), nella sua importante
opera, Ercolano (1570), sostenne che la lingua parlata (che per lui
era il fiorentino) andava considerata più importante di quella scritta,
nel senso che un idioma può essere definito "lingua" anche se
non produce opere letterarie, che sono sempre patrimonio di ceti
intellettuali (viceversa il Bembo negava sostanza a una lingua che non
avesse scrittori). Norma fondamentale dell'idioma doveva essere l'uso
popolare (parlato, vivo, attuale), a condizione che non fosse né triviale
né sciatto. Il fiorentino parlato -diceva Varchi- può anche essere di
aiuto al volgare scritto, ma non è indispensabile all'uso scritto del
parlare corretto. Il miglior scrittore sarà sempre quello che mette per
iscritto la propria lingua materna. Il fiorentino, volendo, può anche
diventare la lingua nazionale, ma senza imposizioni.
Corrente chiaramente autoritaria:
Il volgare illustre del Trecento. Il più importante era il
veneziano Pietro Bembo (1470-1547) che nelle sue Prose della volgar
lingua (edite nel 1525) mostra chiaramente d'aver capito, in quanto
intellettuale borghese, il maggior valore pratico del volgare rispetto a
quello del latino e, in particolare, quello del fiorentino su ogni altro
volgare, ma, essendo di mentalità aristocratica, disprezzava la parlata
del popolo minuto, per cui tendeva a rifiutare il volgare che usa
locuzioni improprie, spurie, come p.es. in molti passi della Commedia
dantesca. Da notare inoltre che nelle tesi del Bembo sostanziale era la
letterarietà della lingua italiana, non la sua fiorentinità, ch'egli
invece considerava accidentale: Dante e soprattutto Petrarca e Boccaccio
diventarono grandi non perché parlavano fiorentino, ma il fiorentino
divenne grande grazie al loro genio. Tesi, questa, antitetica a quella del
Machiavelli. In sostanza l'unico criterio per accettare una lingua
piuttosto che un'altra doveva essere estetico-stilistico, formale. In tal
senso il volgare scritto del suo tempo, appariva al Bembo come di molto
inferiore a quello trecentesco. Le sue idee comunque verranno poste a
fondamento della compilazione del Vocabolario della Crusca (1612),
destinato a diventare, grazie a soprattutto a Leonardo Salviati (1540-89),
che fondò l'Accademia della Crusca (1583), un codice primario e perfino
dispotico della lingua italiana per almeno un secolo e mezzo.
Il volgare fiorentino vivo. Il più importante fu Niccolò
Machiavelli (1469-1527), che nell'opera Discorso o dialogo intorno alla
nostra lingua (1524 ca.), edita solo nel 1730, mostra chiaramente
l'esigenza di valorizzare la lingua pre-letteraria e autonoma, "tutta
natura", del popolo fiorentino, su cui si fonda il linguaggio
letterario-artistico dei dotti. A suo parere la lingua parlata e scritta
del popolo italiano dovrebbe essere il fiorentino, a motivo della sua
superiorità strutturale e stilistica, già riconosciutagli dalle corti di
Milano e Napoli e da tante altre regioni italiane. Grazie al volgare
fiorentino -dice Machiavelli- sono potuti nascere dei geni letterari come
Dante, Petrarca e Boccaccio, i quali, a loro volta, hanno per così dire
sanzionato la superiorità della loro lingua rispetto a qualunque altra.
Lo scritto dunque deve basarsi sulla parlata viva dei fiorentini.
Naturalmente Machiavelli era consapevole del fatto che, essendo in perenne
movimento, anche il fiorentino, come ogni lingua, era soggetto a influenze
esterne. Di questo tuttavia egli non si preoccupava, poiché riteneva che
la lingua avesse valore solo come mezzo (di unificazione), e non come
fine. Proprio per questa ragione nel suo Discorso egli critica
duramente Dante che aveva definito il toscano come turpiloquium non
perché fosse veramente convinto della necessità di una lingua
sovraregionale (come voleva intendere il Trissino), ma semplicemente per
motivi di risentimento politico nei confronti di Firenze (la mancanza di
patriottismo per un politico come Machiavelli era il peggiore dei mali).
In sostanza quindi Machiavelli considerava il primato del fiorentino come
uno strumento politico-culturale per realizzare l'unità linguistica
nazionale e, insieme, quella geo-politica sotto il dominio del principato
fiorentino.
La lingua toscana. Il senese Claudio Tolomei (1492-1556) sosteneva
che prima del fiorentino, il primato toscano era dei dialetti pisani e
lucchese, per cui se una lingua andava imposta all'Italia questa doveva
essere la toscanità attuale e parlata. Sue opere: Polito, Cesano
e Lettere.
La lingua della corte romana. Vincenzo Colli, detto il Calmeta,
sosteneva che il fiorentino di Petrarca e Boccaccio andasse mediato dalla
lingua cortigiana dei papi (Leone X e Clemente VII), che per sua natura
poteva fare da tramite comune a uomini di diverse nazionalità.
V) Le tesi del Bembo ebbero la meglio: sulla base di esse l'emiliano Ludovico
Ariosto, che scrisse l'Orlando Furioso nel 1516, infarcendolo di padovano
letterario e di latinismi, si sentirà indotto a rivederlo profondamente in
senso toscano nel 1532. La conseguenza maggiore fu che nei primi decenni del
'500 si costituì una lingua letteraria, sostanzialmente fiorentina, ma arcaica
e aristocratica, in quanto non attingeva dal fiorentino vivo del '500, bensì da
quello trecentesco di Petrarca e Boccaccio. Questa lingua fu adottata da tutti
gli italiani che trattavano certi generi come la tragedia, il poema, la lirica,
il trattato, la novella. Essa costituì la base della lingua letteraria nei
secoli seguenti e la base della lingua nazionale, a detrimento delle realtà
linguistiche regionali.
VI) Naturalmente l'adozione di una lingua del genere, che non poteva essere
appresa se non attraverso lo studio, accentuò le differenze di cultura e di
gusto fra i diversi strati sociali italiani. La letteratura rifiutò sempre più
di accogliere parole moderne o straniere (ivi incluse le idee che quelle parole
esprimevano). Per i ceti subalterni gli impedimenti a un'ascesa culturale si
faranno insormontabili. La loro lingua parlata retrocederà definitivamente a
dialetto. Le tesi della Crusca, d'altra parte, erano tassative: gli
"esterni" devono imparare dal popolo fiorentino la lingua viva; il
popolo fiorentino dagli scrittori la lingua corretta, e gli scrittori dai
maestri del Trecento. Per di più col Concilio di Trento (1545-63) la Chiesa
fisserà norme precise che vieteranno tassativamente l'uso del volgare nella
liturgia e nella traduzione della Bibbia; nel 1557 il Santo Uffizio emanerà il
primo Indice dei libri proibiti.
VII) Nella seconda metà del '500 nascono varie Accademie di studi che
permettono ai fiorentini di prendere il sopravvento sui settentrionali e sugli
stessi toscani. Il granduca Cosimo de' Medici chiede all'Accademia fiorentina di
stabilire le regole della lingua toscana (1572); nel 1589 viene istituita la
prima cattedra di lingua toscana a Siena. I primi vocabolari nascono nella
seconda metà del '500. Non sono semplici elenchi alfabetici, come sarà quello
della Crusca, ma impianti strutturati e suddivisi per temi. La Fabbrica del
Mondo, di Alunno di Ferrara (1548) prevede, come sezioni: Dio, Cielo, Mondo,
Elementi, Anima, Corpo, Uomo, Qualità, Quantità e Inferno. Lo scopo è quello
di poter costruire il mondo e dominare la natura attraverso il linguaggio.
V
MANZONIANI E ANTIMANZONIANI
Quando Manzoni inizia a scrivere, nel 1812, Fermo e Lucia, la
situazione della lingua italiana era penosa: da un lato si difendevano ancora,
per l'uso scritto, le esigenze bembiane del classico purismo, in totale
dispregio dei dialetti e in ossequio alla supremazia del fiorentino;
dall'altro il letterato e la sua produzione letteraria erano lontanissimi
dalle esigenze più popolari. Gli intellettuali scrivevano in una lingua che
il popolo non poteva capire, anche a causa del proprio analfabetismo. Basilio
Puoti, Antonio Cesari e soprattutto Vincenzo Monti erano i fautori di un
italiano dotto che escludesse rigorosamente il parlato.
Il Manzoni è uno dei primi, nell'800, a porsi il problema di come
conciliare le due lingue ed è sicuramente il primo a porsi il problema di
come risolvere la questione della lingua su un terreno sociale e politico.
Inizialmente, col Fermo e Lucia, egli tenta di risolvere il problema a
livello regionale (Lombardia); poi con l'edizione definitiva del 1840-42,
l'ambizione è quella di porsi su un piano nazionale.
Egli in sostanza scelse dei personaggi popolari della Lombardia, ambientò
la storia in quei luoghi e dopo aver "sciacquato i panni in Arno",
decise di farli parlare come dei fiorentini.
A suo giudizio le radici della lingua italiana andavano cercate solo in
Firenze, cioè in quella città la cui lingua fa tutt'uno col dialetto, non è
molto diversa dallo scritto ed è sostanzialmente parlata da tutti i
cittadini.
Non avrebbe avuto senso fare un collage delle parlate migliori, poiché la
lingua è un unicum inscindibile: o la si prende così com'è o niente. Le
parole sono specchio della realtà e devono veicolare contenuti uguali per
tutti. Parlato e scritto possono essere sovrapponibili. Il linguaggio deve
essere il più possibile standardizzato, altrimenti l'unificazione linguistica
è impossibile.
In secondo luogo dissero, a ragione, i manzoniani, occorreva assolutamente
rinunciare alle tesi dei puristi secondo cui il fiorentino da imitare doveva
restare quello trecentesco.
Dello stesso avviso erano, a conti fatti, sia E. De Amicis (L'idioma
gentile, 1906) che C. Collodi (benché quest'ultimo fosse assai meno
fiducioso che l'unità politica della nazione avrebbe portato sicuro progresso
a tutti).
Va detto tuttavia che già ai tempi del Manzoni, sia il Foscolo che il
Leopardi la pensavano in maniera diversa. Il primo (Origin and vicissitudes
of the italian language) stimava sì il fiorentino del '300 come il
volgare illustre per eccellenza, ma era altresì convinto che il trionfo delle
tesi bembiane avesse nel complesso impoverito l'uso di tale volgare e
arbitrariamente impedito l'uso letterario di tutti gli altri volgari.
Costringere la lingua entro gli angusti spazi di un vocabolario, che sanziona
il lecito e l'illecito, è come ucciderla, diceva il Foscolo. Infatti
l'italiano per lui, come per C. Gozzi, era "una lingua morta".
Per il Leopardi (che pur circoscriveva la questione della lingua a un mero
problema di "stile") non avrebbe avuto senso adottare il fiorentino
rinunciando a quei termini divenuti già nazionali o perché importati dalle
lingue straniere o perché già impostisi a livello nazionale per unanime
consenso degli intellettuali. Inoltre egli riteneva che nel suo presente si
dovessero valorizzare gli apporti che poteva offrire il linguaggio popolare
che, in taluni casi, poteva sicuramente rinnovare la lingua letteraria. In
ogni caso anche per lui il primato andava concesso agli scrittori
contemporanei più illustri, i quali, anche se inferiori a quelli del '300,
erano comunque gli unici che potevano dare un carattere di
"modernità" alla lingua e alla letteratura italiana.
Come si può notare, non era quindi così scontata la strada della
codificazione definitiva dell'egemonia del fiorentino sul territorio
nazionale.
Il primo a polemizzare contro tale dittatura culturale, che si voleva
sancire con l'unificazione appena avvenuta, è stato il glottologo lombardo G.
I. Ascoli (Lettere glottologiche, 1887), che riprese alcune tesi di G.
Baretti, sviluppandole in maniera originale. Egli infatti da un lato è
disposto a riconoscere l'importanza del fiorentino per gli esordi della lingua
italiana, ma dall'altro è convinto che i tempi siano sufficientemente maturi
perché gli intellettuali comincino a valorizzare anche le altre parlate,
altrimenti essi finiranno col compiere un mero lavoro imitativo di un
linguaggio estraneo (come poi è avvenuto nei Promessi sposi). Tanto
più che Firenze non è più, come un tempo, l'unico centro culturale della
nazione, né è possibile sostenere che il dialetto fiorentino dell'800 sia
ancora quello dei grandi scrittori del '300. Paragonare Firenze a Parigi -come
fa il Manzoni- non ha senso, dice l'Ascoli.
Dunque ogni lingua, specie se essa viene messa per iscritto, doveva esser
degna di studio. La soluzione al problema dell'unità linguistica doveva esser
cercata -dice l'Ascoli- nella maggior diffusione degli scambi e dei contatti
tra i parlanti della nazione (unità nella molteplicità).
In Germania -dice l'Ascoli- la Riforma protestante, diffondendo largamente
l'istruzione elementare e la lettura (in tedesco) dei testi sacri, aveva
creato una vasta circolazione di idee ed esperienze che avevano saputo
sopperire, ai fini d'un alto grado di omogeneità linguistica, all'assenza di
unità politica. In Italia questo non era avvenuto. Anzi da noi la
frammentazione etnico-linguistica aveva raggiunto livelli tali da paragonarci
alla sola India, che però ha una superficie 14 volte maggiore. Imporre un
dialetto su tutti gli altri sarebbe stato impossibile senza un forte governo
centrale.
Il filologo abruzzese F. D'Ovidio non era lontano da queste posizioni.
Tra la corrente antimanzoniana, vanno segnalati:
C. Cattaneo (Principio istorico delle lingue europee, 1841), che
evidenzia l'influsso delle parlate pre-latine sui dialetti italiani;
il milanese C. Porta, per il quale la poesia non può avere codici
prefissati; il vernacolo da lui usato s'avvale di presupposti colti modulati
dalla satira e dall'ironia popolaresca;
il romano G.G. Belli, il cui sonetto dialettale spiega bene l'affinità
fonologica del dialetto romanesco col fiorentino; affinità dovuta al fatto
che a partire dall'epoca dei Medici, vicini alla corte pontificia, questa,
per ragioni politico-amministrative, si convinse ad adottare il fiorentino
parlato (prima di allora il romanesco era più simile ai dialetti
meridionali).
Forse la corrente più antimanzoniana di tutte fu la Scapigliatura:
Il piemontese G. Faldella usava parodiare la lingua colta mixandola con
dialettismi piemontesi integrali, latinismi, grecismi, onomatopee,
neo-coniazioni ecc.
Il milanese V. Imbriani era un ironico avversario del purismo, del
monolinguismo e di chi disprezzava i dialetti e i neologismi; amava le
avventure sperimentali sulla lingua (in questo anticipa Gadda e D'Arrigo).
Voleva fondere lingua letteraria e popolare, letteratura e vita, lingua
nazionale e dialetti. Il dialetto lo considerava come la radice fondamentale
di tutti gli idiomi parlati dal popolo italiano, come la fonte
irrinunciabile dell'espressività parlata e scritta di ogni persona;
C. Dossi mescolava milanese e toscano popolare.
Un altro acceso antimanzoniano è il verista siciliano G. Verga, che
rifiuta nei suoi romanzi di usare un lingua e una sintassi già fatte e
collaudate (come appunto nei Promessi sposi), preferendo invece
escogitare (oltre a un'epica sconosciuta alla prosa italiana) una sintassi che
s'adatti al parlato dei protagonisti (popolari), i quali anche se non usano il
dialetto siciliano, parlano come se fossero loro stessi a raccontare le cose
("scrivere parlato"), cioè come se fossero autonomi dalla
soggettività dello scrittore. La lingua quindi, non essendo dell'autore, deve
necessariamente adattarsi alla sintassi dei protagonisti.
Su questa particolare attenzione da rivolgere al parlato era d'accordo
anche G. Giusti.
Tuttavia, nonostante la corrente antimanzoniana fosse di gran lunga più
cospicua di quella manzoniana, fu quest'ultima che il governo sabaudo decise
di far prevalere.
Il Manzoni fu posto a capo di una commissione del Ministero della Pubblica
Istruzione. Il primo risultato dei lavori fu la stesura di un Dizionario della
lingua italiana, basato sulla parlata fiorentina colta. Nelle scuole si
adottarono manuali antidialettali e per un certo tempo fu seguita la pratica
del trasferire i maestri dalla propria regione d'origine in altra di dialetto
diverso, al fine d'impedire che usassero il proprio dialetto.
Questo, senza considerare che nel 1861 l'80% della popolazione risultava
analfabeta, conoscendo soltanto il proprio dialetto (10 anni dopo il 60% delle
persone in età scolare rifuggiva ancora dall'obbligo scolastico).
Al tempo dell'unità, se si escludono i toscani, i romani e gli
alfabetizzati, l'italiano era parlato da non più di 700.000 persone (su un
totale di 25 milioni di persone). Persino il re Vittorio Emanuele II sapeva
parlare solo in francese e in dialetto piemontese.
Naturalmente con la scolarizzazione, l'emigrazione forzata verso le zone
industriali e col trasferimento dei giovani di leva in tutto il territorio
nazionale, l'uso della lingua italiana tendeva a imporsi sui dialetti. Nel
primo decennio del '900 la percentuale degli analfabeti era ridotta al 38%.
Il disprezzo che le autorità governative nutrivano nei confronti dei
dialetti porterà ad adottare, col fascismo, provvedimenti antistorici,
dettati solo dalla demagogia: si vietò qualunque uso dialettale nelle scuole
(fino a quel momento nelle Elementari i maestri erano stati praticamente
bilingui), si proibì l'uso di forestierismi, si ripristinarono parole della
classicità romana, si abolì l'uso del "lei" a favore del
"voi", s'impose l'italofonia in Alto Adige, si manipolarono i
dizionari…
E pensare che G. Gentile, autore della Riforma scolastica che porta il suo
nome, ridimensionava alquanto l'uso della grammatica e affermava il ruolo
positivo dei dialetti.
Persino Croce, favorevole alla libertà creativa della parola, negava
qualunque potere normativo alla lingua, specialmente in campo poetico e
letterario. Qualunque programma di lingue illustre imposto ai parlanti gli
pareva una violazione della libertà di espressione e comunicazione.
Discorso a parte andrebbe fatto per il Manifesto futurista (1909) di
F.T. Marinetti, il quale se da un lato inneggiava alle parole in piena
libertà, portando all'eccesso l'eversione anarchica predicata dagli scrittori
del "Caffè", dall'altro, proprio per questo suo forzato
individualismo (lontano dalle contraddizioni sociali), apriva le porte,
inevitabilmente, a soluzioni di tipo autoritario.
Gli antimanzoniani dell'800 chiedevano di elevare i dialetti al rango di
lingue, non di contrastare l'egemonia del fiorentino favorendo l'assoluta
arbitrarietà delle parole.
Il fatto è che l'affermarsi dell'idea di nazione implicava un nesso
inscindibile con l'unficazione linguistica. Altre nazioni europee avevano già
percorso questa strada. La lingua -dice Gramsci- inevitabilmente veniva
considerata dalle classi dominanti più come uno strumento di politica
culturale per la conservazione del potere che non come una risorsa da
valorizzare. La corrente manzoniana, convinta della natura progressiva
dell'unità nazionale sotto il vessillo di Casa Savoia, fu quella che si
lasciò strumentalizzare più facilmente.
VI
CONSIDERAZIONI CRITICHE
"L'italiana è lingua letteraria:
scritta sempre
e non mai parlata"
Ugo Foscolo
… in generale
La storia linguistica dell'Italia ha dimostrato che una lingua imposta a
tutta la nazione (e nella fattispecie il fiorentino), foss'anche il volgare
più illustre, non è destinata a durare; prima o poi tornano in auge le forze
centrifughe delle parlate locali, e se queste, col tempo, son andate
affievolendosi, può accadere che la lingua nazionale, essendo un prodotto
artificiale, perda facilmente il confronto con altre lingue nazionali
straniere, che per vari motivi tendono a imporsi: gli strati popolari,
infatti, non si sentono in dovere di difenderla.
Le parlate, i dialetti, gli idiomi locali, regionali sono sempre stati
visti dagli intellettuali e dal potere politico come un limite alla
costruzione di una lingua nazionale e non come una risorsa tipica del nostro
Paese. Per mettere gli italiani in grado di parlarsi e d'intendersi, occorreva
favorire i processi di scambio, economici, sociali, culturali…, lasciando
che l'esigenza e il modo di costruire un linguaggio comune evolvessero in
maniera spontanea. Una qualunque valorizzazione "centralistica" del
policentrismo linguistico porta inevitabilmente a privilegiare alcuni aspetti
a danno di tanti altri. Per valorizzarsi, i dialetti locali non avevano
bisogno del centralismo politico, ma solo di condizioni sociali più
democratiche, che permettessero gli scambi con facilità.
L'adozione di una lingua comune non avrebbe mai dovuto comportare la fine
del dialetto locale. La lingua comune avrebbe dovuto essere usata come seconda
lingua, conservando e anzi perfezionando gli strumenti della prima lingua,
quella strettamente legata al territorio in cui viene usata. Nel momento in
cui un dialetto (nella fattispecie il fiorentino) s'è imposto sugli altri
diventanto lingua nazionale, tutto ciò che è avvenuto dopo è diventato
inesprimibile per gli altri dialetti. In Italia è stata tolta la possibilità
agli intellettuali di mettere per iscritto la loro lingua materna.
I dialetti non sono mai stati delle lingue povere. Essi anzi potevano
esprimere i complessi contenuti dell'agricoltura e dell'allevamento. Certo non
quelli tecnico-scientifici dell'epoca moderna.
La questione della lingua, per come è stata impostata da Dante, Bembo,
Machiavelli, Manzoni…, non potrà mai essere rimessa criticamente in
discussione se non si rivedono, storicamente, i criteri politici con cui è
stata fatta l'unificazione nazionale. Forse abbiamo ancora la possibilità di
salvaguardare alcune zone territoriali ove si parla il dialetto. Tuttavia, i
guasti culturali sono stati così gravi che qualunque opera di mera
conservazione dell'italiano pre-letterario rischia di diventare una battaglia
contro i mulini a vento. L'unica possibilità realistica è quella permettere
agli italiani di usare il proprio dialetto o il proprio regionalismo senza
vergogna, senza dover sottostare a giudizi di liceità o meno.
La questione più incredibile non è stata tanto il fatto che
l'unificazione (a causa dell'immaturità democratica dei politici e degli
intellettuali di allora) sia avvenuta tramite annessioni senza condizioni
(anche dal punto di vista linguistico), quanto piuttosto il fatto che dopo
aver sperimentato per più di un secolo i tradimenti della classe borghese
(agli ideali risorgimentali), ancora oggi nessuno storico si pone la domanda
se le cose sarebbero potute andare diversamente o se, pur essendo andate in
una determinata direzione, esista ancora oggi la possibilità di una radicale
inversione di marcia.
L'affermazione dell'Umanesimo è avvenuta per le irrisolte contraddizioni
dell'epoca feudale: clericalismo e servaggio, ma oggi dovremmo
chiederci se i vantaggi ottenuti siano stati effettivamente superiori ai mali
che la borghesia diceva di voler superare. Può una classe essere democratica
quando i suoi interessi, oggettivamente, non possono coincidere con quelli di
tutto il popolo? Oggi abbiamo un Umanesimo del tutto formale, meramente
teorico, senza una reale conferma dei suoi principi nei fatti concreti: al
servaggio è stato sostituito il lavoro salariato; al clericalismo il consumismo.
La civiltà borghese non ha forse fatto il suo tempo, come già quella feudale
e prima ancora quella schiavistica?
… in particolare
Attualmente la situazione linguistica italiana è caratterizzata da questa
situazione:
- Italiano colto e scritto
- Italiano regionale parlato
- Dialetto italianizzante (dialetto regionale, koinè dialettale)
- Dialetto locale, arcaico (quest'ultimo sta scomparendo)
- Gergo giovanile (che è un mix di b) e c), nonché di molte influenze
straniere)
La lingua di ogni giorno parlata o è un italiano regionale o un dialetto
regionale. Il legame linguistico interregionale o è l'italiano scritto
aulico, cioè un insieme artificiale, oppure è una lingua parlata dipendente
dai mass-media: il fondo del lessico italiano è diventato pluriregionale. La
pronuncia della RAI è accettata su larga scala in tutto il Paese, benché
questo idioma sia unanimemente considerato come asettico, freddo, impersonale.
L'italiano scritto scolastico è l'antiparlato per definizione, in quanto i
suoi termini sono molto lontani dalla realtà. Quasi tutte le grammatiche
scolastiche insegnano la varietà d'italiano colto e scritto, benché
pretendano d'insegnare la lingua parlata comune. La lingua colta che s'impara
a scuola in realtà non è che una selezione povera presa dalla ricchezza
della varietà della lingua colta (letteraria). La cosa assurda di questo
insegnamento è che se qualcuno utilizzasse tutta la ricchezza della lingua
scritta non troverebbe poi nessuno in grado d'intenderlo.
Persino l'insegnamento della lingua materna (orale) s'incentra su quella
scritta (purificata, logica, neutra, stilizzata). Facciamo un esempio:
- Non credo che sia in grado di arrivare fin qui.
- Secondo me non arriva fin qui.
- Non ce la fa ad arrivare fin qui, secondo me.
La grammatica sceglierà sicuramente la prima espressione.
Quello che in sostanza non s'insegna è la varietà parlata comune di una
lingua (che, per sua natura, è meno ricca ma più chiara e potrebbe essere
imparata facilmente).
Le grammatiche usano la varietà d'italiano colto e scritto anche perché
la varietà colta di una lingua si traduce facilmente nella varietà colta di
un'altra. In realtà l'impressione che si ha di passare facilmente da una
lingua all'altra, è falsa. Facciamo un esempio:
- Dubito che dica la verità.
- Je doute qu'il (ne) dise la vérité.
- J doubt that he tells the truth.
Nessuno in realtà parla così, né in italiano, né in francese, né in
inglese. Ed è altresì assurdo far imparare agli stranieri un modello
fiorentino di pronuncia che di fatto è usato solo dai fiorentini, per i
quali, tra l'altro, quella pronuncia costituisce la versione locale
dell'italiano. Paradossalmente la pronuncia settentrionale è diventata più
standardizzata e più nazionale della stesso fiorentino, che appare
municipale. Occorrerebbe dunque, come vogliono alcuni linguisti, rinunciare
alla distinzione tra "e" e "o" aperte e chiuse", tra
"s" e "z" sorde e sonore, ecc., anche perché in italiano
non c'è corrispondenza tra scritture e pronuncia su questi punti.
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