POESIE IN LIBERTA' |
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FABIA GHENZOVICH
Fabia Ghenzovich è nata a Venezia dove vive. Ghenzovich Fabia, Giro di boa, 2007, Joker Tratte da “Giro di boa” ed. Joker Solstizio d’estate La luce svettante delinea sui muri Metropoli Da fondali di asfalto Vita in transito Sono dalla parte dell’ombra La parola Vista dall’alto s’impenna Giro di boa Mi chiedo se sempre sia l’estrema resa La prima volta Qualcosa finisce qualcos’altro inizia. Vita e morte Campo di battaglia è il mio corpo Primiera bugia Mal si addice a noi una vita limitata Immagine La mia immagine riflessa Il cielo aperto del corpo di Fabia RECENSIONE Anzitutto il CORPO, presentato come referens icastico di un malessere oceanico. "Campo di battaglia è il mio corpo / fazioni opposte in lotta ne fanno scempio". E' cioè evidente, da subito, il tentativo di trarre una qualche spiritualità, un qualche senso dell'esistenza dalle caratteristiche della propria fisicità. Il livello macro, del cosmo, spiegato con quello micro, del soma. Non quindi psicologia introspettiva o intimista, ma fisiologia psichica, esistenziale, che guarda in alto partendo dal basso e che ritorna al sé, a quel che si è. Niente misticismo quindi. La poesia come lavoro su di sé, dove il sé è una ricerca di identità somatica che abbia valenza esistenziale e, indirettamente, cosmica. E' una riflessione tipicamente femminile? con cui si cerca di reagire all'idea (interna a tutte le civiltà) di ridurre il corpo della donna a mero oggetto di consumo? Difficile dirlo, ma è certamente una bella riflessione, una cosa controcorrente. Il corpo della donna visto come luogo di battaglia di tanti corpi sociali, che fanno e disfanno la società. Un corpo che si offre come un sacro totem e che in cambio non vuole prezzo ma valore, non vuole mercificazione ma senso, ben oltre il valore d'uso e di scambio, ben oltre il senso orgasmico. Valore ontologico, senso esistenziale, spirituale: "Vita che pulsa / nell'urgenza del mio sangue". Fabia si serve dell'anatomia umana come realtà concreta, inequivoca, su cui non si può discutere, anche perché il corpo è modello da imitare: se la metropoli è un "corpo elettrico" è perché ha un "cuore di meccano". L'analisi patologica delle frustrazioni deve servire non per avere un referto autoptico ma per stimolare un'opera d'arte. Quando poetizza Fabia non ride mai, è seria: chi avrebbe il coraggio di scherzare mentre con un bisturi sezioni un cadavere? Non è neppure permalosa quando le dicono che rischia d'essere fredda come i suoi pazienti: il fatto è che lei non vuole mai apparire banale. Anche perché è chiaramente ricettiva, come una spugna, di quanto accade nel mondo (parla di Kabul, della Jugoslavia, dello tsunami...). La vita le pesa, la vede in salita, ma non la nega, neanche un po'. Ai suoi cadaveri vuol dare linfa vitale, come Frankenstein. Niente piagnistei quindi, niente liriche de doléances, niente sospiri religiosi di creatura oppressa, benché a volte, nei momenti di sconforto, vada a cercare "angeli consolatori", che sono però sperduti, sospesi tra cielo e terra e senz'ali. Fabia evita con cura i tentativi d'impietosire il lettore, cercando la sua comprensione patetica. "Il messaggio che trovi in questa bottiglia - è come se dicesse -, è ridotto appositamente all'osso: chiede aiuto a chi, leggendolo, deve sapere che anzitutto egli darà aiuto a se stesso, proprio perché il mare è solcato da una medesima imbarcazione". "Io sono l'ombra / che ti guarda alle spalle". Come quando gli assistenti sociali dicono, alle prese col disabile: "sono io che imparo da lui", "star con lui fa star bene anzitutto me". Fabia ha la scorza dura di un Clint Eastwood attore, ma se diventasse regista avrebbe una grande carica di umanità. La sua non è una poesia pedagogica, che ama farsi capire, ma di tipo psico-filosofico, nel senso che quando rischia di rivelarsi troppo, di mettersi troppo a nudo, esce dal campo naturista e preferisce armarsi di scudo e corazza intellettuali per combattere - direbbe Saulo di Tarso - "le potenze dell'aria". Del corpo infatti predilige il cuore ma come muscolo controllato dal cervello. Il sé è sì cercato nell'istinto primordiale, ma senza concessioni all'irrazionale. Fabia non è seguace di Rimbaud o di Baudelaire, non si lascia distruggere dalla realtà prima di poterla trasfigurare in se stessa. Non ama le esperienze allucinatorie o egocentriche. E poi sente di avere delle responsabilità aggiuntive anche in quanto donna. Insomma il corpo sa di essere oppresso, ma siccome può essere usato come terminus a quo e ad quem di ogni conflitto meta-fisico, non ha voglia di star lì a crogiolarsi coi propri acciacchi, né si autoerotizza per sfuggire alla realtà, per evaderla dal suo peso. Il corpo è un faro la cui luce, anche se fioca, è comunque un orientamento per barche che altrimenti andrebbero alla deriva. Un corpo come ultima spiaggia di libertà, da non violare in alcun modo, da non martoriare più di quanto esso non sopporti quotidianamente. Un corpo "fatto" da altri non può essere "disfatto", perché alla fine non esisterebbe più nulla per nessuno. In secondo luogo il SUONO, ma un sound tutto particolare, al punto che prima di parlarne bisogna premettere altre cose. Fabia non ha interesse alla sintassi, ma non è una professionista del lessico come il Pascoli. E' ermetica come Ungaretti, ma senza l'entusiasmo d'aver scoperto un modo nuovo di poetare. C'è troppa riflessione nelle sue liriche, che le rendono a volte come il diamante, fredde e cristalline. Questo perché rinunciando a qualunque forma di misticismo, è difficile non rendere amaro il realismo. Fabia si sforza di non apparire cinica, di non approfittare della negatività del non-io per mettere sale sulle ferite o per giocare, come certi registi superficiali, a rendere il mondo ancora più horror. Però è consapevole che "viviamo alla soglia dell'assenza / senza margine di bagliore / là viviamo dove non siamo / al bordo della luce". La materia che trattiamo è "sterco del demonio", ma da questo lezzo possono nascere fiori profumati, frutti prelibati, se solo si sa come fare. Peccato che Fabia non abbia la terra sotto le unghie; con meno sforzo intellettuale avrebbe cercato di far battere il suo cuore spossato: le sarebbe bastato il sudore della sua pelle. A volte supplisce alla freddezza accostando tra loro parole inconsuete, mimando la tecnica dei poeti sperimentali più moderni (quelli p.es. che gravitano attorno alla rivista "Anterem", per intenderci). Di qui il lato intellettualistico, a tratti involuto, difficile da assimilare, di queste liriche, che non sono certo un budino da gustare a fine pasto, ma semmai un database di ricette che si offrono al lettore perché questi possa fare il budino migliore. Richiedono uno sforzo applicativo, non basta aprire il palato e far lavorare le papille gustative. Sono liriche quasi senza punteggiatura, con parole scritte, di tanto in tanto, in maiuscolo, spesso con asterischi in luogo dei titoli, con l'uso frequentissimo dell'enjambement e tutte rigorosamente in formato centrato, come fossero un epitaffio ultimativo, di quelli che scrivevano i romani sulle loro tombe e che si concludevano con frasi del tipo: "Ti ringrazio d'esserti fermato a leggere queste parole, ora puoi andare". Son poesie come un imbuto, dove all'inizio sembra entrarci di tutto, ma alla fine solo poche cose escono, quelle essenziali. Fabia non vuole spiegarsi tutta; non si farà mai stappare come una bottiglia di champagne; chi la vuol bere deve usare la cannuccia e sorseggiarla a piccole dosi, come per la granita. Fabia si dà a spizzichi e bocconi, perché sembra non fidarsi dei propri sentimenti, ha paura che la portino troppo lontano, impedendole di poter tornare indietro. Ecco perché ama le parole singole e non discorsive, il lessico e non la sintassi e nel lessico i predicati verbali son ridotti al minimo, perché come nell'Ermetismo ma anche nel Futurismo, poche cose devono dire quel che basta: il surplus è abolito. I versi sono a telegramma, senza enfasi, senza retorica, senza eloquenza, non servono per comunicare ma per riflettere. Se Fabia fosse stata eloquente avrebbe scritto saggi critici, spietati, amari, e se avesse scritto romanzi avremmo letto racconti alla Bukowski. Ma un saggio critico sarebbe stato troppo impegnativo, perché un saggio non può soltanto criticare, deve anche saper proporre. Con la poesia invece si è più liberi. Non ci si vincola all'interpretazione altrui, almeno non oggi. Il lettore la può leggere come vuole: la poesia non ha una funzione sociale, come nel mondo greco. Se il lettore prova qualcosa, buon per lui, altrimenti pazienza. Se a un saggio critico non gli si crede, e ha ragione, son dolori per tutti. Queste poesie invece non hanno neppure una data. Come Nostradamus Fabia ha rimescolato le carte in modo che solo una persona a lei molto vicina o uno specialista del settore è in grado di ricostruire il puzzle. Fabia ha preferito raggrupparle per categorie ma senza dirci quali. Dunque non le piacciono i verbi che spiegano né i connettivi che legano. Fabia è una intellettuale e se anche si sente passionale, non lo lascia trapelare. Ci vogliono mani da pranoterapista per sentire pulsare il sangue nelle sue liriche, benché l'uso continuo di metafore somatiche offra a prima vista una percezione diversa. Qui in realtà non s'intravvedono messaggi chiari e distinti né lasciti testamentari. Fabia fotografa, non gira scene con la videocamera. E le scene sono stilizzate, ambigue, come i dipinti di De Chirico. Se avesse dovuto scegliere tra la pittografia e l'ideografia, Fabia avrebbe scelto il complicato cuneiforme. Ma che c'entra questa lunga premessa col sound? C'entra molto, proprio perché il ritmo viene usato per ovviare a tutti questi limiti, che in alcun modo potrebbero esserlo con una scelta meramente razionale. Il sound è il lato estetico, onirico, leggero, emotivo, giocoso, quello che rende poetiche delle parole che altrimenti rischierebbero d'apparire come scelte a caso dalle migliaia di un puzzle che non vuol rappresentare alcuna immagine definita ma semplicemente, si fa per dire, la vita. S'è detto ormai mille volte che Fabia vuole essere essenziale, antiretorica, ma sino a che punto? Sino al punto in cui la sola assonanza possibile è quella dentro un medesimo verso. Le assonanze a volte sembrano essere cercate ad ogni costo, per dare un senso a una vita senza senso, per rendere più sopportabile l'amarezza. Più che dei sentimenti Fabia vuol far provare delle sensazioni, il gusto per il ritmo di un jingle. Vuol davvero farsi capire o vuole soltanto comunicare, dirsi, esaminarsi dicendosi? Fabia cerca una rima inconsueta, anarchica, ma voluta, come fosse un'esigenza musicale. Non le interessa una rima in cui si contano le sillabe, ma una rima in cui si senta un qualche suono, un verso libero dotato di ritmo, la cui armonia però non è melodiosa, alla Chopin, ma dodecafonica, alla Schoenberg. Quando all'inizio si diceva che i mutamenti del corpo vogliono essere un riflesso di quelli dell'anima, si voleva appunto dire questo, che nelle poesie di Fabia ciò si percepisce solo a livello di suono: è la musica, non le parole in sé (anche se con la magia delle parole viene ottenuta), che dà calore alle lacrime di ghiaccio che pendono dalla grotta della vita. Le tecniche ritmiche ricercate non sono quelle classiche delle rime (e come potrebbero per una che dice di essere "dalla parte dell'ombra"?), ma sono quelle che i critici chiamano "rime imperfette", come appunto le assonanze, ma anche le consonanze, le allitterazioni, non però le onomatopee, poiché Fabia avrebbe timore di cadere nel minimalismo. Lei quando scrive sembra seduta su un trono e dice delle parole che, siccome devono far riflettere, non sono per tutti ma solo per chi ha orecchi da intenderle. C'è indubbiamente dell'aristocraticismo nel modo in cui si esprime, ma stemperato dalle esigenze della esistenzialità della vita. L'aristocraticismo alla Montale, alla Luzi non potrebbe esserci non solo perché Fabia non ha mai vissuto al cento per cento per la letteratura ma anche perché le mancano gli strumenti classici con cui esprimerlo. Tuttavia c'è, ed è nell'atteggiamento di chi pone un certo distacco tra sé e la realtà. N.B.
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