PASOLINI UOMO ARTISTA
E INTELLETTUALE
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5. PASOLINI CRITICO
5.1. Lingua Sulle questioni linguistiche scrive soprattutto in Empirismo eretico (1964-72), ma anche in saggi sparsi. La sua tesi è che sino all'avvento del neocapitalismo, cioè sino ai primi anni '60, in Italia non esisteva una lingua nazionale, unica per tutte le classi sociali, ma un "italiano medio" come lingua della sola classe dominante borghese, che si ispirava evidentemente alla lingua letteraria. Il popolo, da parte sua, aveva tanti linguaggi particolari, quante erano le realtà locali in cui si esprimeva. Dagli anni '60 in poi, come elemento unificatore di tutte le classi sociali, attraverso i mass-media, soprattutto la televisione, si fa strada una vera e propria lingua nazionale basata sul frasario tecnologico, anti-espressivo e quindi solo comunicativo cioè strumentale. Si tratta di una "comunicazione segnaletica" che trasforma antropologicamente gli uomini in automi, a causa di desideri inautentici inculcati loro dal potere consumistico ai fini della produzione. Le realtà dialettali sono divenute delle "sopravvivenze" da tutelare come le opere d'arte in un museo. Non sono più il linguaggio vivo e colorito del popolo. La cultura tecnica ha inoltre soppiantato quella umanistica, non consona alla logica del consumo di beni superflui. Mentre in passato alla guida della lingua era la letteratura (sia pure fatta da borghesi), adesso sono le aziende. Tutto questo egli lo vede sul nascere, mentre noi ci siamo già dentro. Cosa possono fare i letterati? Pasolini li invita a non rimuovere la questione, ad appropriarsi del nuovo linguaggio tecnologico per far valere, magari (osservo io) attraverso un uso ironico-distorcente di esso, il fine dell'espressività cioè della libertà contro la meccanizzazione dell'uomo. Infatti il nuovo sistema sociale e linguistico è comunicativo sì, ma non razionale, quindi è pericolosamente irrazionale. Riporta gli individui a condizioni preistoriche, improntate a licenza e caos, in cui i rapporti umani diventano mercificati (ad esempio, si cambia partner come se fosse un'automobile). E' il fallimento del sogno degli intellettuali marxisti che con e dopo la Resistenza hanno combattuto perché in Italia si potesse creare una lingua nazionale "attraverso un democratico arricchimento linguistico, ottenuto con contributi paritetici da tutti i livelli culturali, regionali e classisti."(1) Verrà criticato sia da sinistra che da destra. Da sinistra gli verrà detto (soprattutto da Moravia) che ha contrabbandato per analisi oggettive le sue nuove esigenze di poetica; la neoavanguardia rivendicherà di essere stata lei stessa la scopritrice della lingua nazionale tecnocratica; i linguisti lo accuseranno, al solito, di superficialità. I conservatori, dal canto loro, di aver trascurato la letteratura in nome della propria "infatuazione tecnocratica", cioè l'esatto contrario della verità: Pasolini non "amava" la lingua tecnocratica, si limitava a vederla nascere e anzi prevedeva che essa, attraverso l'industria culturale, avrebbe reso marginali la cultura umanistica e le tradizioni, che lui in realtà amava.(2) 5.2. Letteratura Nella sua critica letteraria, si pone subito contro la resistenza solo passiva al fascismo da parte dei poeti ermetici; quindi dopo la guerra approderà al marxismo come ideologia che consente un approccio attivo alla realtà, al fine di (tentare di) trasformarla. Tuttavia egli resta sopra ogni ideologia, anche quella marxista, perché la realtà è così complessa e imprevedibile che è appunto irriducibile a qualsiasi gabbia ideologica. Maestri di riferimento sono Gramsci e Contini. Nella critica militante degli ultimi anni giocherà la sua partita più essenziale, a mio parere: il tentativo, nel tempo della fredda comunicatività propria dell'era consumistica, di promuovere l'uomo espressivo come "oltreuomo" (cioè non più sopravvivenza dell'era umanistica e contadina ma fine evolutivo dell'essere umano che ha l'umiltà e il coraggio di affrontare la crisi a cui, in modi diversi, la realtà stessa lo sollecita). L'evoluzione quindi non la promuove certo la neoavanguardia, solo a parole antiborghese, ma in realtà composta da letterati che hanno comportamenti borghesi: così gli avanguardisti, distruggendo il linguaggio, distruggono se stessi divenendo insignificanti, chiusi nei loro gruppi. Anche gli estremisti di sinistra vengono da lui visti come apparentemente rivoluzionari, ma in realtà assetati di potere e avversi all'individuo problematico e veramente rivoluzionario: così i diversi sono "scandalo per gli integrati, stoltezza per i dissenzienti".(3) Quanto al lavoro dei critici letterari integrati che scrivono sui giornali nel tempo dell'industria culturale, dice:
In cosa consiste invece una vera critica militante? Descrivere secondo una visuale, insieme oggettiva e soggettiva, razionale e irrazionale, le descrizioni della realtà date dalle opere letterarie (di qui il titolo del suo saggio Descrizioni di descrizioni). Veniamo ora all'analisi di ciò che Pasolini pensava di autori a lui (salvo eccezioni) contemporanei, qui di seguito indicati in ordine alfabetico. Anna BANTI: il suo amore per lo stile, ne fa un prodotto che l'industria culturale non può lanciare al consumo né mistificare: l'unica protesta contro l'industrializzazione dello stile... è lo stile. Giorgio BASSANI: aveva il rimpianto per l'occasione perduta della Grazia, quindi viveva nell'attesa della ripresentazione (non certa) della Grazia stessa; escluso e perseguitato al tempo del fascismo in quanto ebreo, si limitò in principio a una protesta di tipo ermetico per approdare, dopo la guerra, al realismo. Dario BELLEZZA: moralista verso se stesso per l'omosessualità vissuta con senso di colpa, quindi autolesionista, e pure poeta (il migliore della generazione successiva a quella di Pasolini) e intellettuale coraggioso. Attilio BERTOLUCCI: amante dei piccoli piaceri della vita borghese, il suo epicureismo nasce dalla coscienza di qualcosa che è peggiore della morte stessa, come se dopo la morte ci fosse un'altra morte; così Bertolucci si "vendica" gustandosi i momenti di riposo dall'attività di poeta amabile proprio perché condivide un dolore che gli è estraneo, forse (congetturo) il dolore dei non poeti o non ancora poeti: condivisione come dovere e atto di amore. Italo CALVINO: strano rapporto, di amicizia ma anche di contesa; in Descrizioni di descrizioni Pasolini cita una sua frase che lo ha impressionato e vale la pena riportare integralmente:
Giorgio CAPRONI: ha un atteggiamento vitale e patetico di fronte al mondo, nel quale vive, come uno dei letterati più liberi del novecento, sia pure pervaso da una forza illogica. Giosue CARDUCCI: fintamente vitale, in realtà coltivava sentimenti inautentici e retorici; la sua cultura era provinciale ed accademica. Carlo CASSOLA: come conservatore e conformista, difende la normalità; esaltando la gretta provincia (che lo protegge con la sua reticenza), ha mancato nell'opera fondamentale dell'uomo, che è quella dell'autochiarificazione, che lo avrebbe portato, se l'avesse affrontata, a riconoscere anche in sé le origini della sua nevrosi, e cioè il complesso edipico, con la conseguente tentazione omosessuale, che lui non riconosce finendo per cristallizzare le figure femminili, in una eterosessualità convenzionale. Giovanni COMISSO: nel romanzo I due compagni narra il destino diverso di due giovani artisti amici, che dopo la prima guerra mondiale faranno scelte di vita di segno contrario (uno si imborghesirà, l’altro, più geniale ma anche più fragile, finirà in manicomio): secondo Pasolini, essi rappresentano in realtà due aspetti di un unico personaggio (l’autore stesso), lacerato da un conflitto interiore. Gabriele D'ANNUNZIO: attratto dai corpi atletici di giovani maschi, fu conquistato dal virilismo fascista (anche per lui si può parlare di omosessualità inconscia). DANTE: nella Commedia mantiene rigorosamente l'equidistanza tra sé e gli infiniti aspetti particolari del suo mondo; i sentimenti che prova Dante nei confronti dei personaggi dell'opera non sono suoi in quanto uomo ma in quanto personaggio. Il suo plurilinguismo comprende tutto, dall'alto al basso della società del Trecento, attraverso una mimesi linguistica che lo rende l'unico poeta realistico italiano (gli altri si pongono sulla linea petrarchesca dell'unilinguismo selettivo e accademico - ideologicamente reazionario, a difesa della classe dominante -; oppure sulla linea pseudo-dantesca plurilinguistica, affetta da iperstilismo, non avente una visione ideologica ma pratica della realtà, con rischio quindi di evasione estetica; oppure, infine, sulla linea del realismo minore, che riproduce l'esistenza quotidiana e sensuale). Massimo FERRETTI: odiando la letteratura, perché essa col suo prestigio e l'erudizione onnisciente, manda avanti l'atroce macchina del mondo, afferma la possibilità di una lingua non letteraria, ma - osserva Pasolini - Ferretti, nella sua distruzione del mondo (cioè delle istituzioni), non elimina la parte più arcaica e atrocemente reale del mondo stesso, e quindi la sua stessa (di Ferretti) psicologia piccolo-borghese. Carlo Emilio GADDA: barocco realistico e dantesco plurilinguismo. La società, oltraggiando il letterato libero (come appunto Gadda) lo martirizza, non perdonandogli il fatto che egli la pone di fronte alla cattiveria che la contraddistingue. Francesco LEONETTI: scrittore orgoglioso e al tempo stesso pronto al sacrificio per il recupero dell'autenticità, pronto (ma per questo anche criticato dal nostro) ad ogni nuova esperienza letteraria e politica (il marxismo-leninismo). Come fa Leonetti - osserva Pasolini - col suo candore e il linguaggio del letterato colto, a fare esperienza totale, di vita, del pragmatismo proprio dei gruppi estremisti di sinistra, il cui linguaggio si pone agli antipodi di quello colto ed espressivo? Giacomo LEOPARDI: è repressiva l'opera di alcuni biografi del poeta recanatese, i quali tacciono dei suoi difetti (narcisismo, egocentrismo, megalomania, impotenza, inibizioni linguistiche, manie e allergie). Dare di un poeta l'immagine di perfezione morale equivale a disconoscere la complessità della realtà umana, che ha pure i suoi aspetti demoniaci. Mario LUZI: poeta autenticamente religioso, anche se Pasolini, essendo ateo, non ne condivide la posizione. Alessandro MANZONI: tutti i rapporti tra i personaggi dei Promessi sposi sono contraddistinti da una strana intensità omoerotica di fraternità oppure odio, che del resto ritroviamo in tutti i grandi romanzieri. Anche per lui la diagnosi è di omosessualità latente. Dacia MARAINI: pur essendo amica, la critica per il suo femminismo che non tiene conto della realtà mutata italiana, la quale non vede più la donna sottomessa all'uomo (se non in casi eccezionali), ma sono proprio le ragazze, secondo Pasolini, a farsi garanti della trasmissione ai maschi dei falsi valori consumistici, mentre in passato, prima della mutazione antropologica, i ragazzi stavano tra loro e si iniziavano ai valori popolari estranei a quelli della classe dominante borghese. Eugenio MONTALE: nel 1971 ci fu una polemica tra Pasolini e Montale. Secondo il nostro, Montale nega l'idea di "tempo" e quindi di "progresso" e in linea con la scienza contemporanea dice che tutto è fermo o ritorna; per questo è contrario al marxismo in quanto ideologia fondata sull'idea di "progresso". Pasolini accusa Montale, a causa del suo pessimismo metafisico, di accettare il potere borghese come fatto naturale, e lo è infatti; fatto sta però che anche l'ideologia liberale-borghese si fonda sull'illusione del tempo come progresso. Perciò, in ultima analisi, lo accusa di malafede, perché non usa lo stesso metro per l'illusione marxista e per quella borghese. Elsa MORANTE: la scrittrice era molto amata da Pasolini, per il suo coraggio, l'umile amore, l'adorabile ingenuità. Alberto MORAVIA: il primo giudizio, del '47, non è tanto buono: lo vede come scrittore semplice e meccanicamente facile; poi diventerà suo amico e ne apprezzerà l'impegno letterario come irrisione della realtà borghese, che è bizzarra e meschina al tempo stesso; sarà tuttavia sempre una irrisione non crudele ma basata su una compassione canzonatoria; linguisticamente Moravia è per una lotta contro le frasi fatte, che nascono da sentimenti inautentici e costringono gli esseri umani a una vita alienata. Ottiero OTTIERI: autoironico nel parlare della sua depressione, con proprietà di termini tecnici propri della psicoanalisi, dalla lettura piacevole e chiara, a metà tra l'improvvisazione più folle e lo speciale spirito ludico della conversazione mondana. Se avesse avuto meno timore del giudizio degli altri, si sarebbe adempiuto perfettamente. Alessandro PANAGULIS: il rivoluzionario greco (contro il regime dei colonnelli) è stato trasformato in poeta autentico dalla esperienza della tortura sopportata con coraggio. Giovanni PASCOLI: oggetto della sua tesi di laurea, Pasolini ne era colpito per la solitudine interiore a contatto col mistero della realtà, mistero tradotto e rivelato dalla poesia; stilisticamente complesso, perché da una parte ha uno stile "fisso", dall'altra sperimenta le tendenze stilistiche più disparate, grazie alle quali si pone come il diretto antenato dei poeti del novecento italiano. Sandro PENNA: molto amato da Pasolini perché poeta coraggioso, grato alla vita; solo apparentemente amorale, un autoescluso dalla vita normale, un santo anarchico (la santità del nulla), precursore di ogni contestazione passiva e assoluta (non ha considerato nemmeno esistente l'abietto potere fascista, e quindi non poteva inventare un peggiore insulto contro di esso). Ezra POUND: aderì al fascismo piuttosto che al comunismo per motivi folli e irrazionali, perché il fascismo faceva dichiarazioni di idealismo e difesa del mondo antico, in cui egli si rifugiava contro l'alienante mondo industriale: di qui l'elogio della società contadina, greco-antica o cinese del confucianesimo, o appunto dell'Italia fascista. Leonardo SCIASCIA: il suo notevole successo non lo ha portato ad avere una autorità, poiché egli è un uomo solo, che giudica l'ambiente in cui vive (la Sicilia e i siciliani) non sulla base del moralismo cattolico ma sulla base di una morale più arcaica, che è quella dell'onore, per cui se è vero che il "buono" è colui che non accetta l'ingiustizia dei cattivi, il "cattivo" altri però non è che un buono a cui non è saltata in mente l'idea dell'ingiustizia del potere, invece accettato, per cui il mondo è contraddistinto da una gerarchia piramidale in cui ognuno ha il suo posto; chi ne è fuori, il "buono", giudica e a volte lotta contro di essa, ma senza moralismo e probabilmente senza speranza di vittoria, perché la mafia è praticamente imbattibile, oltre che inesprimibile, rappresentando "ab aeterno" il fondo irrazionale della mentalità di ogni siciliano. Enzo SICILIANO: scrittore profondamente sincero (riconoscendo pulsioni anche imbarazzanti nella sua psiche trasfigurandoli nei suoi personaggi); come critico si pone a metà strada tra anima e storia (la quale ultima richiede impegno e quindi anche integrazione), sempre però in uno status di contraddizione o opposizione. Mario SOLDATI: rinunciando a qualsiasi autorità paterna verso il lettore, vuole esserne fratello, con l'ironia di chi scherza sulla propria voluta mancanza di autorità. Johan August STRINDBERG: a causa di una educazione repressiva, omosessuale inconscio, che amava fisicamente le donne per poi fuggirle sistematicamente. Giuseppe UNGARETTI: poeta profondamente religioso, alla ricerca di Dio come ricerca dell'Essenziale, a motivo del quale Ungaretti domanda a Dio di liberarlo dai desideri illusori, cioè i desideri senza amore. Paolo VOLPONI: uno degli amici più vicini, sarà amato da Pasolini anche per la sua ricerca di un umanesimo industriale, cioè di una industria a misura d'uomo, che tenesse in considerazione la salvaguardia dell'ambiente, soprattutto contro il rischio di una guerra nucleare. Nel poeta e scrittore urbinate Pasolini nota due tendenze opposte, specie nel romanzo Corporale: la tendenza al ritiro dal mondo, all'eremo urbinate; la tendenza opposta alla contestazione attiva, politicamente impegnata, contro il sistema del mondo alienato. Volponi, in quanto uomo buono, ama anche i personaggi cattivi, essendo loro grato di farsi garanti (al pari dei personaggi buoni) della continuità e inesauribile possibilità conoscitiva del mondo. Andrea ZANZOTTO: psicologicamente isolato, per scelta e destino: poeta che intervalla (ne La beltà) parole comiche a parole sublimi, giungendo così all'abolizione di ogni possibile delimitazione di campo semantico, con l'esito di una ambiguità totale. Egli vede la "normalità" come momento negativo dell'uomo, mentre la "malattia" o "devianza" è positiva in quanto permette di esplorare l'infinito. 5.3. Dialetto Ha cominciato col scrivere poesie in dialetto, ha finito col scrivere poesie in dialetto. In mezzo a questi due uguali, si è occupato, come critico, anche del dialetto altrui: sia letteratura dialettale che poesia popolare. Mentre la letteratura dialettale (si tratta soprattutto di poesie) vien fatta da individui colti appartenenti alla classe dominante (cioè la borghesia), per quanto concerne la poesia popolare il discorso è più complesso, e Pasolini individua l'autore in un soggetto della classe inferiore che è però in rapporto conoscitivo col mondo socialmente più alto, portando nel basso le istituzioni linguistiche proprie di quel mondo, in una conciliazione tra cultura della classe dominante e cultura del popolo. E la poesia popolare è non-realistica e conservatrice (mai un poeta popolare sperimenterebbe contro le istituzioni linguistiche, e ciò per una questione di onore): gli eventi descritti son sempre astratti, stereotipi che non descrivono davvero la realtà, ma la trasformano spesso in una fissità magica o leggendaria. Cosa chiede invece ai poeti dialettali? Di non avere del popolo una idea sentimentalistica e quindi irreale, di conoscerlo oggettivamente e quindi gramscianamente, portando ad esso i sentimenti profondi che ci hanno rivelato i poeti in lingua: di qui l'impegno dell'Academiuta da lui fondata insieme ad altri giovani friulani nel '45, di tradurre in dialetto i classici. Insomma, lotta contro la retorica, la superficialità, il conformismo, la connivenza col mondo del potere. Quando si stabilisce a Roma, è naturale che si innamori del dialetto romanesco, di quello sottoproletario molto più che di quello degli ambienti colti. Legge il Belli, che considera capace di acuta riflessione sull'ambiente romano: la plebe ottocentesca descritta realisticamente nel suo esibizionismo e sensualità; dopo il Belli nessun dialettale romano è stato realistico come lui. La parentesi delle speranze degli anni '50 (poi deluse), quando Pasolini auspicava una cultura nazional-popolare (voluta da Gramsci), in cui il dialetto doveva farsi apportatore di novità linguistiche, attraverso la mediazione di intellettuali impegnati, cede il posto all'avvento del neocapitalismo, che distrugge la cultura dialettale. Ciò provoca sofferenza anche fisica nel nostro poeta, perché la perdita del dialetto corrisponde alla perdita della realtà, soppiantata dalla irrealtà del potere consumistico. C'è stato un momento di un ritorno della speranza (anche per quanto concerne una rinascita del dialetto), ma si è trattato dei pochi mesi della recessione economica per la crisi del petrolio nel '74. Pasolini spera per pochi mesi che il popolo, rivivendo la povertà, possa riassumere i gesti amabili e simpatici del suo passato. Non è stato così, non sarà così, anche se la storia è imprevedibile. Il dialetto però è ormai sopravvivenza da museo. Anche la poesia popolare è morta. Tuttavia rimane l'immensa mole di ciò che è stato scritto nel passato e tramandato, e non è poco per dare comunque senso a una vita. 5.4. Teatro Non andava quasi mai a teatro, non gli piaceva il teatro italiano, sia quello accademico che quello d'avanguardia o antiborghese. Non gli piaceva per una questione linguistica. Gli attori usavano, secondo lui, un italiano medio inesistente nella realtà, così anche le idee e i sentimenti espressi apparivano inautentici. Faceva eccezione per il teatro dialettale di Eduardo De Filippo (più che dialetto napoletano, un italiano medio parlato effettivamente dai napoletani: quindi ancora una volta si evidenzia la preferenza di Pasolini per il realismo) e per i momenti migliori di Franca Valeri e ovviamente per quella esplosione di vitalità che era l'amica Laura Betti, col suo plurilinguismo, in cui coesistevano forme espressionistiche, caricaturali e convenzionali, una sorta di nipotina di Gadda. Nel 1968 pubblica il Manifesto per un nuovo teatro. Qui teorizza il proprio teatro, quello delle opere che abbiamo già analizzato nella puntata dedicata appunto al Pasolini autore di teatro. Si tratta, come già sappiamo, di "teatro di Parola", in quanto non sono tanto la scenografia o i costumi a contare, ma le idee (poetiche in senso lato) espresse da attori colti. Perché l'attore deve avere la stessa cultura dell'autore? Perché deve capire il testo per interpretarlo bene. Anche gli spettatori devono avere una cultura analoga (appassionata, reale, anche se magari da parte loro, un po' ingenua e provinciale). Così dopo la visione (mai spettacolo, ma assimilazione culturale, "rito culturale") ci sarà il dibattito anche acceso, ma sempre democratico. Gli spettatori apparterranno ai "gruppi avanzati della borghesia" (intellettuali quindi, con un reale interesse per la cultura: poche migliaia in tutta Italia). Anche se inevitabilmente la lingua è quella convenzionale, non sarà mai al livello di estetismo sia del teatro borghese accademico ("teatro della Chiacchiera" secondo Moravia) sia del teatro antiborghese d'avanguardia (che distrugge la lingua, prediligendo la gestualità e l'urlo, ma finisce per fare gli interessi della stessa borghesia che intende scandalizzare: si risolve cioè in una operazione fine a se stessa, che anzi richiede un pubblico borghese da provocare). Fa eccezione Carmelo Bene, che dissacra la parola teatrale tradizionale; ma gli altri interpreti e registi sono dei conformisti. Essi preferiscono che il teatro sia uno spettacolo, e non, come vorrebbe invece Pasolini, un rito culturale per la conoscenza del senso di un'opera e dei significati delle parole usate in essa. 5.5. Cinema Pasolini è stato anche un semiologo dilettante che si è occupato del linguaggio cinematografico, oltre ad essere un recensore di film propri e altrui. Per lui il cinema riproduce la realtà, perché le sequenze cinematografiche scelgono alcuni tra gli infiniti oggetti (anche eventi e persone o animali) della realtà, pure quando devono evocare situazioni del passato. Il cinema è soggettivo (quando l'autore sceglie le immagini secondo la sua personale visione ideologica e poetica della realtà) o oggettivo (quando l'autore prende le immagini dalla realtà così come sono, senza l'intervento della propria ideologia, oppure si tratta di immagini divenute convenzionali perché rivestite di un determinato significato sulla base di una tradizione cinematografica precedente). E' possibile distinguere inoltre tra cinema classico o narrativo, in cui non si "sente" la macchina da presa, e cinema di poesia, in cui invece i molteplici movimenti della macchina da presa indicano che il vero protagonista del film è lo stile. La sua idea del cinema come lingua, non convince i semiologi di professione, come Umberto Eco. Quest'ultimo afferma che è ingenuo pensare che i segni elementari del linguaggio cinematografico siano gli oggetti reali riprodotti sullo schermo; aggiunge che la semiologia intende ridurre i fenomeni naturali a fenomeni di cultura, e non ricondurre i fatti di cultura a fenomeni di natura. Pasolini controbatte che una auspicabile "semiologia generale della Realtà" (che comprenderebbe in sé anche la lingua cinematografica) non porterebbe alla naturalizzazione dei codici della cultura, ma, al contrario, avrebbe come fine quello di culturizzare la natura, facendo dell'intero vivere un parlare: la Realtà è Linguaggio. E' chiaro poi che la lingua cinematografica non esiste in concreto ma solo in astratto: sono i film-paroles ad esistere e da essi si deduce la lingua del cinema. C'è poi il nesso montaggio-morte. Come nel montaggio vengono scelte determinate sequenze e messe insieme secondo una logica, così la nostra stessa esistenza avrà un senso morale solo dopo la morte, perché fino alla morte ci potrà sempre essere una nuova azione o omissione che sconvolge l'intera logica sospettata in quella esistenza. Con la morte vengono a cadere nel vuoto gli innumerevoli atti non significativi della vita e da parte di chi rimane c'è la memoria delle poche azioni o parole che hanno dato un senso a quella vita ormai finita. Partendo anche da questa premessa, Giuseppe Zigaina dirà che l'assassinio di Pasolini (da lui stesso voluto, anzi progettato) in un certo qual modo modifica tutto il suo passato, dandogli un nuovo, e definitivo, senso. Il regista, come ogni autore o artista, è un martire che cerca con la sua opera di scandalizzare i destinatari, godendo del piacere/dolore del martirio (anche solo culturale o simbolico) cui è sottoposto per aver violato il codice consolidato. Del resto, i cosiddetti "classici" (come Dante o Petrarca) sono stati al loro tempo degli innovatori che hanno sfidato il codice linguistico della società medievale, ponendo le basi per un nuovo codice (sono gli epigoni a imitare i modelli degli innovatori vincenti, scandalizzandosi poi se c'è una successiva trasgressione). Solo una minoranza di lettori o spettatori saprà godere del piacere dello scandalo dato dall'autore, il quale non difende altro che una assoluta libertà di espressione. Ma non bisogna trasgredire troppo il codice, come ad esempio fa la neoavanguardia. Ciò è controproducente, perché causa un rimpianto del codice attaccato. L'autore deve restare sempre "sulla linea del fuoco" e lì combattere per una innovazione che possa modificare il codice stesso. Mentre sino all'inizio degli anni '70 il Potere era ancora legato alle istituzioni tradizionali come Chiesa, Patria, Famiglia, in seguito il nuovo Potere fondato sul consumo di beni superflui ha preteso di distruggere ogni tradizione ed ogni espressività, divenendo più tollerante anche per quanto concerne la moralità dei film. E' un Potere che vuole che i cittadini siano avidi consumatori e non lettori critici o spettatori dei film di registi liberi e impegnati. E' un Potere che guarda con occhio benevolo persino ai film pornografici e invece stigmatizza le opere d'arte in cui l'elemento erotico ha sempre un senso culturale e politico. Questi i registi che ha recensito, dando i seguenti giudizi, che sintetizzo: Michelangelo ANTONIONI: scrive Pasolini su «Vie Nuove» n. 1 a. XX, 7 gennaio 1965, nella rubrica «Dialoghi con Pasolini»:
Marco BELLOCCHIO: giovane regista accomunato dal nostro a Bertolucci; tra Bellocchio e Pasolini vi fu una corrispondenza epistolare sul film I pugni in tasca del promettente regista. In questo film un adolescente in crisi uccide i familiari, per l’eredità ma anche perché li considera inferiori al suo ideale estetico, e pure perché cerca irrazionalmente emozioni forti. Pasolini gli scrive che se il suo fine era quello di scandalizzare la borghesia, deve però essere cosciente che essa è vaccinata contro ogni tipo di scandalo, e semmai lo scandalo dà piacere/dolore solo all’autore e ai suoi simili. Bellocchio gli risponde che il suo fine principale non era quello di scandalizzare, ma descrivere obiettivamente la realtà sociale che determina la scelta delinquenziale del protagonista. Ingmar BERGMAN: un grande che manca di cultura vera e propria: la sua cultura infatti è specialistica cioè audiovisiva, e inoltre è teatrale (conosce soprattutto Strindberg, con i suoi influssi di teosofia ed esoterismo). Bernardo BERTOLUCCI: di Ultimo tango a Parigi non gli piace il personaggio di Brando (retorico e irreale), mentre quello di Maria Schneider è vero e poetico, come poetici sono tutti i rapporti sessuali rappresentati. Liliana CAVANI: di lei recensisce Milarepa, un film sulla iniziazione di un ragazzo che cerca un maestro che gli insegni a rinunciare al mondo per valorizzare misticamente il Sè. In verità il protagonista è già stato da un altro maestro, ma di magia nera, che gli ha insegnato a distruggere i parenti e paesani che hanno sfruttato la madre. Adesso vuole liberarsi del peso della sua colpa e grazie a un maestro di dottrina pura, impara le leggi della Realtà. Il San Francesco, invece, a Pasolini non piace, lo considera un prodotto tipicamente televisivo, adatto a un pubblico borghese conformista e volgare, che vuole restare sempre uguale a se stesso, incapace di riconoscere il vero “sacro”. Sergio CITTI: grande amico di Pasolini; era un filosofo proveniente da ambienti sottoproletari; aveva letto solo Epicuro. Il suo assoluto pessimismo gli permetteva di godere ciò che di bello la vita gli offriva; in Ostia rappresenta la donna come essere demoniaco, non sulla base di una ideologia o una cultura misogina, ma per una sua personale ossessione; in Storie scellerate manifesta un senso della morte del tutto laico, al contrario di quello pasoliniano che si basa sul mistero anche religioso. Sergej Michailovič EJZENŠTEIN: regista dal grande talento, non amato però da Pasolini a causa del suo servilismo propagandistico nei confronti del regime sovietico. Federico FELLINI: il suo eccesso di amore per la realtà lo porta a trasfigurare la realtà stessa; i personaggi dei suoi film sono spesso degli stravaganti, che contraddicono l'apparente razionalità della realtà, che è insieme dolce e orribile. Il suo è un "realismo creaturale", non fondato cioè su un'unica assoluta ideologia. L'irrazionalismo cattolico lo rende barocco e decadente (Pasolini profetizza che il neodecadentismo felliniano avrebbe preceduto un periodo di neodecadentismo letterario): per lui la società è immodificabile, non si possono evitare le sue brutture, tuttavia ogni cosa o persona è come pervasa dalla Grazia. Come fa Fellini a vedere purezza e vitalismo anche nella massa piccolo-borghese, cioè nel ceto medio, che a Pasolini invece appare tremendamente conformista e razzista? Ciò può accadere proprio per quell'eccesso di amore irrazionale di cui sopra si è detto. Marco FERRERI: de La grande abbuffata, film nel quale quattro uomini medio-borghesi intendono suicidarsi con una smisurata ingestione di cibi raffinati, si domanda se la finalità del regista è quella di denunciare l'assoluta mancanza di logica nella realtà, che sarebbe quindi del tutto arbitraria, non dialettica, tale da produrre ripetizioni e non evoluzioni: l'uomo di fronte all'assurdo quindi non può che attuare una contestazione assoluta. Pietro GERMI: difendendo qualunquisticamente la morale corrente e avendo un atteggiamento vitalistico e privilegiando la salute sessuale, questo regista, agli occhi del nostro critico, rimuove nella zona dell'inconscio la propria omoerotia, perché chi enfatizza la virilità spesso cela pulsioni omosessuali. Jean-Luc GODARD: è, inconsapevolmente, un codificatore di linguaggio cinematografico, perché metà mondo del cinema segue il suo stile, ma egli si difende da ciò, dall'inconsapevole moralismo tipicamente francese che lo contraddistingue, se ne difende appunto con rabbia ingenua, volendo essere rispetto agli altri uomini, fratello e non padre. Alexander KLUGE: Gli artisti sotto la tenda del circo: perplessi, film che denuncia la tragedia della vita, che è nel farsi delle cose nella nostra testa senza che si giunga ad una conclusione. Stanley KRAMER: L'ultima spiaggia, che descrive una fantastorica fine del mondo nel 1964, a causa di una guerra atomica, ammonisce gli uomini con la frase: "Fratelli, siete ancora in tempo." Ma giacché Kramer lascia intendere che l'autodistruzione avviene a causa della follia degli uomini, che senso ha, dice Pasolini, ammonire dei folli? Insomma, il film è illogico per questo. Inoltre dà un senso di angoscia il comprendere che l'umanità muore senza essere mai realmente vissuta: è la fine di una società già finita, quella che viene descritta in questo film, come se si passasse da un nulla all'altro, e ciò è terribile. Roberto ROSSELLINI: grande neorealista, denuncia i mali della società, ma mancando di una cultura solida, dopo che è caduto l'impeto neorealista e ne sono venute meno le ragioni, si è espresso solo attraverso la sua sensualità, il talento e la magia, ma ciò non è servito a niente. François TRUFFAUT: de La nuite amèricaine afferma che il vero protagonista è il ritmo voluto dall'autore, ritmo al quale si adeguano le stesse caratteristiche psicologiche dei personaggi (e non viceversa). Paul VECCHIALI: le protagoniste di Femmes femmes sono due attrici di teatro che vorrebbero fare del cinema, ma finiscono per diventare delle fallite: la loro grandezza sta nel mantenere un contegno artistico anche nel proprio degrado sociale. 5.6. Arte (Cenni) Sul Pasolini critico d'arte mi limito a dei cenni perché manco delle sia pur minime cognizioni in questo campo. Egli comunque non si considerava un critico d'arte. Nel '65 dice a un dibattito tenuto a Brescia in occasione di una mostra su Romanino: "Io di critica d'arte veramente ho delle antiche velleità, ma nessuna reale competenza [...]."(6) Allievo di Roberto Longhi, suo professore all'università, amò visceralmente l'arte pittorica, cui si ispirò per le scenografie dei suoi film. Comprese nell'intimo i pittori a lui contemporanei e "fratelli" nell'impegno artistico e, in senso lato, politico, come ad esempio Renato Guttuso, Carlo Levi e Giuseppe Zigaina. Sin dall'inizio, quando scrive su mostre friulane, ciò che lo colpisce non è solo la tecnica ma anche la vita morale di un pittore, cioè i suoi sentimenti, la purezza, i travagli interiori, e naturalmente l'amore per la realtà, per cui un artista la rappresenta tanto meglio quanto più vibrante è la pietà nella compartecipazione ad essa. Ciò che conta in un pittore è il fatto che al peso reale delle cose egli non sovrapponga un peso artefatto del colore: l'estetismo non è che fuga dalla realtà e quindi paura. Infine, lui che si rammaricava di non saper fare della musica, scrisse che quest'ultima "praticamente non ha contenuto. O, se ce l'ha, esso è dentro l'ascoltatore. [...] Nella musica abbiamo le vere parole della poesia; cioè parole tutte parole e nulla significato."(7) (1) «Lo ripeto: io sono in piena ricerca», "Il Giorno", 6 gennaio 1965, in Pasolini Pier Paolo, Saggi sulla letteratura e sull'arte, tomo secondo, "I Meridiani", Mondadori, Milano, 2004, p. 2444. (torna su) (2) v. sintesi delle critiche in Siti Walter e De Laude Silvia (a cura di), Note e notizie sui testi, in Pasolini, cit., pp. 2943-4. (torna su) (3) Empirismo eretico, in Saggi sulla letteratura e sull'arte, tomo primo, "I Meridiani", Mondadori, Milano, 2004, p. 1457. (torna su) (4) Descrizioni di descrizioni, in Saggi sulla letteratura e sull'arte, tomo secondo, cit., p. 1969. (torna su) (5) Calvino Italo, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1977 (I edizione: 1972), p. 170. (torna su) (6) Pasolini Pier Paolo, [L'arte del Romanino], in Saggi sulla letteratura e sull'arte, tomo secondo, cit., p. 2786. (torna su) (7) Studi sullo stile di Bach, in Saggi sulla letteratura e sull'arte, tomo primo, cit., p. 86. (torna su) |
a cura di Leonardo Monopoli
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