Il segno di George Orwell
I - II
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George Orwell (vero nome Eric Arthur Blair, 1903-1950) è noto soprattutto per due romanzi “La fattoria degli animali” e “1984”. Nell’uno, egli immagina la ribellione degli animali di una fattoria alla crudeltà del padrone, per poi ritrovarsi con la dittatura dei maiali. Nella seconda, abbiamo un futuro nel quale l’uomo è ridotto a robot. Parrebbe, a questo punto, che secondo lui non ci possa essere un futuro migliore per l’umanità: in particolare modo, la dittatura dei maiali, una metafora chiarissima, boccia ogni idea di progresso civile e culturale. Orwell paventa un limite antropologico che al momento opportuno impedisce il salto di qualità. La cosa fu evidente al giovane scrittore nella Guerra di Spagna, allorché egli vide con i propri occhi il comportamento brutale dei comunisti spagnoli contro i rivali e persino contro se stessi: il tutto sotto gli occhi dei commissari sovietici. Orwell finì con lo sposare la causa socialdemocratica, ottenendo così una sorta di rivalsa dalla vecchia sottomissione patita negli anni scolastici (chissà quanto influente in senso psicologico) e sfociata nella sottomissione a Stalin, ora finalmente rinnegata per effetto dell’esperienza spagnola. Ma come tutti gli uomini che hanno a cuore il valore della razionalità, Orwell non si fermò ai due romanzi, anzi. Egli è autore di un numero impressionante di articoli, di studi, di saggi (l’editore Mondadori li ha raccolti nei suoi prestigiosi Meridiani) con cui apre una vera e propria finestra sul mondo di allora, spiegandocene la complessità e approfondendo tematiche politiche, idealistiche, realistiche (queste ultime con malcelata antipatia), vivendole una per una con curiosità e volontà speculativa esemplare. Orwell, pur nei soli quarantasei anni che ha vissuto, ha potuto conoscere molte esperienze: nato in India, vi ritornò da adulto ed entrò a far parte della Polizia Imperiale, lasciata circa sei anni dopo per dissapori di facile comprensione (una disciplina ottusa e parecchia violenza), fu sguattero a Parigi, ai limiti della sopravvivenza, maestro elementare in Inghilterra, corrispondente di guerra nella Seconda guerra mondiale (“Diari di guerra”: un testo davvero straordinario), eremita in un’isola delle Ebridi (Jura), prima di morire di tubercolosi a Londra nel 1950. Una vita breve ma intensissima, tesaurizzata grazie ad una grande capacità di osservazione e ad una sensibilità estrema, facilmente feribile. Orwell, agli inizi, fu un convinto comunista, immaginando una possibile fratellanza fra gli uomini con sincerità ben superiore all’ingenuità. Questa superiorità si basava su aspettative sentimentali che erano ben ponderate razionalmente: la razionalità al servizio di esse era sostenuta dalle prove oggettive fornite dalla Rivoluzione russa. Il mondo intero sarebbe cambiato, il capitalismo sarebbe finito, così la prevaricazione dell’uomo sull’uomo. La mancanza dei risultati sperati fu la causa di un disagio intellettuale che Orwell non poteva sopportare. Il disagio portava alla conclusione di dover abbandonare ogni idea di rinnovamento sociale e quindi all’adozione della facile teoria per cui l’uomo non può cambiare, non può trasformarsi in un essere superiore. Forse non ne ha le caratteristiche, le doti. Da qui la reazione alla saggistica, chiara, limpida, dettagliata, scritta magnificamente: come un resoconto sul male compiuto dall’uomo e quindi, indirettamente, come conseguenza quasi naturale, sui rimedi da adottare per evitarlo in futuro. Intendiamoci, lo scrittore inglese non dà ricette e non assume mai un tono predicatorio. L’assenza di richiami espliciti risulta maggiormente funzionale allo scopo che Orwell intende perseguire, diciamo così in silenzio, come se non volesse ammetterlo e magari neanche dichiararlo sotto tortura. Un titolo è comunque particolarmente emblematico: “Tra sdegno e passione”, da leggere insieme a “Interventi e testimonianze”. Caro Orwell qui non ti puoi nascondere. Poi pazienza per il pessimismo nei tuoi romanzi. |
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