LE AVVENTURE DELL'AUTOBIOGRAFIA
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Lorenzo Da Ponte (1749-1838) Sacerdote e professore di retorica, Lorenzo Da Ponte condusse una vita intensa e avventurosa che lo portò nella sua giovinezza a conquistare, a Venezia, lamicizia dei nobili di idee più aperte e illuminate, come gli Zaguri e i Pisani, e nello stesso tempo a fuggire dal suo dominio, perché accusato di ratto di donna onesta.
Dal 1787 al 1790, anno della morte dellimperatore Giuseppe II, Da Ponte godette di favori e fortuna, sebbene subito dopo intrighi di palazzo e invidie di teatro, assai ben orchestrate, gli costarono un lungo esilio dalla capitale austriaca. Prima si recò a Trieste per parlare con il nuovo imperatore Leopoldo II, poi a Dux per consultarsi con lamico Casanova e infine a Londra, dove voleva riscattare la sua fama di grande librettista: Da Ponte non incontrò che delusioni.
Mori nel 1838. E quando nel 1850 la sua tomba fu dispersa, le sue Memorie, finite di pubblicare nel 1827, ne stavano già accreditando il mito. Le Memorie(1824-27) guardano al secolo appena trascorso, traducendo la sua elevata cultura musicale nellintreccio avventuroso di un'esistenza che, sebbene approdata infine negli Stati Uniti dAmerica, dove il poeta veneziano diventò anche droghiere, guarda ancora ai teatri di Vienna e Londra. Con un dialogo a più voci nel quale appare il ricordo di Giuseppe II imperatore dAustria, ma anche di Mozart e Casanova, il Settecento prende congedo dal suo pubblico e sfuma nellaria cantabile di un quartetto dopera. Da Ponte, Memorie, 1 Gorizia è una gentile, antica e nobile città del Friuli tedesco, situata sulle rive dell'Isonzo e distante poche miglia (credo dodici) dal Friuli veneto. Vi arrivai il primo di settembre dell'anno 1777, prima cioè d'esser giunto al ventinovesimo della vita. Non conoscendo io alcuno in quella città, non avendo meco portato lettere per alcuno, andai a dirittura alla prima locanda che trovai, portando un fardelletto sotto il braccio, che conteneva parte di un abito, poca biancheria, un Orazietto (che portai con me più di trenta anni, perdei poscia a Londra, e ritrovai qualche tempo fa a Filadelfia), un Dante con delle note fatte da me e un vecchio Petrarca. Questo equipaggio non ispaventò la locandiera. Appena entrai nella locanda mi venne incontra, mi diede un'occhiatina espressiva, che mi disse quanto poi nacque tra noi e mi menò in una buona camera. Questa donna era molto bella, giovane, fresca, e parea sopra ogni creder vivace. Era vestita alla foggia tedesca: avea una cuffietta a trine d'oro sul capo; una collana di catenella finissima di Venezia le cingea almen trenta volte un collo rotondo e più candido d'alabastro, e, scendendo in crescenti giri, cadeva fin al bel seno, che vezzosamente in parte copriva; un giubbetto ben attillato le stringeva le tornite membra con lasciva eleganza; ed una calzettina di seta, che terminava in due scarpette color di rosa, mostravan al cupido sguardo la forma ammirabile di un piccolissimo piede. Non erano ancora suonate le sei della sera; ma, come io non aveva preso tutto quel giorno che qualche bicchier di vino e un poco di pane, le chiesi la cena. Per mia disgrazia non parlava che tedesco o cragnolino, ed io non capìa una parola di quello ch'ella diceva a me, né ella di quel ch'io a lei. Cominciai a farle de' cenni colle mani, colla bocca, co' denti, ch'ella prendeva, quanto mi parve, per complimenti amorosi. lo aveva un appetito che avrebbe divorato i sassi. Mentre m'affaticava così, per farle intendere che avrei voluto da mangiare, passò una servetta davanti alla porta della mia camera con un piatto di pollastri fritti, destinati per altri viaggiatori. Me le scagliai addosso colla prestezza d'un gatto, ne presi un quarto, e me lo trangugiai in un momento. Io lo trovai tanto delizioso, che credo d'aver inghiottito anche le ossa. Capì allora quel ch'io volea, e in poco tempo vidi portarmi una cena esquisita, resa più dolce e piacevole dalla continua compagnia della leggiadra ostessina. Non potendo parlare, cercavamo capirci colle occhiate e colle gesticolazioni. Quando venner le frutta, cavò dalla tasca un coltellino colla lama d'argento, levò la buccia a una pera, ne tagliò la metà per me e mangiò l'altra metà; poi mi offrì il coltellino ed io feci altrettanto. Bevve un bicchieretto di vino con me, e m'insegnò a dir Gesundheit; e da' movimenti del bicchiere intesi che volea dirmi ch'io beessi alla sua salute, com'ella beeva alla mia. Come io non aveva proferito bene questa parola, me la fece ripetere due o tre volte, e sempre empiendo e vuotando il bicchieretto di nuovo vino. Non so se Bacco o qualche altra divinità cominciasse a scaldarle un pochetto il sangue. Dopo due buone ore di simile conversazione, una tinta vivissima le coloriva le guance e le brillavan negli occhi le fiamme della voluttà: ella era divenuta una vera bellezza. Sorgeva dalla sua sedia, si contorceva, mi guardava, sospirava, tornava a sedere; tutto questo però alla presenza di due vaghe servette, vestite alla sua foggia, che ci avevano servito tutto il tempo della cena e di quella conversazione. Finalmente una di quelle partì, e dopo alcuni minuti la padrona fe' cenno all'altra d'andarsene, dicendole qualche cosa in tedesco, ch'io non capiva. In pochi istanti la servetta tornò: portolle un libro, e ripartì. Quando restammo soli, venne presso di me, e, cercando in quello alcune parole, vi mise dei pezzetti di carta e mi fe' cenno di leggere. Era quel libro un dizionario tedesco e italiano: a' lochi indicati lessi queste tre parole: "Ich liebe Sie"; e trovai che significavano "lo amo voi". Come la seconda parte di quello era il dizionario italiano, così cercai la congiunzione "e" e le feci rileggere le stesse parole "und ich liebe Sie". La scenetta allora divenne graziosissima. conversammo almeno un'ora e mezzo coll'aiuto del dizionario, e ci dicemmo scambievolmente diverse cose che parevano dover finire assai seriamente. Fortunatamente arrivarono alla porta diverse carrozze; la bella locandíera fu contra sua voglia obbligata partire, ed io alfine rimasi solo.
Mentre lo stava immerso in questo pensiero, ecco l'ostessina tutta allegra, che torna in camera colle due ragazze medesime ch'avevano assistito alla cena. Portavano queste dei gelati e de' zuccherini, che per forza ho dovuto prendere con lei; intanto una delle ragazze cominciò a cantare piacevolmente una canzonetta tedesca che cominciava: "Ich liebe einen welschen Mann" (io amo un uomo italiano). Mentre costei cantava, mi ricordai di Calipso e di Leucotoe, e mi figurava in quella situazione di esser Telemaco. Terminata la canzonetta dalla ninfa tedesca, partì coll'altra servetta, ed io rimasi solo colla padrona novellamente. Intesi allora che io aveva bisogno d'un Mentore. Il cortese Morfeo fu il mio. Presi in mano il dizionario, e le feci veder la parola "sonno". Fu discretissima. Suonò il campanello, entrò una delle sue serve e l'ostessina con bellissimo garbo partì. La serva scoperse il letto, mostrommi dov'era l'acqua per lavarmi e per bere, e si fermò con ridente volto presso di me. Lo non intendeva questa cerimonia. Pensai che aspettasse la mancia; le offersi una moneta, ch'ella rifiutò con disdegno, ma, prendendomi con molta grazia la mano, v'impresse un bacio e lasciommi. Tutta questa commediola, che non durò meno di cinque ore, mi divertì estremamente. Ma non poteva cacciare dalla mia testa i preti, i frati, Maria Teresa e tutto il suo codice penale; cose tutte di cui io aveva udito parlare come della santissima inquisizione di Spagna. Finalmente m'addormentai. Commento alle Memorie di Da Ponte, 1 Sfuggito ai Piombi in viaggio verso l'Austria, dove l'attende il successo delle sue opere musicate da Salieri e Mozart, Lorenzo Da Ponte fa tappa in una locanda sul confine di Tarvisio, in cui incontra un ostessa dal fascino immediato.
Chi parla d'amore lo fa con l'insensatezza, con l'incoscienza di chi si lascia condurre dalle sensazioni e dal canto. Come se cantasse la propria vita l'autore ne riversa sul lettore il contenuto principale: la frenesia. Il banchetto con l'ostessa tirolese, mentre allude a quello di Don Giovanni e al matrimonio tra Masetto e Zerlina, riversa nel testo l'energia vitale di un uomo che lascia che la vita accada senza sospetto di pentimento o di risentimento per la medesima. Commento alle Memorie di Da Ponte, 2 Come nasce un capolavoro musicale? Chi lo ispira? Chi ne è la musa o almeno l'occasione? Quando e come un autore decide che un personaggio e una scena devono esistere, qual è la prima battuta di un'opera dalle quali le altre via via prendono corpo e vita? Abbiamo davanti la risposta a queste domande. Siamo all'interno di una casa viennese del '700, dove sono ritratti un poeta di teatro e una ragazzina dallo sguardo accattivante e furtivo che sembra sfiorare con il suo passo leggero, con la sua eccitante presenza le pagine dello spartito musicale, così come vengono riempiendosi davanti allo sguardo ammirato del lettore.
La vita sembra irrompere nell'arte e questa pare lasciarsi formare dall'estro dell'attimo, da una condizione esistenziale che sfocia nell'adesione alla musica come visione del mondo. Ma non è che un'illusione. Sono questi gli ultimi bagliori di un mondo destinato a finire, ormai prossimo alla stagione del Terrore rivoluzionario e alla scomparsa dei suoi protagonisti, che si ritroveranno tra poco ad essere degli anacronistici sopravvissuti dell'ancien régime. Commento alle Memorie di Da Ponte, 3 Il poeta è diventato un libraio. Da Vienna si è trasferito a New York. Il Settecento è finito. L'Europa è lontana e con essa il ricordo di uno sfolgorante successo ormai definitivamente tramontato.
E' autunno. Da Ponte ci parla dal suo magazzino di libri nel quale attende dalla sera alla mattina i pochi compratori. Più spesso vi entrano ingenui acquirenti di crostate che confondono il suo negozio con la pasticceria attigua. Ma Da Ponte ne ride e si dichiara convinto che presto insegnerà agli sbadati clienti quanto i libri dei suoi poeti siano più dolci e in qualche modo meno stucchevoli degli zuccherini che si vendono nella città. Siamo passati dai biscotti di zibibbo del Don Giovanni alle crostate americane, ma il rapporto vita-letteratura è ancora lo stesso, anche nel mondo nuovo, anche nell'Ottocento. I libri, soprattutto quelli di Petrarca, sembrano scampati da un naufragio e Da Ponte sembra un nuovo Robinson Crusoe nella metropoli americana. In qualche modo sereno e ottimista, egli attende gli acquirenti invernali quando si riapriranno le scuole e la gente riprenderà nelle giornate ventose e ghiacciate il gusto della lettura e il piacere di recarsi a teatro. Da Ponte Lorenzo, Memorie-Libretti mozartiani, 2006, Garzanti Libri |