La fantasia di Gabriel Garcia Marquez

La fantasia di Gabriel Garcia Marquez

Dario Lodi


Gabriel Garcia Marquez (1927-2014), Nobel per la letteratura nel 1982, deve la sua fama planetaria al romanzo “Cent’anni di solitudine”. Lo scritto è sicuramente fra i più coinvolgenti che la letteratura sudamericana abbia mai espresso. Il coinvolgimento comporta varie suggestioni, sollecitate dalle atmosfere fantastiche, rese spontaneamente, con senso di verità.

Fantasia e folklore, a sostegno di una voglia di vivere solare, che quasi manca alla mentalità europea, generalmente adombrata da altre e più urgenti forme di pensiero e di sentimento – una discesa negli abissi dell’essere, ad esempio – non difettano certo nel famoso romanzo di Garcia Marquez ed anzi diventano i fattori principali della narrazione di una vicenda che ha nel dipanarsi immaginifico la sua chiave di volta. Gabo (così ad un certo punto fu chiamato) disse più volte di odiare il termine fantasia e si definì anzi realista. Allora la sua letteratura cominciò a godere del termine “realismo magico” (in Italia rappresentato da Massimo Bontempelli con ben altra coerenza), da Gabo sempre respinto. Egli desiderava dimostrare di possedere una sua esclusiva espressività, un suo stile inconfondibile, originale, nuovo.

Che lo stile di Gabo sia nuovo non sembra francamente provato. La sua è una narrazione esemplare all’interno di un sistema radicato che non prevede scompensi, pena la scomparsa della sua personalità e persino della sua ragion d’essere. Nella storia dell’evoluzione letteraria è inevitabile che la letteratura americana, e sudamericana specialmente, siano costrette a certe forzature, vuoi narrative vere e proprie, vuoi interpretative della narrazione. Nel secondo caso, ovvero nell’interpretazione, in qualche modo viva nell’America del Nord, si tratta spesso di parodie dei modelli europei. Nel primo caso, abbiamo invece un tentativo di espressione libera, propria, cristallina, funzionale se rispettosa in senso etnologico, cioè se questa narrazione rispetta il vissuto della gente del luogo, senza pretese superiori.

In effetti, nel romanzo “Cent’anni di solitudine”, Garcia Marquez si muove esclusivamente in questa direzione, fornendo una sorta di testimonianza della realtà colombiana: è una realtà fatta di grossolane ma simpatiche sfumature che la penna del nostro scrittore sa rendere vive e vere anche quando la verità sembra andare per conto suo. Ad esempio, lo scrittore fa volare in cielo, anima e corpo, Remedios “la bella” fra lo stupore, neanche tanto rimarcato, degli assistenti.

Le vicende del romanzo sono complesse, intricate e trattano anche vicende civili, con notevole passione. Tutto ciò all’ombra del colonnello Aureliano Buendia (sono sette le generazioni dei Buendia che Gabo mette in campo), trentadue volte alle prese con rivoluzioni armate e trentadue volte sconfitto. E’ questa un’invenzione semplicemente sublime che quasi sicuramente Gabo ricavò dalla figura del nonno materno, colonnello anche lui, con il quale convisse per qualche tempo. Gli arabeschi narrativi sono invece ricchi di colore perché ispirati, anche qui quasi sicuramente, dalla intraprendenza della madre, nota chiaroveggente del luogo. La poesia con cui Gabo intreccia tutto quanto è invece una cosa tutta sua: una specie di sottofondo musicale che incanta e che rende il racconto sempre piacevole, senza vuoti.

Garcia Marquez ha scritto molto altro, fra cui il romanzo allegorico “L’amore ai tempi del colera” e articoli d’impegno civile, contro le ingiustizie sociali. Soltanto di questi ultimi, degli articoli, il nostro scrittore andava veramente fiero: una posa? Assolutamente no, verrebbe da dire, aggiungendo, però il sospetto della presenza negli stessi di un eccesso di “calore” e dunque di un loro valore, speculativamente, un po’ relativo.

L’impegno civile portò Gabo a fraternizzare con personaggi assai invisi al potere convenzionale, Fidel Castro e Che Guevara, sebbene politicamente tenne le distanze da entrambi: per lo meno così sempre dichiarò. Un appoggio morale lo diede anche a Salvador Allende. Tutto questo non gli impedì di avere la considerazione e l’amicizia del presidente americano Clinton. Probabilmente, Gabo avrebbe voluto essere un rivoluzionario senza rivoluzioni sanguinose ma ragionevoli. Le istanze popolari (non populiste) le aveva nelle vene. Il suo comunismo era del tutto idealista, praticamente un sogno (ma di certo non è proibito sognare).

Gabriel Garcia Marquez è tutto nel suo “Cent’anni di solitudine”, vuoi in modo esplicito, vuoi in modo implicito. Aureliano Buendia, il colonnello, è un perdente ma insiste. Lo immaginiamo ritirato nel laboratorio di oreficeria della sua Macondo (un paese inventato dal nostro scrittore, quasi certamente quello nativo, Arataca) a brontolare sulle sconfitte subite e a tramare per la realizzazione di una nuove imprese, fra la fonditura di un pesciolino e l’altro. E’ un personaggio immortale. Sta nella sua storia, forse, il senso principale del romanzo. La metafora, peraltro esplicita, che vede attore Aureliano, riguarda la stessa sorte dell’uomo di fronte all’utopia, che comunque affronta. Gabo, lo fa con tutta la fantasmagoria di cui è capace la sua intelligenza, coinvolgendo innumerevoli personaggi e vicende che fanno la grandezza di un sognare la vita con la fresca mentalità sudamericana, prodiga di mille intrecci fantastici e reali che si confondono fra loro grazie ad una volontà inesauribile d’immaginare e di realizzare l’immaginazione.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019