La voce di Elias Canetti

La voce di Elias Canetti

Dario Lodi


Di Elias Canetti (1905-1994), Nobel per la letteratura nel 1981, per chi scrive, sono memorabili tre cose: l’”Autodafé”, “Massa e potere” e l’imponente autobiografia, suddivisa in più volumi. Quest’ultima è un vero e proprio monumento alla narrativa di formazione dell’individuo, tanto cara alla letteratura tedesca. E qui veniamo alla scelta del linguaggio con cui comunicare scelto da Canetti, proprio la lingua tedesca, lui bulgaro-ebreo di nascita con lontane origini spagnole da parte di padre ed italiane per parte di madre.

Per ragioni familiari fu bambino in Inghilterra, a Manchester, ed adolescente a Vienna e a Zurigo, quindi fu a Francoforte dove assistette ai disordini a seguito dell’assassinio del ministro Walter Rathenau, avvenuto nel 1922 da parte di elementi di destra, fatti che ispirarono il suo libro “Massa e potere”.

Canetti, perso il padre a soli sette anni, fu legatissimo alla madre, donna di rara intelligenza e di ancora più rara preparazione culturale. In famiglia si parlava il tedesco perché considerato lingua nobile, aristocratica, l’unica degna di interpretare adeguatamente il pensiero. Il nostro scrittore scelse di usarla benché avesse deciso di prendere la cittadinanza britannica, dopo che si era rifugiato a Londra a seguito dell’Anschluss del 1938, ovvero dell’annessione (imposta) dell’Austria alla Germania hitleriana.

Prima prova di grande effetto è l’Autodafé (in originale l’”Accecamento”), dove, con lucida sofferenza e con enorme trasporto emotivo, sontuosamente articolato, il protagonista finisce con il soccombere sommerso dai suoi libri, in un rogo immane e in qualche modo purificatorio. La purificazione è tuttavia una forzatura, in quanto il rogo rappresenta una punizione assurda, ingiusta, crudele verso il tentativo umano di giungere ala conoscenza. Canetti parla di conoscenza assoluta che l’accumulo di libri sembra garantire.

Questo accumulo si rivela invece un inganno, ovvero una delusione: il sapere umano è limitato ed è relativo, suggerisce il nostro scrittore con amarezza e rammarico, ma il suggerimento gli viene come strappato di bocca sotto la tortura indicibile prodotta da un sospettato nichilismo fondamentale. La salvezza estrema viene dalla presunzione, la stessa che consente a Canetti di denunciare il rito estremo della distruzione di ogni cosa sancito dal fuoco purificatore di non si sa che (sarebbe banale pensare alla superbia umana).

Ancora più ambiziosa è la seconda impresa, frutto di un quarantennio di gestazione: “Massa e potere”, un’opera pensata in più volumi, ma che soltanto di uno siamo in possesso. Sotto un certo punto di vista, possiamo dire che basta ed avanza. Sia detto senza ironia.

Canetti vi pone i propri pensieri e le proprie considerazioni zigzagando fra molteplici discipline e assumendo una solennità di carattere filosofico. Disciplina principale, forse trattata con una certa involontarietà, è l’antropologia: il nostro scrittore, con cerebralismo teutonico, cerca di dimostrare che in realtà la massa è proprio massa e cioè un insieme informe tenuto insieme da una sorta di superuomo, che è poi il prodotto per eccellenza dei tanti individui.

Scopo dell’umanità è, secondo Canetti, quello di creare l’uomo perfetto, dotato di potere assoluto su tutto e tutti, per il bene di tutti e di tutto. La teoria, non certo nuova, viene espressa con un’amarezza essenziale che la rende viva e discutibile, favorendo il sorgere di una contro-teoria che sostiene il rispetto di ogni forma di vita perché portatrice di differenze creatrici progresso sia vitale sia esistenziale.

Canetti, in “Massa e potere” si arrovella intorno alle riflessioni per cui debba esistere una cosa piuttosto che un’altra, ora esaltando l’individualità, ora contenendola entro una logica superomistica ereditata da varie forme di pensiero coeve. Notevoli i passi in cui lo scrittore indugia sul fascino del’inconscio e quindi sul valore della cosiddetta irrazionalità, e cioè dei sentimenti e dei pensieri che non possono essere controllati e che ci condizionano nel corso del sonno, rivelandoci una personalità misteriosa (di sicuro arricchente) tutta da enucleare.

Il superuomo sarebbe, dunque, per così dire a razionalità limitata sino a quando la presunta irrazionalità, di stampo freudiano, non venga adeguatamente trasformata in nuova razionalità. Senza questa trasformazione, il superomismo è a scartamento ridotto con la conseguenza che l’antropologia diventa scienza zoppa. Il Nostro, alla fine, si mette volentieri in balia di tutti questi richiami, cioè dei richiami a favore della tesi apparentemente forte, diciamo hitleriana per semplificare, e di quella apparentemente debole, umanistica in senso ampio.

Terza impresa, questa davvero titanica, di Canetti, è la sua autobiografia. Essa rientra, in buona parte, nel corpus della letteratura mitteleuropea perché è caratterizzata da una malinconia per i tempi che fu tipica di quella mentalità allungatasi per qualche tempo ancora, procurando nostalgia. Pensiamo alla “finis Austriae”, alla caduta di un sistema quello asburgico, che per parecchi decenni aveva tenuto insieme più popoli dell’Europa Centrale con saggia amministrazione, con sicurezza sociale. Canetti bambino vide il crollo definitivo del potere accentratore di Vienna, visse la fine della rassicurante irradiazione civile asburgica.

Oltre al rimpianto per i tempi andati, nelle sue memorie c’è lo sconcerto per la perdita di un forte riferimento, c’è un disorientamento essenziale e quindi un rimuginare solitario la fine di sé e di un mondo. Tutto ciò è splendidamente condensato, si fa per dire, nelle rievocazioni dell’infanzia del nostro scrittore e nella crescita di questo ragazzo, incredulo di fronte alle stranezze della realtà che lo circonda, realtà accentuata dalla nuova situazione orfana del vecchio sistema. Da qui il fascino dei suoi stupori e la magnificenza di un narrare dall’interno, fornendo parole fatte di sangue e di nervi. Alla base c’è un dolore cosmico con cui Canetti commenta, magnificamente, la fatica di essere. Ci contagia irreparabilmente, incantandoci.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019