Le allucinazioni di William S. Burroughs

Le allucinazioni di William S. Burroughs

I - II

Dario Lodi


Sento sul collo il fiato caldo della Legge, li sento che fanno le loro mosse, piazzano pupe diaboliche come informatori e canticchiano davanti al cucchiaino e al contagocce che butto via alla fermata di Washington Square, salto un cancelletto girevole, scendo a precipizio due rampe di scale di ferro, prendo la metropolitana in direzione uptown ... (Incipit de “Il pasto nudo”).

*

William S. Burroughs, (S. sta per Seward, 1914-1997) fu considerato, dagli stessi sodali, il padre spirituale della Beat Generation (nome dato da Jack Kerouac nel 1948 a un gruppo culturalmente nuovo, nemico del sistema sociale in atto). Burroughs si dimostrò degno della considerazione attraverso la stesura di diciotto romanzi, sei raccolte di racconti, quattro di poesie più cinque volumi d’interviste e corrispondenze. Nelle ultime si presenta come una specie di guru, ferrato su qualunque materia e dispensatore di critiche, straconosciute, su ogni argomento.

I testi sono per lo più autobiografici, le vicende stravolte dallo scrivere sotto l’uso di droghe. Burroughs ne fu prigioniero sin dal 1942 (ne “La scimmia sulla schiena”, romanzo apparso nel 1953 e suo primo importante, egli sposta il ricorso alla droga, morfina ed eroina, nel 1944-45). Scartato dal servizio militare, il nostro scrittore servì la causa democratica sposando, in Croazia (nel corso delle sue prime peregrinazioni), un’ebrea, Ilse Kappler che, con la cittadinanza americana, si sottrasse alla persecuzione nazista.

Si sposò una seconda volta, poco più tardi, con un’amica, Joan Vollmer, morfinomane come lui. Nel 1951 fuggirono a Città del Messico, per togliersi dall’intollerante New York (dove, tuttavia, la droga si poteva avere con una semplice ricetta medica): qui, volendo imitare Guglielmo Tell, Burroughs fece porre alla moglie una mela in testa e sparò colpendola in mezzo alla fronte. Joan rimase uccisa all’istante. Il nostro scrittore fu aiutato da avvocati ben pagati che trovarono il modo di far passare l’omicidio colposo per incidente. Burroughs si portò la tragedia sulla coscienza per il resto della vita.

La famiglia del Nostro, originaria di Sant Louis, capitale del Missouri, era molto ricca. Il nonno aveva inventato l’addizionatrice scrivente e messo su una fabbrica presto florida. La diversità del loro parente era tollerata purché esercitata lontano. Egli fu mantenuto sino alla morte, salvo brevi pause durante le quali fece diversi lavori, anche molto umili. Burroughs fu a New York già nel 1943 e conobbe subito Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Del secondo fu amante per parecchi anni. In Francia, negli anni Cinquanta, ebbe un’avventura sentimentale con Brion Gysin, il creatore del “cut-up” e della Dreamachine, un aggeggio produttore di effetti psichedelici. Il “cut-up”, invece, è un metodo che prevede il ritaglio di parti di romanzo e di riassemblaggio casuale. E’ un metodo già noto al Dadaismo, a Tristan Tzara ma Gysin, anziché pensare ad una casualità vera e propria dove si dimostrava l’inutilità delle parole, pensò ad una ricostruzione con un senso, un senso ovviamente tutto da scoprire.

Il “cut up” fu qualcosa d’incantevole per Burroughs. Egli ne fu in qualche modo condizionato. Il tagliare e assemblare a caso avvenne però nella sua mente super eccitata dalla droga, non c’era bisogno, per lui, del daffare materiale preteso dal metodo di Gysin. Questa specie di parodia, si nota bene nel suo libro più famoso “Il pasto nudo”, uscito nel 1959 a Parigi. La versione americana uscì, molto diversa da quella francese, nel 1962, grazie a un testo diverso in possesso di Ginsberg. E’ quella americana la versione ufficiale. Pare che il titolo sia dovuto a Kerouac, preso da un verso di una poesia di Ginsberg. Nel 1991 David Cronenberg realizzò un film dallo stesso titolo. Nella seconda parte vi sono episodi della vita di Burroughs.

Il romanzo tenta una tesi per cui l’uomo è condizionato dal sistema che opera su di lui con manipolazioni mentali (si pensi alla pubblicità subliminale, ad esempio): due entità, di fantasia, se lo contendono. La tesi ha sicuramente una certa importanza e rivela delle verità scomode quanto indiscutibili. Non è una cosa nuova. E’ nuovo il modo con cui cerca di sostenerla. Burroughs lo fa attraverso allucinazioni e scombinamenti che denunciano una sostanziale debolezza di pensiero e una mancanza di coraggio nell’affondare seriamente il bisturi della parola nella realtà. Manca, inoltre, la volontà di esprimere un’alternativa: troppo comodo, si fa per dire, la denuncia insensata (insensata per l’assenza di un’idea di cambiamento), del sistema, di qualunque sistema che costringa l’uomo ad essere una specie di automa al servizio di un’intelligenza volgare.

Nella realtà, Burroughs e i suoi amici stanno bene nel sistema perché li fa vivere della loro contestazione. Non dimentichiamo che il nostro scrittore, per procurarsi la droga, quando era a corto di denaro non aveva esitato a spacciare e a rapinare. Spacciò e rapinò non certo per un supplemento contestativo. Ebbe anche contatti con la malavita. Insomma, si adeguò, fra un atteggiamento da martire e l’altro. Particolarmente duro doveva essere sopravvivere in America. Ma per coerenza, il Nostro sarebbe potuto andare in Tibet, dove la teocrazia del Dalai Lama induce a pregare e a compiere buone azioni. Invece, Burroughs andò a Parigi, a Londra, a Berlino, a Tangeri, eccetera, e ovunque si drogò senza ritegno. Confessò anche che era quasi impossibile liberarsi da quell’orribile vizio, senza aggiungere che nulla fece per provare.

D’altro canto, non si capisce la confessione di quasi impotenza nei confronti della purificazione dalla droga alla luce di ciò che comportò per lui la droga stessa (o così pare). Egli si lasciò andare agli effetti della dose di morfina o di eroina (forse fu una liberazione, in parte, dalla debolezza della sua personalità), affidò alle stesse il suo talento di scrittore ortodosso baciato dalle nuove forme espressive: il “flusso di coscienza” ad esempio, impiegato ormai in mille modi dalla letteratura moderna e dall’arte in genere. Il “cut-up” è uno di questi: comporta comunque la nascita di un ordine perché anche il disordine lo esige. Esige, il disordine, che al suo interno vi sia una logica.

Per la sincerità di scrittura, Burroughs merita più di un’attenzione. Le sue allucinazioni nascondono possibilità espressive dagli sviluppi interessanti, nel senso che nella vacuità delle invenzioni visive, e nelle immaginazioni non comuni, trovano considerazione idee e sensazioni insolite, montate poi a viva forza su quelle tradizionali sino a scardinarle e a farle apparire come inaffidabili. A questo servono, dunque, le allucinazioni di Burroughs. Non certo il miglior intellettuale americano del XX secolo, come sosteneva James Graham Ballard, autore britannico di fantascienza e di satira sociale, ma di sicuro uno dei più curiosi, nonostante gli involontari e volontari, irritanti, debordi, gli inutili sconfinamenti.

Dello stesso autore:

Testi di Burroughs William


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019