ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


VALORI DI SCAMBIO TRA SCHIAVISMO E CAPITALISMO

I

Quando si fa un'analisi meramente strutturale (economica), e non la si mette in rapporto con la sovrastruttura (una determinata cultura), al massimo si arriva a dire una mezza verità, cioè una verità esteriore, fenomenica, ma non sostanziale, ontologica.

Prendiamo p. es. questa frase tratta dalla rivista "n+1" (n. 35/2014, interamente dedicato all'Italia nell'Europa feudale): nel mondo greco il denaro "era sì equivalente universale, ma non raffrontava valori di scambio bensì valori d'uso" (p. 14). Questo perché il "capitalismo antico" per diventare moderno "ha bisogno di un'accumulazione originaria abbinata a una liberazione sistematica di forza-lavoro. Solo così il Denaro diventa Capitale" (ib.).

Queste frasi, prese in sé, non spiegano nulla. Infatti là dove esiste un mercato con una moneta liberamente circolante e assolutamente necessaria per gli scambi, lì esiste un'astrazione (il denaro come equivalente universale, che può essere accumulato in maniera indefinita), e quindi esiste valore di scambio. Cioè gli oggetti hanno tanto più valore quanto più sono richiesti, quanto più sono rari, preziosi, ecc. e la compravendita non può essere fatta senza denaro. Qualunque bene "comprato" sul mercato è merce, indipendentemente dall'uso che se ne fa. E in ogni caso nessuno compra dei valori di scambio che non abbiano anche un valore d'uso. Le merci non acquistano un valore di scambio solo nei mercati capitalistici, e in ogni mercato hanno inevitabilmente un loro valore d'uso.

Se esistesse solo un mercato ove gli oggetti vengono scambiati tra loro, non ci sarebbe l'astrazione di un equivalente universale: ci sarebbe soltanto valore d'uso. Il mercato dei valori d'uso è quello del baratto, cioè quello dello scambio alla pari delle rispettive eccedenze (il surplus delle varie comunità che s'incontrano sul mercato, i cui contraenti possono essere liberi o sottoposti a rapporti schiavili o servili). Là dove esiste "denaro", lì esiste possibilità d'accumularlo in maniera indefinita, proprio perché nulla può impedirlo. Anche le derrate alimentari si possono accumulare, ma non in maniera indefinita, perché la cosa sarebbe materialmente impraticabile, per quanto storicamente s'incontri un accumulo eccessivo di derrate, quello ben oltre lo stretto necessario, proprio in concomitanza con l'uso della moneta.

Quindi perché il valore d'uso si trasformi in valore di scambio è sufficiente il mercato con la presenza del denaro, ma per far diventare questo valore di scambio inerente al sistema capitalistico ci vuole altro, qualcosa che lo schiavismo non aveva, appunto la "liberazione di forza-lavoro", la cui natura però va spiegata.

Nell'antichità, quella dove esisteva l'uso del denaro, si facevano le stesse cose di oggi: p. es. si accumulava l'oro per tesaurizzarlo o per investirlo, ovvero per dimostrare la propria potenza attraverso i forzieri o attraverso i propri investimenti produttivi. In quelle società schiavistiche generalmente gli scambi non avvenivano attraverso l'oro, se non per le merci più rare e pregiate, a meno che la società non fosse ricchissima. Di regola, per la compravendita o per pagare prestazioni di lavoro, si usavano argento, bronzo e rame (o, in quest'ultimo caso, una lega di rame e zinco, detta dai romani, a partire da Nerone, oricalco). Ovviamente oro e argento si potevano depositare presso le banche per ottenere degli interessi. A loro volta le banche, sulla base di determinate garanzie, prestavano oro e argento per ottenere altri interessi. Poi c'erano i cambiavalute, che speculavano sulle oscillazioni di valore delle varie monete usate nei mercati.

Era tutto come oggi, in forme ovviamente molto diverse. Chi si limitava a tenere l'oro nei propri forzieri, come oggi chi si tiene i lingotti in casa, non contribuiva allo sviluppo dell'economia. Per aumentare i propri "capitali" bisognava fare degli investimenti, anche rischiosi, facendo bene attenzione a non sperperarli.

Oggi non abbiamo bisogno di depositare oro e argento nelle banche affinché lo investano: è sufficiente usare delle semplici banconote. La banca immediatamente le reinveste in maniera capitalistica. Da questo denaro si può ottenere addirittura una rendita a vita, ma, se investito male, si può anche perderlo, in parte o del tutto. Queste cose succedevano anche nell'antichità, seppur le banche pretendessero oro o argento: non è questo che, nella sostanza, ci differenzia. La differenza stava altrove.

L'investimento del denaro, nelle società schiaviste, avveniva sulla base di condizioni non materiali ma immateriali diverse da quelle di oggi. Era impossibile non tenerne conto. Ora per quale motivo oggi diciamo che non può esistere "capitalismo" senza "liberazione della forza-lavoro", cioè senza la presenza di "manodopera giuridicamente libera"? Se una manodopera del genere fosse esistita nel mondo antico, che utilizzava i mercati e conosceva la moneta come equivalente universale, se fosse esistita non come eccezione ma come regola, ci sarebbe stato il capitalismo? Non lo sappiamo, cioè non possiamo dirlo con sicurezza. Sappiamo soltanto che il capitalismo fa fatica a svilupparsi là dove domina lo schiavismo.

Prendiamo la situazione delle colonie americane, del nord e del sud del continente, al tempo del colonialismo europeo. Lì esisteva indubbiamente lo schiavismo. I negri lavoravano nelle piantagioni e producevano per il mercato. Producevano soprattutto per i mercati europei, che erano già capitalistici. In Europa si aveva bisogno di determinati prodotti (p.es. il cotone) e non ci si preoccupava affatto se a produrli fossero dei lavoratori liberi, schiavizzati, salariati o servi della gleba. Lo schiavismo agricolo americano era produttivo proprio perché l'acquirente europeo era già capitalista.

Tuttavia nell'Europa moderna non s'impose affatto lo schiavismo. Si era da tempo capito che lo schiavo era meno produttivo dell'operaio salariato. Già i romani del tardo impero avevano compreso che molto meglio dello schiavo era il colono, specie nelle periferie più lontane. Gli schiavi erano produttivi quando le guerre vittoriose permettevano di acquistarne tanti a poco prezzo, e comunque bisognava sempre pagare dei sorveglianti che li obbligassero a lavorare. Era troppo rischioso per uno schiavista non punire duramente uno schiavo ribelle. I rapporti cambiano, tra schiavo e schiavista, quando le guerre smettono d'essere vittoriose e ci si pone sulla difensiva.

Se gli acquirenti delle merci americane fossero state delle società schiavistiche, le piantagioni americane non si sarebbero sviluppate così tanto. La domanda sarebbe stata molto più bassa e di conseguenza anche l'offerta, poiché un'offerta eccessiva comporta sempre un abbassamento dei prezzi delle merci.

Dunque il moderno schiavismo americano, che durò quasi sino alla fine dell'Ottocento, era una forma imperfetta di capitalismo. Era una forma di economia analoga a quella greco-romana, ma con più possibilità di sviluppo, in quanto gli Stati acquirenti erano già capitalistici e la loro domanda di beni era enorme.

Senonché, nella misura in cui cominciò a svilupparsi il moderno capitalismo anche negli Usa, ecco che lo schiavismo venne considerato ideologicamente intollerabile. Perché? E soprattutto perché gli schiavisti piantatori del sud non lo consideravano affatto tale, e furono persino disposti a difendere con le armi il loro razzismo? Per quale motivo si fece una sanguinosa e lunga guerra civile tra nordisti e sudisti? Che bisogno avevano i nordisti di obbligare i sudisti a "liberare" i loro schiavi?

Oggi il motivo, col senno del poi, ci appare molto semplice: l'industria capitalistica ha bisogno di manodopera giuridicamente libera. Lo schiavo è schiavo a tempo pieno nelle mani del latifondista, dell'agrario capitalista, padrone di terre immense. Uno schiavo a tempo pieno, che lavora su piantagioni enormi, non induce il capitalista agrario a fare una cosa che invece diventa inevitabile quando non si dispone della medesima terra: costruire macchine per il lavoro. Per un grande latifondista che usa manodopera schiavile, la produttività può essere messa soltanto in rapporto all'estensione delle terre e al numero degli schiavi; il resto è correlato: l'intensità dello sfruttamento, la fertilità del suolo, le competenze necessarie, la scelta delle colture...

Per tutto il mondo greco-romano lo sviluppo della tecnologia lavorativa è stato molto scarso, proprio per la presenza massiccia degli schiavi, cioè per l'assenza, in un numero significativo, di lavoratori liberi. Di conseguenza la ricchezza generale non ha mai potuto raggiungere livelli molto elevati: i veri ricchi erano molto pochi. Se un lavoratore era "libero", perché proprietario dei suoi mezzi produttivi, non era mai sul libro-paga di qualcuno; e se diventava schiavo perché rovinato dai debiti, continuava a non essere sul libro-paga di nessuno: lavorava gratis, in cambio del solo vitto e alloggio. Esistevano i salariati, ma per lavori occasionali o stagionali; in genere, là dove non esisteva proprietà dei mezzi produttivi, il lavoro era svolto da schiavi, fossero essi "schiavi privati" o "schiavi statali".

Sul piano lavorativo, in agricoltura, ci sono stati più progressi tecnologici nel Medioevo "povero" che non nel "ricchissimo" impero romano (p.es. nella tipologia dell'aratro, nella trasformazione del giogo da traino, nella rotazione delle colture, ecc.). Eppure nel Medioevo (almeno in quello che va dalla caduta dell'impero romano d'occidente al Mille) dominava il valore d'uso e il baratto. Lo dimostra il fatto che l'usura era inesistente e rarissima la circolazione della moneta, che generalmente veniva usata per articoli lussuosi provenienti dall'Asia, da Bisanzio, dalla Russia...

Come si spiega questa stranezza? La si spiega considerando che il servo della gleba era solo per metà servo, per l'altra metà era abbastanza libero, cioè non era schiavo al 100 per cento. Il contadino aveva interesse a migliorare la propria esistenza personale e familiare, ovviamente nella parte di lotto di sua competenza, o nella parte di tempo a sua disposizione, quella libera dalle corvées.

Nel Medioevo, fino a quando non sono rinati i mercati ove si usava la moneta, il capitalismo non ha potuto mettere radici. Le sue radici sono potute entrare tanto più in profondità quanto più diminuiva la percentuale del servaggio. Per poter avere la meglio sul nobile agrario, padrone di immensi latifondi, l'imprenditore borghese privo di terra, ma dotato di capitali e di una certa competenza nell'uso degli strumenti produttivi di proprietà del contadino, il primo dei quali era il telaio per tessere, non aveva altra possibilità che convincere la famiglia contadina a dedicare una parte del proprio tempo libero a suo favore, affinché i capitali potessero fruttare dei profitti economici veri e propri e non soltanto delle rendite finanziarie.

I capitali li aveva ottenuti dai commerci e ora poteva investirli sulla forza-lavoro di famiglie contadine sparse nei grandi latifondi: lui forniva la materia prima che loro lavoravano a domicilio coi loro semplici telai. Col tempo sarà lui stesso a creare nuovi telai, più sofisticati e concentrati in opifici, dove avveniva tutta la lavorazione del tessuto, invitando i contadini-servi a lasciare per sempre il feudo e a trasferirsi in città lavorando come operai salariati giuridicamente liberi. I contadini devono arrivare a capire di poter ottenere una migliore condizione di vita abbandonando la terra e la casa in cui vivono, per trasformarsi in artigiani specializzati o in operai salariati di una manifattura urbana. Questo trasferimento di residenza e di sede lavorativa sarà decisivo per lo sviluppo del capitalismo, tant'è che un qualunque ritorno alla vita di campagna rappresenterà un sintomo di "regresso" (come quello che capiterà in Italia durante la Controriforma).

Questo per dire che non era assolutamente necessario, per la nascita del capitalismo, un fenomeno devastante come quello delle recinzioni praticate in Inghilterra nel XVI secolo, così ben descritto nel Capitale di Marx. In Italia le basi dell'accumulazione originaria del capitalismo sono di molto anteriori a quel secolo.

Ma che cos'era che poteva indurre il contadino servo a diventare operaio salariato giuridicamente libero? Doveva esserci un'idea a convincerlo, una specie d'illusione, di ideologia ingannevole. Questa ideologia poteva essere una sola, che nell'impero greco-romano non esisteva: il cristianesimo. Il capitalismo non può nascere senza cristianesimo, o comunque ha bisogno del cristianesimo, come legittimazione teorica, per svilupparsi materialmente. Certo il capitalismo può nascere anche da un evento drammatico, violento, come appunto quello delle enclosures inglesi, ma il modo più sicuro per affermarsi è quello indolore, quello ideologico. Tant'è che in Inghilterra, dopo quell'evento, si fu costretti a esportare le gravi contraddizioni del sistema verso le colonie e con una efferatezza inusitata. Peraltro le recinzioni furono la risposta a un capitalismo olandese già in atto, in cui il ruolo degli ebrei espulsi da Spagna e Portogallo fu enorme. Anzi, prima ancora, le Fiandre erano uno dei luoghi privilegiati, all'estero, degli affari dei mercanti italiani, proprio a motivo della loro particolare posizione geografica (esattamente come Bisanzio, le città anseatiche, ecc.).

Ora, com'è possibile che una religione così profondamente umanistica abbia potuto produrre o favorire la nascita di un sistema sociale così disumano? E per quale motivo ciò è avvenuto nell'Europa occidentale e non in quella orientale e neppure in quella bizantina? È impossibile capire le motivazioni più profonde che hanno fatto nascere il capitalismo se non si comprende l'evoluzione del cristianesimo, da quello cattolico-romano a quello protestante.

In Europa orientale il capitalismo inizia a svilupparsi quando i paesi della parte occidentale, impostisi a livello mondiale, prima col colonialismo, poi, a fine Ottocento, con l'imperialismo, erano in grado di condizionare pesantemente lo sviluppo economico dei paesi agrari est-europei. Molto probabilmente il passaggio dal feudalesimo di stato al capitalismo si sarebbe verificato anche nell'impero bizantino, già abituato da secoli ad ampi commerci, se esso non fosse stato conquistato da una popolazione, quella turca, la cui cultura era ancora molto feudale. L'impero ottomano abbracciò decisamente il capitalismo quando si trasformò in repubblica borghese sotto Mustafà Kemal (Atatürk).

Il capitalismo dell'Europa occidentale trovò la sua legittimazione teorica anzitutto nella teologia scolastica, la quale, riflettendo le ambiguità della pratica ecclesiastica (soprattutto nei suoi livelli dirigenziali), nettamente opposta ai valori umanistici che predicava, non poteva che fare progressive concessioni alla pratica borghese. Quando queste ambiguità diventano insostenibili, al punto da richiedere la trasformazione del cattolicesimo-romano in protestantesimo, ecco che il capitalismo diventa più radicale, più risoluto, si trasforma anche materialmente, sottraendosi ai controlli dell'etica e della politica (per quanto, nella loro fase iniziale, i protestanti dicessero di voler riportare il cristianesimo alla sua purezza originaria). Le motivazioni ideali sembravano tanto più forti quanto più si voleva affermare l'individualismo in campo economico.

Il cristianesimo in veste protestantica diventa più aggressivo e tende a dare molta più importanza al macchinismo. Ovviamente nelle colonie, esistendo terre sconfinate da sottrarre con la forza ai nativi, il macchinismo cominciò ad avere importanza solo verso la metà dell'Ottocento, quando ormai la conquista delle terre era stata compiuta. In ogni caso il capitalismo protestante, soprattutto quello calvinista, fosse esso sviluppato in Europa occidentale attraverso le aziende industriali o in America attraverso le piantagioni schiavili, aveva moralmente molti meno scrupoli del cattolicesimo nel perseguire i propri fini. E il capitalismo industrializzato, privo di qualunque religione, ne avrà ancora meno.

Oggi siamo arrivati al punto che lo sviluppo culturale dell'ateismo, generalmente associato allo sviluppo del socialismo, fa in realtà da supporto a un capitalismo molto avanzato, in cui addirittura gli elementi speculativi della finanza prevalgono su quelli produttivi dell'economia, mentre là, come in Cina, dove si vuole invece sviluppare una enorme produzione materiale dei beni, il diritto è totalmente subordinato alle esigenze del profitto, senza neppure aver bisogno di salvare le apparenze. D'altra parte in Cina l'ateismo non si è sviluppato ponendosi in contraddizione al formalismo della religione cristiana, ma come naturale prosecuzione di due filosofie di vita, la taoista e la confuciana, che nei confronti dei poteri costituiti han sempre manifestato una certa piaggeria.

In altre parole si è sviluppata in occidente una forma di ateismo che, invece di avere le caratteristiche positive di emancipazione dalla religione, ha le caratteristiche negative del cinismo e della corruzione più vergognosa, tant'è che con la religione può intrattenere rapporti affaristici di reciproco interesse. Questo a testimonianza che l'ateismo in sé non favorisce affatto la transizione politica ed economica al socialismo. Anzi, non è da escludere che, a fronte di un peggioramento della crisi del capitalismo, si formino nuove religioni. Cosa che invece non potrà accadere in Cina, in quanto il potere politico è esercitato in una maniera dittatoriale e la stragrande maggioranza degli abitanti non ritiene di dover usare la religione per opporvisi.

Ecco perché chi lavora per una transizione radicale al socialismo, deve preoccuparsi anche di dimostrare che il proprio ateismo è moralmente migliore di quello borghese e di qualunque fede religiosa.

II

Per uscire dal sistema in cui domina il valore di scambio è sufficiente convincersi di due cose: non è l'individuo che ha bisogno del mercato, ma il contrario; non è l'individuo che ha bisogno dello Stato, ma il contrario.

Stato e mercato sono tuttavia due realtà sociali: per poterle eliminare o ridurre al minimo o trasformarle radicalmente occorrono esperienze sociali. L'individuo, al di fuori di un collettivo di riferimento, cui organicamente appartiene, è solo un'astrazione.

Si tratta quindi di costruire una realtà sociale democratica, egualitaria, da opporre a due realtà sociali la cui democraticità è solo apparente. Nell'ambito dello Stato la democrazia è indicata dalle elezioni, con cui si scelgono i parlamentari (poi vi sono i referendum, quando si tratta di scegliere tra due opzioni).

Nell'ambito del mercato la democrazia sta nello scambio di equivalenti, nell'uso del denaro come mezzo astratto di scambio universale. Nessuno è obbligato ad andare a comprare merci, ma se non lo fa, non riesce a vivere. Come nello Stato comandano i poteri forti (politici, burocratici e militari), così nel mercato comandano i monopoli, gli speculatori, gli affaristi, i mercanti.

Non c'è mercato senza Stato, poiché questo garantisce la difesa dei produttori, che vivono sulle spalle dei soggetti deboli (i consumatori). Non c'è Stato senza mercato, poiché il mercato garantisce ricchezza, di cui una parte significativa, attraverso le tasse e il plusvalore estorto ai lavoratori, serve a mantenere le classi parassitarie (politici, burocrati e militari), le quali devono assicurare l'ordine a favore dei ceti possidenti.

Uscire dal sistema significa saper dimostrare a se stessi, organizzati in maniera collettiva, che si può fare a meno sia dello Stato che del mercato. I modi per dimostrarlo sono due: democrazia diretta e autoconsumo. Questi due aspetti vanno considerati preliminari a tutto, cioè a qualunque dibattito, a qualunque lettura e scrittura. Ed essi non possono in alcun modo svilupparsi nell'ambito del capitalismo. Mentre la trasformazione dello schiavo in colono è potuta avvenire nell'ambito dello schiavismo, e quella da colono o servo della gleba a operaio salariato è potuta avvenire nell'ambito del feudalesimo, quella da operaio produttore libero non può avvenire nell'ambito del capitalismo, se non come eccezione che conferma la regola: lo sfruttamento del lavoro altrui.

Questa regola è così tassativa, nel capitalismo, che anche lo stesso lavoratore diventa a sua volta, di necessità, uno sfruttatore del lavoro altrui: è sufficiente infatti che depositi i suoi risparmi in una banca o che riceva uno stipendio statale o che produca una merce per il mercato. Perché tutti i lavoratori siano liberi occorre uscire dal sistema. Nell'ambito del capitalismo non c'è nulla che possa anticipare qualcosa del socialismo democratico. Se lo si pensa è perché ingenuamente si crede di poter fare a meno della responsabilità di una rivoluzione: non sono pochi i soggetti pseudo-rivoluzionari che non vogliono combattere politicamente il sistema, ma limitarsi semplicemente ad attendere ch'esso imploda da solo, a causa delle proprie interne contraddizioni, com'è successo in Russia.

L'abbattimento del sistema è preliminare a qualunque altra cosa. Si può farlo attraverso la cultura - come voleva l'impostazione gramsciana -, o entrando direttamente in politica, ma l'obiettivo deve restare la conquista del potere per il rovesciamento del sistema. E non si può far questo come se fosse un semplice colpo di stato: occorre un'autentica rivoluzione di popolo. Sono due cose completamente diverse, l'una opposta all'altra. Se si tenta di creare delle "isole di socialismo", dove vige la democrazia diretta e l'autoconsumo, si ripeteranno gli stessi errori del "socialismo utopistico", i cui esperimenti alternativi sono stati tutti riassorbiti dal sistema.

Il sistema infatti ha il potere di condizionare in tutti i modi, materiali e culturali, l'intera vita sociale, e dispone inoltre della forza militare per porre fine, come e quando vuole, a ciò che può ostacolarlo democraticamente. Ecco perché bisogna convincersi che, in ultima istanza, il sistema può essere abbattuto solo con la forza, cioè con una rivoluzione politica, capace di usare gli stessi strumenti coercitivi del sistema per fronteggiare l'eventuale reazione violenta delle classi che non vogliono lasciarsi espropriare di nulla.

Solo quando la controrivoluzione ha avuto termine, si possono porre le basi della progressiva estinzione dello Stato, a favore della democrazia diretta, e, in virtù del primato del valore d'uso, si può pensare a una progressiva eliminazione del mercato basato sul primato del valore di scambio. Bisogna porre le comunità locali in condizioni di difendersi da sole da chiunque possa minacciarle di distruzione.

Che ci voglia una dura e lunga transizione dal capitalismo al socialismo democratico e autogestito, è pacifico. Il capitalismo non ha solo sconvolto tutti i rapporti umani, ma anche i rapporti con l'ambiente, e l'ha fatto in un periodo lunghissimo, praticamente millenario. L'importante però è aver chiaro che l'alternativa al capitale deve essere radicale: qualunque concessione venga fatta anche a uno solo degli aspetti del sistema da abbattere, andrà a influire su tutto il resto. Il fallimento del cosiddetto "socialismo reale", che pretendeva di poggiare su basi "scientifiche", è un esempio da tenere sempre presente.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019