ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


IL PLUSVALORE PROSSIMO VENTURO

Come noto il Capitale di Marx arrivò a dimostrare non solo che il plusvalore è lavoro non pagato (e che quindi è altra cosa rispetto al profitto), ma anche che esso esiste sempre là dove la proprietà dei mezzi produttivi è separata dal loro uso. È difficile dire, in tal senso, come avrebbe reagito Marx di fronte all'eventualità di un socialismo statale, in cui tutta la proprietà dei principali mezzi produttivi è statalizzata: in tal caso il plusvalore esiste o no? I fatti hanno dimostrato che nel cosiddetto "socialismo reale" esisteva ugualmente una forma di plusvalore. Era proprio lo Stato che lo estorceva. In quella situazione il plusvalore veniva prelevato con la forza politica dalla classe dirigente (la cosiddetta "nomenklatura"), che lo reimpiegava in attività militari, spionistiche, propagandistiche, ideologiche, ecc., oltre che nell'assicurare la gratuità o quasi dei servizi sociali.

Da quando la preistoria è finita, il plusvalore è sempre esistito, in una forma o nell'altra. Ci è letteralmente impossibile non sfruttare il lavoro altrui, stante la proprietà privata dei mezzi produttivi. Il plusvalore esisterebbe anche nel caso in cui il lavoro venisse svolto solo da macchine robotizzate. In tal caso potrebbe essere presente in due forme: nella redistribuzione del reddito, oppure nello sfruttamento della manodopera che ha prodotto (idealmente e materialmente) una determinata macchina. Cioè anche nel caso in cui non esistesse un operaio da sfruttare, dovrebbero però esistere, per far funzionare le macchine, l'ingegnere che le progetta e che periodicamente le rinnova, migliorandone l'efficienza, e il tecnico che le costruisce e che ripara gli eventuali guasti o che comunque ne cura la manutenzione. Queste due figure professionali, in una situazione di assenza di lavoro fisico tradizionale, materiale, diventerebbero enormemente importanti, al punto che i loro stipendi sarebbero per forza di cose inadeguati rispetto alla media statistica.

Resta comunque illusorio pensare che una qualunque macchina robotizzata non richieda, per funzionare al meglio, un costante controllo, una periodica manutenzione. Non sono mai esistite macchine autonome al 100% e mai esisteranno, o macchine che costruiscono altre macchine senza alcun intervento umano. Quindi se ci fosse una società completamente automatizzata, bisognerebbe verificare se la proprietà dei robot è privata o statale. Nel primo caso la redistribuzione del reddito sarebbe ingiusta per definizione; nel secondo caso lo diventerebbe col tempo, proprio perché, per non creare eccessivi dislivelli nella retribuzione salariale, si creerebbero delle ingiustizie nei confronti di quei lavoratori assolutamente fondamentali per tenere in piedi una società. E vi sarebbe ingiustizia anche nel caso in cui non vi fossero i salari o gli stipendi e neppure la moneta, ma solo il baratto o la distribuzione gratuita dei beni essenziali per vivere. Infatti chi svolge lavori assolutamente fondamentali, le cui competenze sono altamente specializzate, potrebbe facilmente avere la percezione di non essere abbastanza apprezzato o valorizzato, o potrebbe essere indotto a credere d'aver diritto a maggiori poteri o prerogative.

Il plusvalore è assente solo in un tipo di economia, quella basata sull'autoconsumo. Infatti anche se le macchine appartenessero a una collettività, come una proprietà di fatto e di diritto, sarebbe impossibile non chiedersi come vengono ripartiti i ricavi ottenuti dal loro uso, o il motivo per cui solo alcuni devono per forza sentirsi impegnati alla loro realizzazione, mentre altri sono liberi di fare ciò che vogliono.

Se gli ingegneri e i tecnici preposti alla realizzazione e al funzionamento di determinate macchine cominciassero a chiedere degli stipendi esorbitanti che, secondo loro, sarebbero in relazione all'importanza delle loro mansioni, davvero tutti sarebbero disposti a concederglieli? Anche supponendo che in presenza di una totale robotizzazione della produzione, il denaro fosse assente, inevitabilmente si riprodurrebbero le discriminazioni nella ripartizione degli utili ricavati da quelle macchine.

Gli utili infatti potrebbero essere non solo materiali ma anche morali o politici. Riconoscere a chi progetta o realizza robot una maggiore onorabilità o prestigio sociale sarebbe già una forma di discriminazione. Si verrebbe a creare una sorta di "aristocraticismo tecnologico". E all'interno della collettività qualcuno inevitabilmente comincerebbe a chiedersi il motivo per cui gli ingegneri e i tecnici fruiscono di una maggiore considerazione sociale quando sul piano etico sono come gli altri, anzi, proprio per il fatto che pretendono, a motivo delle loro specifiche competenze, di essere considerati migliori degli altri, non fanno altro che dimostrare la loro pochezza morale. Solo perché permettono alla collettività di ottenere un certo benessere materiale, devono essere considerati un esempio morale da imitare? Chi accetterebbe d'essere considerato moralmente indegno solo perché, sapendo che ai suoi bisogni primari ci pensano le macchine, preferisce dedicarsi soltanto all'arte o allo sport o alla lettura?

Qui bisogna ribadire con forza un principio molto elementare: tutti devono saper fare tutto. Almeno virtualmente. Le differenze possono essere solo di tipo quantitativo, p.es. nell'intensità o nella frequenza o nel grado, ma non nella qualità. Per assicurare l'uguaglianza sociale, non possono esistere specializzazioni di sorta. Qualunque attività lavorativa si compia deve poter essere acquisita in un tempo relativamente breve da chiunque vi si impegni. Non possono esistere attività per il cui svolgimento sia molto difficile trovare chi è in grado di compierle. Nessuno va considerato insostituibile.

Sul nostro pianeta le condizioni di vivibilità dell'essere umano, quelle che non gli fanno perdere la propria umanità, sono determinate dalla natura. Il fatto che noi, attraverso la scienza e la tecnica, si sia imposto alla natura un processo di forte antropizzazione, non può essere considerato positivamente, e sarà la natura stessa che s'incaricherà di dimostrarcelo. Cioè il fatto che l'uomo avverta dentro di sé che, con la propria intelligenza, può andare oltre i limiti che la natura gli impone, non significa che sia autorizzato a superarli. L'uomo deve sempre chiedersi, prima di agire in questa maniera, quali possano essere le ricadute sull'ambiente. Se non è in grado d'individuare in anticipo tali ricadute, significa che ha smesso di conoscere i ritmi o i cicli autoriproduttivi della stessa natura. Se pensa che questi ritmi siano quelli ch'egli stesso vuole imporre, in forza della propria scienza, inevitabilmente arriverà, prima o poi, ad accorgersi del proprio errore.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019