ECONOMIA E SOCIETA' |
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PENSIERO ECONOMICO, MARXISMO E LOTTA DI CLASSE
1. Introduzione Di solito le discipline scientifiche sono divise in due grandi branche: le scienze naturali e quelle sociali, intendendo con le seconde quelle che si occupano della società. I teorici borghesi sono stati divisi, nell’ultimo secolo, sulla questione dell’unicità o meno del metodo, se cioè nelle scienze sociali ci volesse un altro metodo rispetto a quelle naturali o meno. Durante tutto lo scorso secolo e anche in questo si è comunque vista una generale dipendenza nello sviluppo delle scienze sociali da quelle naturali. Gli scienziati sociali hanno imitato e anche scimmiottato i fisici, i biologi, ecc. Tutto questo non è certamente un caso. Questo imitare le scienze naturali nasconde un preciso scopo: eliminare la lotta di classe dalla scienza. Per Marx la lotta di classe è il motore della storia dell’umanità in quanto riassume in sé la contraddizione tra lo sviluppo incessante delle forze produttive e il progressivo rimanere indietro dei rapporti di produzione. Così vediamo i passi avanti meravigliosi del progresso tecnologico in questi ultimi cinquant’anni, mortificato però dal suo utilizzo borghese, dal fatto che in questa società la tecnologia, come la stessa classe operaia, è solo un mezzo per produrre i profitti dei capitalisti. Questa contraddizione tra enorme sviluppo tecnologico e rapporti di produzione che restano capitalistici, sarà rotta dalla rivoluzione socialista che permetterà alla scienza e alla tecnologia sviluppi giganteschi e finalmente a vantaggio di tutta l’umanità. 2. L’economia Ma torniamo all’osservazione iniziale: gli scienziati borghesi vorrebbero che le scienze sociali fossero come quelle naturali. Tuttavia gli argomenti da trattare non sono affatto simili, soprattutto hanno questa bella differenza: nessun elettrone cambierà mai traiettoria venendo a sapere della meccanica quantistica, il ferro non si fonderà prima studiando un trattato di mineralogia. Viceversa la società è composta da classi e da individui che possono studiare il funzionamento della società e agire di conseguenza. Agire di conseguenza non significa ovviamente che possono fare quello che vogliono. Questa è l’altra classica esagerazione del pensiero borghese: nella società non esisterebbero leggi, ci sarebbe il “libero arbitrio”, ognuno vive come vuole. Il marxismo riesce a evitare questo falso dilemma tra determinismo meccanico e idealismo anarchico nella misura in cui spiega le cause del divenire: nelle parole di Engels “la libertà è una necessità di cui si è coscienti”. Quindi l’uomo ha sì la possibilità di agire liberamente, ma sfruttando il funzionamento del mondo oggettivo in cui vive. Marx prima e i marxisti poi hanno analizzato a fondo il processo che conduce dalla realtà esterna all’elaborazione di conoscenze nell’uomo. Non è questo il posto per una tale analisi, ricordiamo solo che il fondamento di questa analisi è che le condizioni materiali determinano la coscienza sociale e cioè le teorie scientifiche, politiche, sociali, la cultura, l’arte di una certa epoca sono il riflesso sociale, non meccanico ma comunque determinato, della società che le produce e delle lotte sociali di questa società. La classe che domina la società impone le proprie idee e le proprie teorie. Scrivono Marx ed Engels: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante”[1] Nelle scienze sociali della nostra epoca questo si traduce così: le teorie economiche e sociali sono le teorie della borghesia, la quale essendo diventata un freno all’ulteriore sviluppo della società, non può che riflettere questo suo carattere oggettivamente reazionario in idee e teorie reazionarie e irrealistiche. 3. Gli albori dell’economia politica Marx definisce “classica” l’economia politica opera degli autori che analizzarono il capitalismo dal suo sorgere fino all’inizio dell’Ottocento. Petty, i fisiocratici, Smith e Ricardo furono degli studiosi brillanti e originali. Con loro la scienza economica fece passi avanti notevoli. Certo, non furono mai dei progressisti, in quanto per lo più erano borghesi loro stessi. Ma la loro analisi poteva essere onesta perché la propria classe stava trasformando in meglio l’umanità. La lotta per il libero scambio di Ricardo, la lotta per un sistema fiscale razionale di Quesnay, le proposte degli economisti illuministi in Italia, erano lotte contro gli avanzi teorici del vecchio mondo, contro i difensori dell’aristocrazia, i reazionari incalliti che non si decidevano a capire che il feudalesimo era finito e una nuova epoca si apriva di fronte all’uomo. Come borghesi, i primi economisti si ponevano problemi concreti in modo serio e spesso fornendo risposte ancora oggi apprezzabili. Non dimentichiamo per esempio che Marx fece propria la lotta per il libero scambio, anche se con motivazioni ovviamente diverse da quelle dei liberali. All’inizio del XIX secolo la classe operaia moderna era appena nata e spesso conservava la coscienza dei propri padri contadini o artigiani. Inoltre non aveva nessuna esperienza di lotta sindacale. Tutto ciò si rifletteva in una dispersione del proletariato e nella possibilità dei capitalisti di sfruttare orribilmente gli operai. I salari erano appena sufficienti a vivere come e peggio di animali. Questa realtà si rifletteva a sua volta nella teoria di Smith e Ricardo che realisticamente ponevano il salario come il minimo per sopravvivere e perciò come un limite inferiore invalicabile, pena la morte della preziosa forza-lavoro. Inutile dire però che un rialzo del salario veniva ritenuta una cosa nociva alla “nazione” perché avrebbe compresso i profitti e perciò l’accumulazione di capitale, lo sviluppo. In ogni epoca i teorici della classe dominante hanno difeso la propria classe sostenendo che i suoi interessi corrispondevano agli interessi di tutta la società, e almeno quando questa classe faceva crescere le forze produttive questa pretesa aveva una base reale. Comunque già il fatto di porre salario e profitti come inversamente proporzionali significava una certa onestà intellettuale che gli scienziati sociali in seguito perderanno. Per gli economisti classici era un’ovvietà che l’economia fosse l’analisi del capitalismo, delle sue leggi, del lavoro salariato, dell’accumulazione di capitale. Insomma come rappresentanti di una classe che faceva progredire l’umanità, anche se a spese del proletariato, studiosi come Smith e Ricardo, potevano permettersi una analisi spregiudicata e onesta della realtà. Non bisogna credere che a quei tempi tutti gli scienziati fossero così relativamente sinceri. Ci sono sempre stati gli apologeti a pagamento, i servi della classe dominante, quelli che Marx definiva “economisti volgari”, dei pennivendoli che lui si limitava a deridere senza perderci tempo, ma essi erano una minoranza marginale. Tuttavia la situazione cambiò rapidamente nel corso degli anni venti e trenta del secolo scorso. 4. Le prime lotte operaie pongono fine all’economia come scienza Anche se gli operai di allora erano facilmente ricattabili, le condizioni bestiali di vita li costrinsero a unirsi per lottare. Nel VIII capitolo del Capitale Marx mostra le loro condizioni di vita e di lavoro. Giornate lavorative di dodici e quattordici ore erano la norma anche per le donne e i bambini. “Il capitale celebrava le sue orge” come scrisse. La cosa interessante è che nello stesso periodo il parlamento inglese proibiva di far lavorare gli schiavi nelle colonie per più di 45 ore mentre tollerava una settimana lavorativa di oltre settanta ore in patria per bambini dodicenni. Il lavoro salariato permetteva ai capitalisti un enorme incremento nell’accumulazione del capitale, e, per inciso, questa è la vera ragione per cui la schiavitù cominciò a declinare negli Usa e per questo venne combattuta la guerra civile, non per i principi morali dell’uguaglianza. In Gran Bretagna nacquero dunque i primi sindacati. Prima, a livello di singola fabbrica e città, poi a livello nazionale. Nel 1799 il governo britannico approvò le leggi antioperaie (combinations acts) e i sindacati vennero dichiarati illegali, gli attivisti condannati e uccisi. Questo regno del terrore antisindacale durò per 25 anni. Ma alla fine la forza della classe operaia si dimostrò maggiore della repressione. Nel decennio 1812-1822 si susseguirono scioperi e repressione fino al “massacro di Peterloo” quando in un paesino, St. Peter Fields, la cavalleria caricò un corteo operaio facendo 11 morti e centinaia di feriti. La borghesia inglese si rese però conto che la guerra civile era dannosa e favoriva l’organizzazione degli operai e iniziò a concedere qualcosa. L’ondata di scioperi negli anni venti condusse alla creazione della prima confederazione sindacale della storia, la National Association for the Protection of Labour, di ispirazione owenista, che arrivò a contare oltre 100mila membri. L’esplosione della lotta di classe nei primi decenni del secolo terrorizzò la borghesia. Lo stato britannico impiegò più soldati per reprimere la propria classe operaia che per combattere Napoleone. Soltanto che questo fu sconfitto per sempre, la classe operaia invece si risollevò con ancora più vigore nel movimento cartista degli anni quaranta. La conseguenza di tutto questo è facilmente intuibile: i teorici della borghesia, vedendo la realtà tingersi di rosso, per il sangue dei conflitti sociali e per le bandiere del movimento operaio, rinunciarono per sempre a un’analisi della società. Da allora l’economia, in tutte le varie fasi attraversate, è diventata sempre più l’insieme dei pregiudizi borghesi, delle velleità dei capitalisti, dei sogni dei ricchi, delle manie dei liberali. Tutto meno che un’analisi delle leggi che regolano il divenire della società. In questo secolo e mezzo ci sono state poche eccezioni e comunque anche gli economisti che in qualche modo hanno tentato una sterzata verso la realtà sono rimasti legati più o meno strettamente all’ortodossia liberale che si può condensare nella famosa frase di Marx “così c’è stata storia ma ormai non ce n’è più”. 5. Dall’economia politica classica alla nascita dell’economia “neoclassica” Lasciamo la parola a Marx per capire questo processo: “Col 1830 subentrò la crisi che decise una volta per tutte. La borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta tra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta suonò la campana a morto. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica”[2] e questo processo proseguì: “La rivoluzione continentale del 1848 ebbe il suo contraccolpo anche in Inghilterra. Uomini che ancora rivendicavano valore scientifico e volevano essere qualcosa di più di meri sofisti o sicofanti delle classi dominanti, cercarono di mettere l’economia politica del capitale d’accordo con le rivendicazioni del proletariato, che ormai non potevano essere ignorate più a lungo. Di qui un sincretismo esanime, come è rappresentato, meglio che da altri, da John Stuart Mill. E' quella dichiarazione di fallimento dell’economia “borghese” (…)” Questo processo, magistralmente analizzato da Marx, avvenne in modo ancora più vergognoso nei paesi in cui la borghesia aveva preso il potere quando già era sorto e si stava organizzando un forte proletariato, come in Germania. Gli economisti, costretti dalla lotta di classe a constatare che gli interessi della loro classe non erano quelli di tutta la società e nemmeno della maggior parte, si ritirarono in una società fatta a loro uso e consumo. All’inizio, ai tempi del “sincretismo esanime" di cui parla Marx gli studiosi meno reazionari, come Mill, erano inclini a consigliare agli operai moderazione, riflessione, e soprattutto di fare pochi figli per avere meno operai in futuro e dunque salari più alti… Ma ben presto la lotta di classe raggiunse punte estreme, fino a quando la Comune di Parigi presentò a questi signori il raccapricciante spettacolo del proletariato al potere, se pur per un breve periodo. La Comune sorse e morì nel 1871. Nel decennio successivo ogni residuo dell’economia politica classica venne cancellato e nacque una scuola detta “neoclassica” del tutto differente dalla precedente. 6. Rovistando nella pattumiera della storia Marx passò la sua vita a studiare le condizioni della classe operaia inglese e mondiale e lo sviluppo del capitalismo. Studiò anche il pensiero economico a lui precedente, molto meno quello contemporaneo che già si andava facendo pura apologetica. Quando uscì il Capitale, tre anni dopo la fondazione della prima organizzazione operaia internazionale, gli economisti “di professione” si trovarono di fronte una teoria eccellente in difesa del proletariato. Non si trattava più di un opuscolo socialista magari pieno di ingenuità, di pregiudizi, ma di un metodo e una teoria organica che spiegava la lotta di classe ad opera di un “economista” che partecipava alla lotta di classe ma dalla parte “sbagliata”! I teorici borghesi dell’epoca anche, se a tentoni, stavano cercando una teoria alternativa a quella classica, ma non vedevano ancora le conseguenze negative del pensiero classico. Il Capitale fu decisivo. Da allora fu chiaro che l’erede scientificamente legittimo dell’economia politica classica era il movimento operaio incarnato dal suo più grande teorico, Marx. La sua “critica dell’economia politica” (che è il sottotitolo del Capitale) prendeva il meglio del pensiero economico degli ultimi due secoli e lo ritorceva in modo coerente e organico contro la classe dominante. Un vero incubo. Più o meno successe lo stesso in campo filosofico con la dialettica hegeliana utilizzata da Marx ed Engels contro la classe che lo stesso Hegel aveva difeso in vita. Non per niente Engels sostenne che il proletariato tedesco era il vero erede della filosofia classica germanica. Lo stesso si può dire degli operai inglesi rispetto all’economia politica classica. A questo punto gli economisti si trovavano di fronte questa situazione: la teoria fino ad allora dominante era in crisi sia perché la sua spregiudicatezza era di per sé pericolosa nel nuovo contesto sociale, sia perché il principale teorico del movimento operaio, partendo da essa, era arrivato a spiegare la necessità di abbattere il capitalismo. Occorreva attaccare Marx, ma questo voleva dire rigettare anche tutta la scienza borghese seria dell’ultimo secolo. E così fu. Entro la fine del XIX secolo nei tre principali paesi capitalisti, Inghilterra, Germania e Francia e poi anche altrove, gli economisti elaborarono una nuova teoria su basi radicalmente nuove. Quella teoria domina, tra alti e bassi, ancora oggi. Quali furono le basi teoriche della nuova scuola? Può sembrare un argomento poco importante, visto che si tratta in fondo di pura apologetica. Ma per il marxismo anche la teoria più irreale, più assurda e fuori dal mondo riflette, in un certo modo, la società che la produce. E' dunque interessante fare un breve resoconto di questo aborto scientifico. Nella seconda parte abbozzeremo una ipotesi più generale su cosa rappresenti la teoria neoclassica. Abbiamo parlato di “pattumiera della storia” perché la nuova scuola non aveva in realtà niente di nuovo. L’utilitarismo era nato nel Settecento, e nell’Ottocento economisti francesi e tedeschi avevano anticipato praticamente tutte le “scoperte” dei neoclassici durante tutto il periodo che va dal 1870 a oggi. Un solo episodio rivela questa realtà: nel 1854 un libro dell’economista Gossen, che anticipava buona parte della rivoluzione neoclassica, era stato un completo fallimento editoriale. Gossen morì nel 1858 sconosciuto. Ma, un trentennio dopo, un sagace editore di Berlino ristampò il libro con una nuova data, 1889, fu un successo strepitoso. Nessuna idea che l’economia borghese ha prodotto nell’ultimo secolo rappresenta un passo avanti della conoscenza. Certo ci sono stati moltissimi studi settoriali, una raccolta di dati massiccia, ma l’analisi di questi dati è sempre stata pessima, oltre che ovviamente pura esegesi di classe. Hanno rovistato nella pattumiera della storia e delle teorie per trovare l’arma più utile per non irritare la classe dominante, un misto di sogni borghesi e astrazioni matematiche. 7. Il filo rosso dell’utilitarismo Ai tempi dell’economia politica classica il fulcro dell’analisi economica, come detto, era la società capitalistica e come essa distribuiva le proprie risorse tra le classi. Molti degli economisti classici erano, in filosofia, utilitaristi. James Mill, padre di John Stuart Mill, Mandeville e altri erano stati tra i fondatori di questa scuola filosofica che rappresenta il distillato del pensiero borghese: individualismo, egoismo, mano libera con la forza-lavoro, ma che almeno ai suoi inizi aveva anche una carica progressista dirompente. Per l’utilitarismo l’uomo è come un calcolatore razionale del piacere e del dolore e persegue la propria utilità personale. Facendo i propri affari aiuta tutta la società a progredire. Questa filosofia era sottintesa a molta parte dell’economia classica ma non pregiudicava la sua capacità analitica. Tra quelli che Marx chiamava “economisti volgari”, cioè puri apologeti, c’erano utilitaristi che partendo da questa filosofia rifiutavano le analisi di Smith e Ricardo e proponevano una scienza dell’armonia, senza classi, senza riferimenti alla società storicamente contingente. Prima della “svolta” degli anni trenta questi rimasero ai margini della vita scientifica. Nel corso del secolo iniziarono ad acquisire sempre più peso, nella misura in cui la scuola classica doveva entrare in crisi. A metà del secolo in Germania i teorici dell’utilità marginale, cioè dell’utilitarismo applicato all’economia (un bene dà un beneficio minore quanto più se ne usa) iniziarono a conquistare le università. All’inizio degli anni settanta uscirono i libri dei tre fondatori delle scuole nazionali della teoria neoclassica Walras (Francia), Menger (Germania) e Jevons (Inghilterra). In dieci anni la nuova teoria aveva preso il sopravvento. Dicevamo dell’utilitarismo: questa scuola estremizzò l’approccio utilitarista, per loro il comportamento umano era un mero calcolo razionale teso a massimizzare l’utilità. Non si doveva ricorrere al concetto di classe nell’analisi, qualsiasi concetto collettivo andava negato. Esistevano solo gli individui razionali senza collegamento a una società in particolare, l’analisi doveva trovare teoria adatte a tutte le società, a ogni luogo. L’economista Robbins nel 1932 riassunse il tutto definendo l’economia: “la scienza che studia il comportamento umano come una relazione tra scopi - classificabili in ordine di importanza - e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi”. Come si vede qui il capitalismo è scomparso, la lotta di classe lo stesso, ma anche qualsiasi altro carattere concreto di questa società è annegato in una definizione così generica che potrebbe essere considerata l’attività di un medico, di un biologo, di uno psicologo o di uno statistico. Come dicevamo, è interessante analizzare, anche se in breve, in che modo l’economia neoclassica riflette, pur non volendo, le condizioni reali di questa società. Già Marx aveva spiegato che è nel processo produttivo che il capitalista fa i profitti appropriandosi di lavoro non pagato alla classe operaia. Sul mercato si scambiano sempre equivalenti: a essere semplici compratori o venditori non si guadagna nulla. Inoltre è nel processo produttivo che nascono le contraddizioni di classe: i rapporti di produzione sono appunto rapporti determinati di come le classi si dividono i compiti sociali di produrre quanto occorre alla società (nel caso del capitalismo i capitalisti dirigono il processo produttivo a loro vantaggio). Il modo di produzione determina il modo di scambio. Il mercato, come luogo dove si scambiano le merci, è il luogo dove la realtà è rovesciata per eccellenza. Dietro al compratore si nasconde il proprietario di mezzi di produzione? Ma il mercato è anonimo. Dietro al venditore si nasconde l’operaio che deve lavorare nella fabbrica del padrone per vivere? Al mercato non interessa. Sul mercato siamo tutti uguali: “La sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita della forza-lavoro era in realtà un vero Eden dei diritti innati dell’uomo. Qui regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham”[3]. Come già aveva capito Marx, gli economisti borghesi, utilitaristi in testa (Bentham è il fondatore dell’utilitarismo) hanno un mezzo molto semplice per capovolgere la realtà e nascondere la lotta di classe, lo sfruttamento degli operai, l’inevitabile fine del capitalismo per mezzo della rivoluzione: parlano della circolazione delle merci, del mercato. Sul mercato si scambiano i beni. Contano i valori d’uso del bene, conta la loro utilità. Sul mercato non esistono classi, non esiste sviluppo economico, non esiste sfruttamento, non esiste progresso tecnologico, non esiste neanche la politica, solo atomi razionali che vendono e comprano. Lo sviluppo della teoria neoclassica ha seguito quella frase: via la produzione, via le classi e il gioco è fatto. Nel trentennio finale del secolo scorso si andavano formando i trust, i monopoli prendevano il posto dei singoli capitalisti, gli operai si concentravano in enormi fabbriche, in una parola nasceva la fase imperialistica del capitalismo, un periodo a cui i migliori dirigenti rivoluzionari e teorici marxisti dedicarono le proprie capacità analitiche (si pensi ai libri sull’imperialismo di Lenin e Bucharin, L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg, ecc.). Niente di questa realtà entrò nella teoria, che invece si rifaceva a un capitalismo atomistico preottocentesco. Ma il suo fine era comunque non rifarsi a nessuna epoca in particolare. Per loro si potevano trovare le stesse leggi per il medioevo, lo schiavismo, il capitalismo: uomini razionali che massimizzano il proprio piacere. In un suo famoso scritto Bucharin interpretò questo come il riflesso di quella classe di rentier ormai neanche più imprenditori, ma semplici tagliatori di cedole di azioni e definì la scuola neoclassica “l’economia politica del rentier”. In parte aveva ragione, ma comunque essa rispondeva alle esigenze di tutta la borghesia: annichilire qualsiasi tentativo di studio della società capitalista in decadenza. 8. Conseguenze della nuova teoria Spesso gli scienziati non sono neanche abbastanza intelligenti da capire le implicazioni politiche delle proprie teorie, altre volte pensano seriamente che la teoria che presentano agli uomini comuni sia nata nella loro testa come parto spontaneo, anziché come riflesso della realtà che li circonda. Non è questo il caso degli economisti. Questa particolare setta di apologeti del capitale è sempre stata la punta di diamante della reazione intellettuale. In ogni epoca, per vedere fin dove possa spingersi la prostituzione e la disonestà intellettuale, basta studiare i libri di economia più di moda (quelli diciamo “ortodossi”). In tutte le epoche questi signori hanno sempre saputo bene qual era il loro compito. Quando uscì il Capitale lo passarono assolutamente sotto silenzio finché poterono; poi fu un diluvio di critiche di ogni tipo. Qualsiasi professore di economia anche il più scadente, si sentiva in dovere di “distruggere” Il Capitale senza averlo quasi mai letto e non avendolo affatto capito. La generazione che fece la svolta non era meno cosciente del proprio ruolo sociale. La dimostrazione più stupefacente di questo è che per la prima e forse unica volta nella storia venne cambiato nome a una scienza per ragioni politiche. La scienza si era sempre chiamata “economia politica”. Ma poiché “politica” implicava ormai scienza di una classe, si decise di passare al serio e scientifico nome di economics (in italiano tradotto con “economica”). I tre capistipite gettarono in pasto ai benpensanti proprio la teoria adatta, quella che stornava l’analisi dai problemi spiacevoli della lotta di classe. Jevons scrisse: “Il supposto conflitto fra lavoro e capitale è un’illusione”[4] e ancora “Non dobbiamo guardare a tali questioni da un punto di vista di classe, in economia dobbiamo considerare tutti gli uomini come fratelli”[5] Non tutti gli economisti ovviamente avevano le stesse idee politiche. Nella scuola neoclassica ci sono stati fautori del fascismo, (l’italiano Pareto per esempio), ma anche moderati e perfino fautori di proposte che adesso sembrerebbero rivoluzionarie se confrontate con quasi tutti i programmi dei partiti socialisti. Uno di questi moderati riformisti era Walras altro fondatore della scuola, favorevole all’intervento statale, e che si definiva addirittura un socialista scientifico. Tuttavia anche lui non era certo estraneo alle ragioni per cui si stava “facendo scienza” in quel modo. In una lettera che il padre di Walras indirizza al figlio il 6 febbraio 1859 gli scrive: “Una cosa che trovo perfettamente soddisfacente nel piano del tuo lavoro, è la tua intenzione - che approvo sotto ogni punto di vista - di tenerti nei limiti più inoffensivi rispetto ai signori proprietari. Bisogna dedicarsi all’economia politica come ci si dedicherebbe all’acustica o alla meccanica” Questa è l’oggettività della scienza borghese giunta al suo punto di svolta. In seguito l’unica cosa che migliorò fu la trattazione formale dei problemi irrealistici e fantasiosi di sempre. Di fatto gli economisti migliori erano matematici prestati all’economia. La formalizzazione matematica serviva a non parlare dei problemi seri. La teoria economica andò staccandosi sempre più dalla realtà. Non interessa in questa sede analizzare tutte le scuole, ormai numerosissime, che nel corso di questo secolo si sono succedute in questa “scienza”. Tranne pochi eretici isolati, gli economisti hanno compattamente e penosamente difeso la classe dominante. Facendo questo sono sì stati inoffensivi ai “signori proprietari”, come raccomandava Auguste Walras a suo figlio, ma anche inutili. La teoria economica è tanto poco legata alla realtà che tutti gli studi concreti sulla situazione economica, sulla gestione dell’impresa capitalistica, sul sistema finanziario, sull’economia dell’innovazione, sui problemi dello sviluppo economico ecc., devono per forza di cose rifiutare la teoria ortodossa nella pratica. Di solito gli autori che sono costretti a trattare un problema concreto, come la tassazione o gli investimenti, fanno un omaggio rituale di qualche pagina alla teoria ortodossa, poi se la dimenticano e parlano di cose più o meno vere ma comunque concrete. I capitalisti così si ritrovano una teoria che è più distante da questa Terra del mondo di Peter Pan, e tante sottosezioni dell’economia che procedono per conto loro, spesso costrette a riprendere inconsapevolmente concetti di Marx o dell’economia politica classica, procedendo in modo eclettico e confuso. Comunque è una curiosa coincidenza che questa teoria neoclassica, pur così astratta, pur volendo dimenticarsi delle classi e del capitalismo, propone sempre ricette di politica economica perfettamente in linea con gli interessi di classe dei capitalisti. Tutte le pagine di formule matematiche che riempiono i libri di economia, tutti i loro difficili e futili teoremi servono solo a dimostrare che, guarda caso, il lavoro costa troppo, ci vuole flessibilità, libertà di licenziare e così via. Le estreme conseguenze di questa incredibile situazione per cui nel secolo più pieno di passi avanti scientifici per la nostra specie, il secolo nel quale sono vissuti almeno tre quarti degli scienziati di tutti i tempi, l’economia, che dovrebbe essere la scienza regina, quella più utile a capire la realtà, è stata costretta a volare così lontano da questo pianeta è che oggi spesso i dirigenti delle multinazionali consultano degli astrologi insieme o al posto degli economisti per avere delle buone previsioni economiche. Funzionano meglio! Indubbiamente un bravo astrologo, se ha contatti con altri uomini, ne saprà di più sul capitalismo dei professori “neoclassici” che riempiono le università di tutto il mondo. 9. Un’eccezione Questa breve analisi dello sviluppo della teoria economica ha cercato di mostrare la tendenza fondamentale dell’economia, che nasce come serio tentativo di capire il processo produttivo capitalistico e finisce come giustificazione, sotto forma di equazioni e grafici, di un sistema ormai superato. Si potrebbero comunque trovare delle eccezioni a questa tendenza fondamentale. La più importante, e l’unica che vale la pena analizzare qui, è quella costituita da Keynes. Quando nel 1929 scoppiò la grande crisi, gli economisti non sapevano che pesci prendere. La teoria non prevedeva crisi del genere e non si sapeva che consigli dare. L’ortodossia di allora vietava la spesa pubblica come fonte di sviluppo, si predicava invece il bilancio in pareggio. Gli investimenti pubblici, si diceva, in quanto fatti con soldi presi ai privati, non aiutano l’economia nel suo complesso ma “spiazzano” semplicemente gli investimenti privati. Keynes fece notare che questo è vero solo se i privati stanno investendo! Se i capitalisti, non vedendo sbocchi produttivi per i propri investimenti, mantengono i propri capitali inattivi o li usano a fini speculativi, lo stato può avere un ruolo propulsivo sostituendosi a loro. Da principio le proposte di politica economica di Keynes, sebbene non ortodosse, non costituivano una rottura completa con la scienza ufficiale né avevano un carattere organico, erano piuttosto un’ipotesi per uscire dalla profonda crisi del sistema a livello mondiale. Negli anni successivi, Keynes giunse a fondare una teoria radicalmente nuova in cui si dava allo stato un ruolo permanente. La teoria si può sintetizzare nelle due proposte fondamentali: la socializzazione degli investimenti (lo stato come principale capitalista) e l’eutanasia del rentier (lo spostamento forzato di risorse dai settori parassitari della rendita finanziaria ai settori produttivi). Queste proposte erano indubbiamente radicali ed erano il risultato di un periodo particolarmente disastroso per il capitalismo. Con la seconda guerra mondiale e soprattutto il boom postbellico il capitalismo si risollevò. La politica economica difesa dai keynesiani però, si manteneva almeno in parte. Nei paesi occidentali lo stato divenne il più grande capitalista, sostituendosi spesso alla borghesia “privata”. Il fatto che nel periodo di massima crescita economica della storia, la borghesia dovesse ricorrere ciononostante allo stato-imprenditore per far funzionare il sistema è un sintomo della crisi irreversibile, del declino epocale del sistema capitalistico. In questo senso la teoria di Keynes rompe con la tendenza all’irrealismo e riflette i veri problemi della società presente. Per una volta le difficoltà erano maggiori dei rischi e gli apologeti vennero marginalizzati. Comunque, sebbene rimanesse la strutturalità dell’intervento statale nell’economia, la carica radicale del keynesismo venne pian piano eliminata. Come Cincinnato, che dopo aver sconfitto i barbari tornò a zappare l’orto, Keynes e la sua teoria vennero gradualmente rispediti nel limbo. La gradualità del processo divenne una brusca rottura quando, negli anni settanta, finì il periodo di crescita economica. Con la crisi del ‘73 e l’esplosione dell’inflazione, le politiche keynesiane rivelarono la loro debolezza intrinseca, il loro basarsi su presupposti ormai scomparsi. Lo stato spendeva soldi che non rappresentavano più nulla, di qui l’inflazione e il deficit. La quantità di moneta in circolazione non può avere un valore maggiore dell’ammontare complessivo di merci che essa rappresenta. Se in un teatro ci sono 1000 posti, non si potranno vendere più di 1000 biglietti. Se se ne producono il doppio, ci saranno metà dei biglietti che non valgono nulla, o, detto altrimenti, tutti i biglietti varranno mezzo posto anziché un posto intero. Lo stesso vale per la moneta. Lo stato-imprenditore poteva drenare risorse dai privati in un periodo in cui c’era una forte crescita economica. Quando questa finì, scoppiò il problema dei deficit statali, ai quali si cercò di rispondere stampando moneta o emettendo titoli pubblici. Dopo venti anni l’inflazione è stata messa sotto controllo, ma i debiti pubblici sono esplosi. Ma c’era anche un’altra causa per l’inflazione: la sovraccumulazione di capitale. I 25 anni di crescita avevano condotto a una immane accumulazione del capitale che ora non trovava impiego in settori produttivi e si riversava quindi nei mercati finanziari. Lo stesso processo si vede anche ora: scambi sui mercati finanziari che superano di venti volte gli scambi di merci reali. Come sempre, questa massa di capitale fittizio viene alla fine bruciata in qualche modo. Tutti questi problemi costrinsero a una brusca svolta la scienza economica. E come avrebbe detto Hegel, la negazione del liberismo ad opera di Keynes venne a sua volta negata dal ritorno del monetarismo e delle politiche liberiste. Di nuovo, le necessità del capitalismo decisero le sorti delle diverse teorie economiche. Friedman venne esaltato e Keynes buttato giù dalla torre. E' interessante notare che Friedman e il monetarismo proponevano le proprie ricette già negli anni cinquanta, ma con molto più scarso successo. Dopo gli anni settanta, si sono succedute altre scuole, ancora più liberiste e antinterventiste del monetarismo (aspettative razionali ecc.). Nonostante la loro astrattezza raggiunga livelli tra il comico e il demenziale (modelli in cui esiste una sola persona, modelli in cui si vive all’infinito ecc.), tutta la teoria riesce alla fine, facendosi largo tra funzioni e matrici, a giustificare i tagli allo stato sociale, la riduzione dei salari, la distruzione del livello di vita delle masse. Il paradosso diviene ancora più acuto che in passato: il completo irrealismo delle ipotesi, per quanto in ogni altra scienza farebbe inorridire, serve al suo scopo in modo impeccabile, giustifica le esigenze della classe dominante. Lo sviluppo della scienza economica è legato allo sviluppo sociale. Tolte alcune soluzioni tecniche, a volte brillanti, l’economia ristagna da 150 anni. Solo una trasformazione sociale potrà darle l’impulso per dei colossali avanzamenti scientifici. La teoria soggettiva del valore: il suo ruolo sociale e le determinanti della sua forma 1. Teorie di classe Se le teorie riflettono la realtà, ci si potrebbe domandare se una teoria possa mai essere falsa, scorretta o inadeguata. Il punto è però che non c’è nessun metodo per sapere, in generale, come la teoria riflette la realtà. Se pensiamo che il modo con cui la teoria riflette è una conseguenza del suo ruolo sociale, dobbiamo analizzare anche la gnoseologia come parte delle scienze sociali. Scopriremo così che una stessa realtà può modellare teorie molto diverse pure tutte quante sue rappresentazioni. In molte scienze naturali, dove l’oggetto di studio appare lontano e totalmente slegato dall’osservatore, sembrerebbe assurda l’idea che due teorie, per giunta antitetiche, rappresentino “bene” una stessa realtà. Lo sviluppo scientifico ha, comunque, dovuto accettare anche questo: per esempio la luce, per i fisici ottici moderni, si comporta nello stesso momento come un insieme di particelle e come un’onda. Ha cioè comportamenti antitetici nello stesso istante, è insieme A e non-A. Resta tuttavia vero che il mondo fisico rappresenta, rispetto alla società, una realtà unica e unitaria, sebbene poi i singoli uomini possano vedere nelle sue manifestazioni cose molto diverse. Niente del genere può dirsi per le scienze sociali. Anche qui abbiamo una realtà oggettiva, ma la stessa realtà oggettiva presenta al proprio interno una divisione netta e si riflette dunque diversamente nelle teorie delle varie classi che sono anche le parti che compongono l’oggetto di studio. Un fulmine per un fisico è la conseguenza di alcune reazioni elettriche. Forse i nostri antenati potevano vedere in esso la collera degli dei e quant’altro, ma il fulmine, come fenomeno, non divide la società. Pensiamo ora alla disoccupazione. Essa è un fatto che esiste, come il fulmine. Non è però un avvenimento “naturale” che osserviamo, noi tutti come uomini, da uno stesso punto di vista né ha un impatto omogeneo sulla società. Il fulmine non si sviluppa in base allo sviluppo della società, non partecipa al processo evolutivo della nostra specie, noi siamo in contatto con esso come col resto del mondo e dell’universo. La disoccupazione invece ha uno sviluppo storico, una nascita e, in futuro, una morte. Deve la sua comparsa a una certa configurazione del processo produttivo e soprattutto colpisce le classi sociali in modo molto diverso. Non sorprende perciò che la società possa avere una visione pressoché unitaria del fenomeno fulmine mentre si divida aspramente sull’analisi della disoccupazione. Mentre è intuitivo che cosa si intenda per riflessione parlando di teorie fisiche o chimiche, quando passiamo alle scienze sociali dobbiamo specificare molto bene di che tipo di riflessione parliamo. Tutte le teorie hanno in comune una funzione generale: guidare l’uomo nelle sue azioni, aiutarlo a rapportarsi correttamente col mondo che lo circonda. Ma qual è il rapporto corretto dell’uomo con la sua organizzazione sociale? Dipenderà naturalmente da questa stessa organizzazione. L’organizzazione sociale di questa epoca poggia sul rapporto fondamentale tra capitale e lavoro salariato e vede salariati e capitalisti come principali classi intorno a cui si costruisce il processo produttivo e tutta la società. Ne consegue che ci sono principalmente due riflessioni corrette di questa realtà e sono quelle delle due classi fondamentali della nostra epoca. Le teorie sociali sono di classe perché devono permettere alla classe di agire in difesa dei propri interessi e con ciò in difesa di una certa organizzazione sociale. Le scelte che i teorici fanno, approfondendo una teoria o l’altra, può dipendere da molti fattori, spesso individuali, ma non possono che, in ultima analisi, rappresentare la divisione intorno a cui si è costruita la storia degli ultimi secoli. Sembra, a questo punto, che sia impossibile conciliare oggettivismo e scienze sociali. Come può una stessa realtà essere due cose opposte nello stesso momento? Perché il punto è proprio questo, che le teorie di classe rappresentano in modi antitetici una stessa realtà e tutte la riflettono. Non è come per la fisica in cui abbiamo una teoria “vera” e una teoria chiaramente da rigettare, magari inglobandola nella nuova. La teoria neoclassica non è una creazione degli economisti più di quanto l’atomo sia stato creato da Bohr o Planck. Non è un’ombra che oscura coscientemente la realtà. La possibilità e anzi la necessità di questa “conciliazione” ci è data scientificamente dalla considerazione che la logica formale non esaurisce affatto le possibilità di analisi dell’uomo. Quando si discute di problemi in movimento la logica formale non ha più nessun ruolo da giocare, essendo essa ragionevole solo per concetti che non hanno tempo, sono immobili. La contraddizione di due teorie che riflettono una stessa realtà non sta dunque negli errori che una delle due contiene, ma rappresenta bene la contraddizione che c’è nella società. Il rapporto di produzione ha sempre due poli che si rappresentano la realtà in modi diversi e opposti. Le teorie cristallizzano questa opposizione. La teoria neoclassica è la teoria dominante, cioè la teoria della classe dominante in questo ultimo secolo. La teoria oggettiva del valore rappresenta, in questa epoca, la teoria necessariamente marginale, eretica, perché rappresenta la classe non dominante della società, una classe che indipendentemente da cosa fanno i suoi rappresentanti politici, non può che essere all’opposizione (sociale, politica, culturale e scientifica), perché rappresenta il polo dominato del rapporto di produzione su cui si regge la nostra società e dunque la stessa scienza[6]. Spesso i critici della posizione appena espressa fanno notare che in molte università si insegnano parti delle teorie eretiche quando non ci sono addirittura corsi di economia marxista[7]. Nel paese capitalistico più avanzato c’è addirittura un’associazione di economisti “radicali”. E' naturale che in un periodo di convulsione sociale, in cui lo scontro di classe emerge in tutta la sua irriducibilità, anche alcuni gli economisti siano portati a fare una scelta che dal punto di vista di classe sarebbe incoerente. Questo è un fenomeno molto ricorrente nella storia. Gli stessi Marx ed Engels erano, come origini, dei buoni borghesi, tuttavia meglio di chiunque altro rappresentarono le esigenze del proletariato cristallizzandole in teorie. Il fatto che esistano due teorie economiche, politiche, due culture e perfino due teorie della conoscenza diverse e contrapposte, non deve portare a una sorta di relativismo o anarchismo metodologico. Ogni forma di relativismo metodologico è l’applicazione delle regole della logica formale giunta al suo ultimo stadio, negata dalla realtà e perciò rovesciata ma ancora in fondo dominante. Poiché le cose non si dividono in A e non-A, allora “tutto va bene”, la contraddizione significa irrazionalità, impossibilità di spiegare attraverso la scienza la realtà. Dimostrata la non efficacia universale della logica di Aristotele, molti teorici si lasciano andare a ogni tipo di misticismo, riprendendo filoni idealisti sepolti da secoli, come fossero seguaci di un santone la cui morte spinge alle azioni più strane e insensate. Poiché lo sviluppo della scienza inevitabilmente deve superare le prigioni delle leggi dicotomiche, si cerca di negare l’esistenza di leggi in generale. Questo atteggiamento riguarda comunque ancora una minoranza di scienziati, perché l’idea dominante è ancora che la scienza debba procedere seguendo le regole aristoteliche del pensiero scientifico. Si può prevedere che col procedere dello sviluppo scientifico e perciò della crisi della logica-gnoseologia classica, si moltiplicheranno le dichiarazioni di negazione totale di un pensiero scientifico (sentiremo forse dire “the best theory is no theory at all”? Speriamo di no). In un certo senso questo atteggiamento è comprensibile ed è spiegato e anticipato dall’analisi svolta prima. E' un po’ come per la religione. Anche per un credente la divinità non può esistere e insieme non esistere. Inoltre sono molto pochi i credenti che cambiano fede, di solito chi rifiuta una fede rifiuta la fede in generale. Questa analogia non deve sorprendere. Non stiamo qui sostenendo che non c’è differenza tra scienza e religione, ma che entrambe rappresentano la civiltà umana a un certo grado del suo sviluppo. Ogni modo di produzione ha la sovrastruttura che meglio serve a svilupparlo e difenderlo. La scienza è la parte più dinamica della conoscenza umana e della sovrastruttura e rappresenta il modo con cui questo modo di produzione si difende e si sviluppa. 2. A che serve l’economia Nel quadro delle scienze sociali l’economia occupa una posizione preminente per storia, sviluppo e potenza (accademica, di pubblico, di pretese). Poiché “l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere” sarebbe stato inutile, oltre che ovviamente impossibile, alle tribù del Neolitico avere una scienza economica, dato che lo sviluppo delle risorse sociali non permetteva uno studio delle risorse stesse, di come esse si generavano e di come venivano gestite. Il capitalismo è la prima società in cui si pongono problemi economici in quanto tali, indipendenti dalle sovrastrutture che prima sembravano, e in parte erano, più importanti. Inoltre nel capitalismo la divisione di classe perde anch’essa ogni significato che sia extraeconomico. Non ci sono più signori per diritto divino, non ci sono più schiavi, che in quanto tali, non sono neppure considerati uomini. Il rapporto di produzione su cui il capitalismo si regge è un contratto sociale chiaro, noto a tutti, anche se magari apprezzato da pochi. Come ogni altro modo di produzione susseguitosi nella nostra storia, il capitalismo nasce attraverso rivoluzioni possenti e distruttive che permettono alla nuova classe di assumere i pieni poteri adeguati al proprio peso sociale ed economico. Le teorie sociali e politiche borghesi sono servite e servono alla borghesia per combattere queste battaglie, prima per la conquista del potere contro le classi dominanti feudali; dopo per la difesa del proprio dominio contro le nuove classi rivoluzionarie. Per un certo periodo il capitalismo spinge incessantemente avanti la civiltà, così Marx può scrivere a metà del secolo scorso che “la borghesia ha avuto nella storia una parte essenzialmente rivoluzionaria”. A questa fase socialmente rivoluzionaria corrisponde un’esplosione culturale e scientifica permessa dallo sviluppo delle forze produttive e che a sua volta facilita questo sviluppo. Il secolo scorso vede l’irrompere della scienza in ogni dominio del pensiero e in ogni angolo della natura. La scienza prende il posto di ogni altra sovrastruttura precedente, cosicché tutti i mutamenti sociali si esprimono, nel capitalismo, attraverso delle trasformazioni, delle rivoluzioni nella scienza. Quando il capitalismo entra nella sua epoca di declino storico, la scienza che meglio lo rappresenta ne segue, o meglio ne anticipa, il declino. Di questo abbiamo già detto altrove. Resta però il fatto che la classe dominante deve avere, ancora oggi, lo strumento teorico per condurre le proprie battaglie. Questo strumento deve anche risultare adeguato alle battaglie che devono essere combattute oggi e si deve basare sulla funzione sociale che oggi assume la borghesia. L’economia neoclassica non serve per capire come funziona il capitalismo. Già da secoli molti studiosi hanno evidenziato la struttura fondamentale della società. Non c’è dubbio che per capire il capitalismo è molto più istruttivo leggere i Principles di Ricardo o la Ricchezza delle nazioni che i manuali di economia del dopoguerra. Ma qui non si tratta di questo. Il capitalismo funziona fondamentalmente allo stesso modo da secoli e i suoi meccanismi non necessitano di ulteriori grandi disamine. Le “nuove” politiche economiche suggerite dagli “esperti” sono nuove solo nella testa di chi ignora la storia del capitalismo e del pensiero economico. Anche quelle che vengono presentate come novità recentissime, ce le ritroviamo improvvisamente davanti studiando l’Europa ottocentesca e perfino settecentesca. Dunque l’economia neoclassica non ha un ruolo informativo. Le fonti di questo si attingono altrove e con discreto successo, di solito. All’economia neoclassica e alle teorie sociali dominanti in genere è affidato lo stesso compito che ha il patriottismo in guerra: alzare il morale dell’esercito. Esso serve a combattere la guerra a cui è chiamata la classe che domina la società: la guerra per la difesa del proprio dominio. Commentando la dissoluzione della scuola ricardiana Marx nota che il processo di allontanamento dell’economia dalla realtà, data già dal 1830. Ma per quasi cinquant’anni l’economia vive in un limbo[8]. Da una parte sorge la teoria della classe operaia, a partire dalle frange radicali del ricardismo; dall’altra ci sono varie scuole sincretiche le quali riflettono il passaggio storico verso la fase declinante di questo modo di produzione. Non è un caso che parte della struttura teorica dell’economia della fase di ascesa del capitalismo sia finita nella teoria eretica, perché ai tempi di Ricardo, come abbiamo notato, l’economia aveva invece un ruolo preminentemente informativo, pratico. Diceva ai banchieri, agli imprenditori: guardate che la disoccupazione è questo e si produce in questa maniera e lo sviluppo del profitto deriva da questa e quest’altra ragione. Niente di tutto questo entra più nell’economia moderna, per via del suo nuovo ruolo sociale. Ci troviamo così a dover spiegare il ruolo che ha l’economia neoclassica, ricordandoci di quanto detto prima: in questa società ci sono fondamentalmente due rappresentazioni dell’oggetto dell’economia. Bisogna ora precisare però, come proceda questa compresenza. Innanzitutto essa non è mai su un piano di parità, domina sempre, nei libri, nelle università, la teoria che riflette il dominio generale di una classe. Cambia però il modo con cui la teoria dominante riflette la realtà e, di pari passo, cambia anche il modo con cui la teoria “dominata” riflette a sua volta la realtà. Poiché le due teorie rispecchiano la funzione storica che in quel periodo specifico pertiene alla “propria” classe, il loro modo di riflettere la realtà, dipenderà da questa funzione. Ai tempi di Ricardo il proletariato non aveva mosso che i primi passi verso la costituzione in classe cosciente di sé, di conseguenza la sua teoria, riflettendo una funzione passiva della classe, era idealista, quasi religiosa, oppure copiava la teoria della classe dominante che era al suo apogeo. Quest’ultima infatti rifletteva la posizione rivoluzionaria della classe borghese, la sua funzione propulsiva nella società, ed era perciò realista e materialista, poteva e doveva permettersi di ben rappresentare il processo produttivo, sebbene rappresentandoselo come eterno e universale. Insomma prendeva verità storiche per verità naturali. Questo d’altronde è necessario per qualsiasi teoria dominante. Se si ammettesse la storicità delle categorie su cui la teoria si fonda, si dovrebbe ammettere la storicità del mondo che le categorie descrivono, ovvero la transitorietà del proprio dominio di classe. Ma la teoria dominante serve proprio a combattere la battaglia per questo dominio e non può basarsi sul fatto che questo crollerà. Sarebbe come incitare dei soldati poco prima di un assalto dicendo “ricordatevi che tanto dovete morire”. Un simile incitamento non riscuoterebbe grandi consensi e non aiuterebbe certo l’esercito a vincere la battaglia. Questa negazione della storicità del proprio dominio è una caratteristica di tutte le teorie dominanti. La differenza è che nella nostra epoca la negazione ha una veste puramente scientifica, mentre prima si presentava sotto forma di diritto divino, di differenze razziali, etniche e così via. In ogni epoca l’ideologia dominante ha ribadito che c’è stata storia ma ormai non ce n’è più; nel capitalismo questa pretesa poggia sulle basi della scienza anziché su altro. E' una pretesa che gli economisti hanno sempre incorporato nelle proprie analisi per lo più inconsapevolmente. Certo, è una pretesa che non tiene conto di secoli di sviluppo dell’umanità, eppure è la sola premessa possibile all’economia come scienza autonoma. 3. Che cosa rappresenta la teoria soggettiva del valore Le linee generali su cui si costruisce la scienza non sono opzioni che il ricercatore sceglie come un turista potrebbe scegliere la meta del viaggio. Anch’esse riflettono il ruolo che la scienza deve assumere in un determinato periodo. L’astoricità, il soggettivismo, l’idealismo non sono caratteristiche che l’economia ha assunto perché la maggioranza degli economisti erano idealisti, astorici ecc., è piuttosto vero che questi dovevano essere idealisti, astorici ecc., riflettendo il nuovo ruolo della propria scienza, ovvero la funzione della classe dominante in questa epoca. Ancora una volta questa descrizione non intende affatto sostenere che tutti gli economisti sono idealisti, soggettivisti e così via. Questa è la descrizione di un processo sociale che può essere infranto da dieci o cento economisti senza che perciò perda un grammo di validità[9]. Le due posizioni gnoseologiche che fin dall’inizio di questo lavoro abbiamo delineato, non sono dunque oggetto di una scelta libera, si susseguono invece, come la fase iniziale e discendente di una parabola. Questa è la ragione per cui non ci può essere nessuna dimostrazione intrinseca della validità di una teoria della conoscenza sull’altra. Sarebbe come dimostrare che è meglio la giovinezza della vecchiaia. Qualunque cosa ciò significhi, non è nel potere dell’uomo, a tuttora, scegliere di eliminare l’una o l’altra. La teoria del valore fornisce un ottimo esempio di quanto esposto[10]. La teoria del valore classica era materialista. Ai tempi di Ricardo c’erano anche teorie soggettiviste, ed è noto che in Smith ci sono tracce di entrambe, ma in quel periodo il soggettivismo era completamente marginale. Per la stessa ragione, ma nell’epoca attuale, la scuola classica che pure conta numerosi revival, resta inevitabilmente marginale. La storia dello scontro, e del susseguirsi delle diverse teorie scientifiche, è lo scontro tra le diverse classi che esse rappresentano. Le idee, le teorie, esprimono rapporti necessari in un modo necessario, e quindi la loro veridicità e realtà è il riflesso ed è giustificata, dalla esistenza di quei rapporti che esse esprimono. Nessun procedimento formale può sbarazzarsi di una teoria se la realtà che la teoria riflette non si modifica o scompare. In questo senso i vari paradigmi che si sono succeduti nella scienza economica sono sempre stati “giusti” hanno sempre svolto il ruolo a cui erano chiamati. La teoria soggettiva del valore è la “giusta” teoria del valore per la nostra epoca. Le sue caratteristiche ne fanno l’apogeo della teoria dominante, come sempre succede, perché la teoria del valore è sempre la punta di lancia del paradigma, la sua esegesi. Le caratteristiche della teoria soggettiva del valore mostrano, ad un’analisi attenta, le necessità della teoria economica dominante e della classe dominante in questa epoca. Naturalmente di teorie soggettive del valore ce ne sono molte con caratteri in parte divergenti. Ma se accettiamo che la teoria del valore, come ogni altra, si sviluppa principalmente per orientare la società o la classe a cui si riferisce, possiamo prendere in considerazione una teoria soggettiva del valore astratta, dove astratta non sta semplicemente per media, ma per risultante di un processo che veramente conduce tutte le varianti della teoria soggettiva del valore verso alcune caratteristiche comuni. Iniziamo a descrivere le caratteristiche che la teoria soggettiva del valore ha in comune con la teoria dominante in generale, riprendendo quanto detto nella prima parte[11]. Essa non considera l’esistenza di classi, non considera l’esistenza di processi storici irreversibili, non si basa su nessuna trasformazione storica avvenuta nello scambio (moneta, sistema creditizio, tesaurizzazione, forma mercificata dei prodotti, mercificazione del lavoro umano ecc.) si basa invece sull’assunto che l’unica forma scientifica di una legge è la forma atomistica: l’individuo è l’unica categoria scientifica valida. Altro assunto chiave è l’utilitarismo, che come accennato è l’idea che tutte le azioni che l’individuo compie siano tese a massimizzare il proprio piacere attraverso un calcolo razionale di costi e benefici. I principi su cui si basa la teoria soggettiva del valore sono fondamentalmente tre, ma possono essere anche intesi come connessioni di uno stesso meccanismo. Questi tre principi sono l’utilità, la scarsità e la domanda-offerta. Un bene, che sia merce o meno, per essere oggetto di possesso o utilizzo da parte dell’uomo deve essergli in qualche maniera utile. L’utilità è una qualità universale, come ben sapevano già i classici, che non esclude nessun oggetto e nessuna epoca, anzi riguarda evidentemente anche il mondo animale e vegetale. La propensione incoercibile delle piante a orientare le radici verso il centro della Terra e il fusto verso il Sole è indubbiamente un processo definibile come la massimizzazione dell’utilità che luce e terreno forniscono alla pianta. La pianta ottimizza le proprie risorse come qualsiasi consumatore ligio all’economia neoclassica. Tutto il processo di selezione naturale è una lunga massimizzazione vincolata la cui posta è la sopravvivenza dell’individuo e, attraverso di lui, della specie. Sostenere che l’utilità non conta niente nell’economia moderna non avrebbe senso. Già per i classici, per non parlare di Marx, era banale che non potessero esistere merci senza valore d’uso. Proprio come gli animali non possono vivere senza mangiare. Quello che li distingue, però, è proprio come e cosa mangiano. Erbivori e carnivori traggono utilità rispettivamente dai vegetali e dalle prede, sono accomunati dall’utilità, o meglio sono indistinti, non analizzabili nelle loro caratteristiche centrali se considerati solo attraverso di essa. Per i classici e per Marx il valore d’uso era una precondizione banale alla scambiabilità di una merce ma non poteva influire sul suo valore perché non avrebbe aiutato la società a dividersi il lavoro. Invece il ruolo principale della formazione dei valori e dei prezzi è di fornire una qualche forma di orientamento a una società anarchica nella divisione sociale e tecnica del lavoro. La scarsità ha senso anch’essa solo se eliminiamo ogni considerazione storica dall’analisi. I minerali, che non sono prodotti dell’uomo, hanno una scarsità in qualche modo oggettiva. E' gia molto problematico definire la scarsità di prodotti agricoli che in parte sono legati a cicli naturali ma che comunque sono prodotti dell’uomo. Non ha nessun senso sostenere che un prodotto industriale è scarso. I prodotti che lo sviluppo sociale ha fatto nascere non possiedono una qualità intrinseca di scarsità e la scarsità concreta è solo l’effetto della congiuntura del mercato. Anche la scarsità è quindi un attributo scientifico in quanto naturale, eterno e immodificato dei beni che prendiamo in esame. Si vede dunque che le due caratteristiche su cui si fonda questa teoria del valore acquistano senso se, non solo eliminiamo dall’analisi ogni processo storico, ma ci rifacciamo a una specie di mondo primitivo in cui l’uomo non trasforma di continuo la natura ma ne prende i frutti già pronti. Le merci in questo caso lasciano il posto ai beni, i quali non essendo prodotto del lavoro umano, si valutano per la loro utilità e scarsità. Domanda e offerta sembrano invece termini che hanno una storia, che esistono solo da un certo periodo in poi. Ma nella teoria dominante domanda e offerta rappresentano l’utilità delle merci e la scarsità. In realtà, domanda e offerta sono principi esplicativi ancora meno indipendenti per l’economia neoclassica di quanto non fossero per la scuola classica. Per Ricardo domanda e offerta modificavano di continuo un prezzo naturale creato dai costi di produzione, per i neoclassici la domanda è la richiesta di aumentare la propria utilità tramite lo scambio, e l’offerta rappresenta il grado di scarsità del bene. Non è difficile trovare obiezioni logiche ed empiriche ai fondamenti della teoria soggettiva del valore, ma la moltitudine di falsificatori potenziali, di anomalie che potremmo raccogliere contro la teoria soggettiva del valore, non potrebbero mutare il peso che essa ha nella moderna economia, perché non cambierebbero il ruolo che la borghesia ha nel processo produttivo. E' invece molto interessante seguire la teoria nel suo tentativo di costruzione di una società ideale che ovviamente non esiste ma che pure deve essere il riflesso di qualcosa che veramente esiste. Quale società viene fuori dalla teoria soggettiva del valore? Attraverso quali astrazioni si forma? E soprattutto, di quale società reale si parla? Proveremo ora a dare una risposta a questi interrogativi. 4. L’idealizzazione del presente attraverso il passato e il futuro Le categorie che formano la teoria soggettiva del valore e l’economia neoclassica in genere, si sviluppano assumendo una forma feticistica. Questo significa che il ricercatore accetta il fenomeno che ha di fronte, la realtà immediata, concreta, senza compiere quel processo di astrazione che gli permetterebbe di cogliere i processi di cui il fenomeno è solo una manifestazione esteriore, superficiale e soprattutto rovesciata. Questo rovesciamento, del tutto inconsapevole, fa parte del ruolo sociale dell’economia, come spiega l’analisi del feticismo delle merci contenuta nel Capitale. Gli economisti pensano di parlare di cose e invece l’economia parla di uomini, il capitale per loro è una cosa e invece è un rapporto tra uomini ecc. Questa cosalizzazione, reificazione delle categorie dell’economia politica, va di pari passo con l’astoricità delle categorie stesse la quale anch’essa è parte del ruolo sociale dell’economia. Il capitale non può essere considerato un rapporto di produzione, altrimenti avrebbe un inizio e una fine e questo implicherebbe un inizio e una fine per il capitalismo. Se invece si considera il capitale come una cosa, esso acquista una qualità universale e possiamo trovare capitale anche nelle società più antiche e soprattutto, non potremo mai liberarci di lui, dato che sempre l’uomo produrrà tramite mezzi di produzione. Il feticismo delle categorie dell’economia politica è una loro caratteristica sin dalla nascita della scienza economica, tuttavia la forma che il feticismo assume muta nel tempo. L’annullamento delle distinzioni storiche è una forma di feticismo. L’economia neoclassica non fa solo astrazione delle differenze storiche che modificano le categorie in ogni periodo, ma costruisce un modello di società che non è mai esistito. Eppure questa società ideale, che non c’è mai stata, deve rappresentare un processo sociale reale che gli economisti descrivono ma che non si compie solo nella loro mente. L’ipotesi che qui proponiamo è che la società delineata dall’economia neoclassica sia una società socialista vista con gli occhi dell’economia politica della nostra epoca. Per tentare di giustificare questa affermazione, partiamo dal periodo in cui l’economia neoclassica divenne la teoria dominante. Si tratta del periodo in cui il socialismo come teoria sociale e movimento politico cessò di essere il patrimonio di sette segrete e pensatori isolati e divenne la forza più dirompente della società, fornendo armi analitiche al movimento operaio europeo. Dopo la Comune di Parigi divenne chiaro che le organizzazioni indipendenti della classe operaia si rafforzavano sempre di più e rappresentavano strati sempre più vasti di popolazione[12]. Il socialismo sembrava una necessità storica proprio come sostenevano i marxisti. Con il prolungato boom degli ultimi decenni del secolo, il capitalismo arrivò a conquistare tutto il pianeta, raggruppando per la prima volta nella storia, tutte le popolazioni in uno stesso mercato e negli stessi processi sociali. La teoria dominante non poteva ovviamente accettare le opinioni dei socialisti sull’imminente fine del modo di produzione capitalistico e sul rovesciamento del potere politico della borghesia. Eppure non poteva neanche negare semplicemente il socialismo. Non poteva perché non avrebbe giovato alla stessa classe dominante. Sarebbe stato come negare l’esistenza dell’esercito nemico quando questo si accingeva a lanciare l’offensiva finale. Il socialismo, come fase della storia umana, sembrava dunque vicino e inevitabile, anche se la teoria non poteva ovviamente sostenerlo. La speciale forma che la feticizzazione dell’economia politica assunse fu dunque una idealizzazione del capitalismo, ma un’idealizzazione compiuta analizzando il capitalismo sub specie epoca futura, cioè sub specie socialismo. La commistione risulta davvero strana perché ha tre ingredienti: - la pretesa della stessa teoria dominante di raffigurare una società in generale, senza nessuna caratteristica di un’epoca storica precisa, partendo, come visto, da qualità che i beni hanno solo in società così arcaiche da non aver ancora sviluppato un rapporto di trasformazione della natura e una divisione sociale del lavoro; - l’inevitabile riflesso rovesciato, reificato, delle principali categorie dell’economia capitalistica nella teoria che però appaiono come forme eterne della produzione, qualità che la produzione ha sempre; - e infine la rappresentazione, anch’essa feticistica, rovesciata, dell’epoca che sembrava imminente e che costituiva un recupero della società antichissima a cui utilità e scarsità alludono. Un ritorno a una società senza divisione sociale del lavoro in cui non ci sono più merci ma solo beni. La società dell’economia neoclassica infatti non ha classi, non ha uno Stato, non ha moneta e queste caratteristiche sono comuni solo a società molto primitive e a quella che Marx chiama la seconda fase del socialismo, cioè il comunismo vero e proprio, essendo il socialismo propriamente detto la fase in cui moneta, Stato e classi vanno scomparendo. La produzione è orientata a massimizzare l’utilità collettiva (dato che tutti gli individui sono uguali, le preferenze individuali sono per costruzione quelle sociali). A questa prima strutturazione segue però il tentativo di riportare questo modello alla realtà attuale. Da qui le varie teorie che introducono moneta, classi e Stato in modelli neoclassici. Ma sono teorie per lo più debolissime e che non sono affatto necessarie alle conclusioni fondamentali della teoria. La scuola neoclassica in cui il processo è visibile in modo più chiaro è l’economia walrasiana. Le equazioni di Walras non possono aiutare a spiegare l’economia reale, nella quale c’è l’anarchia e le crisi e perciò l’equilibrio è un caso trascurabile, ma possono invece descrivere mondi in cui non ci sono sproporzioni né crisi. Questa è la ragione per cui i sistemi di equazione trovano applicazione in società con abbozzo di pianificazione (come l’Urss e l’Est europeo nel dopoguerra), oppure in modelli che eliminino le caratteristiche del capitalismo avvicinandolo, almeno idealmente, a una società pianificata, come avviene nella soluzione matematica di molti problemi teorici di politica economica. L’economia neoclassica ha lo scopo di aiutare la classe dominante nel suo compito. Questa rappresentazione feticistica della società a cui tende la classe antagonista non può dunque servire a indicare il futuro dell’umanità, altrimenti la teoria dominante preparerebbe la disfatta anziché la tenuta del dominio. La società futura è dunque rappresentata come se fosse, nei suoi tratti fondamentali, come quella attuale. Di più, tutte le società vengono equiparate attraverso il modello utilitaristico e massimizzante. In questo modo si supera l’idea che non ci sarà più storia e si arriva all’idea che, in fondo, non c’è mai stata storia, la società funziona nello stesso modo comunque essa sia. In che modo questa pretesa aiuta a combattere la battaglia? Se la teoria sostenesse che il capitalismo in quanto tale è la società migliore possibile, non spiegherebbe perché milioni di persone si stanno organizzando per combattere questa società, perché si sentono invece sfruttati e maltrattati dal capitalismo. Ma sostenendo che in ogni caso la trasformazione sociale non potrebbe mutare il modo di funzionamento dell’economia, fornisce alla coscienza della classe dominante l’arma per comprendere e combattere qualsiasi movimento sociale, poiché la teoria spiega che non cambierebbe nulla e che dunque il socialismo è inutile o comunque equivalente al mercato. Si tratta in entrambi i casi di sostenere che il capitalismo è la società migliore possibile, la differenza è che nel primo caso questo risulta un dato empirico che può essere superato dalla storia, nel secondo è un dato che risulta dalla constatazione che fondamentalmente tutte le società sono uguali e che dunque il capitalismo non è la migliore società possibile, ma l’unica possibile, l’unica che sia mai esistita e che mai esisterà. Il ruolo sociale della teoria è di aiutare la classe dominante a giustificare, nella propria coscienza di classe e individuale, il proprio dominio e anche a spiegare perché esiste un movimento organizzato contro il capitalismo, aiutando nel contempo a lottare contro questo movimento. In un suo famoso scritto già citato, Bucharin sostiene[13], trattando soprattutto della scuola austriaca, che l’economia neoclassica rappresenta una particolare ala della borghesia, quella dei rentier. L’economista e rivoluzionario russo ritiene che l’aumento del peso della parte parassitaria sul totale della classe borghese aiuti la teoria di questa parte a divenire quella dominante. La produzione scomparirebbe dall’analisi perché i rentier non sono ad essa legati. Il consumo è l’alfa e l’omega della loro vita. L’asocialità dei rentier spiegherebbe l’individualismo metodologico e la paura del proletariato fornirebbe la spiegazione dell’analisi di breve periodo, il carpe diem, come si conviene a una classe che ha i giorni contati. Sebbene tutto questo sia pure vero, non siamo d’accordo con questa tesi. Non è un fatto di percentuale dei parassiti sul totale, ma di passaggio di ruolo dell’intera classe, a questa nuova funzione passiva rispetto allo sviluppo sociale, il che si riflette anche, ovviamente, nella quota di rentier. Con la nascita delle Spa, dei trust, della borsa, tutti i veri capitalisti divengono “pigri e oziosi”. Tutti acquistano la psicologia del consumatore. Anche la paura del proletariato è comune a tutta la classe. “La teoria “austriaca” esprime, secondo noi, l’ideologia del borghese eliminato dal processo produttivo, del borghese sul viale del tramonto”[14]. Questa affermazione si avvicina alle nostre osservazioni ma non considera che ruolo deve svolgere la teoria. Per sapere che sono sul viale del tramonto ai borghesi sarebbe bastato leggere Il Capitale. La loro teoria non può esprimere direttamente il trapasso a una funzione sociale passiva. Deve invece dimostrare che questo non è vero, che i giorni del dominio del capitalista sul processo produttivo non sono affatto contati. Ma non può fare questo inventando dal nulla. Nessuna teoria può inventare dal nulla. Fa invece questo impastando caratteristiche del capitalismo con qualità di società che sembrano essere il nostro probabile futuro. L’ardita ipotesi che abbiamo sostenuto non può ovviamente essere dimostrata in modo conclusivo. Giova comunque portare qualche altra giustificazione a suo favore. Se la scuola di Losanna si lega facilmente, attraverso le equazioni, alla nostra ipotesi, diverso appare il discorso per la scuola austriaca, quella su cui il lavoro di Bucharin era incentrato e che ha sempre costituito la spina dorsale metodologica e politica della teoria dominante. Non a caso la storia ha selezionato un economista austriaco per attaccare nel miglior modo possibile la teoria socialista. Sicuramente questo accanimento dipendeva dal fatto che il movimento socialista tedesco era particolarmente forte e incuteva un certo timore. Ma è notevole in una delle opere più “filosofiche” della scuola la nostra ipotesi venga fatta propria dall’autore. Stiamo parlando di Wieser e della sua opera Il valore naturale[15]. Come è facilmente constatabile leggendola, quest’opera è assolutamente ortodossa per quanto riguarda la teoria. Wieser spiega diligentemente che il valore è una sensazione del soggetto, che l’utilità dell’imprenditore è il profitto, che è possibile imputare a ogni individuo e a ogni mezzo di produzione la propria quota di valore. Si parla di “reddito naturale del capitale” e in genere si fa la consueta analisi di una società eterna, immobile, analizzata nelle sue caratteristiche tecniche e non sociali (per esempio l’autore, criticando la teoria del valore-lavoro, confonde sempre la produzione fisica di merci con la produzione sociale di valore, come è ovvio in questa impostazione). Il ruolo sociale della teoria dominante, la negazione che il socialismo cambierà alcunché, è argomento di una lunga disamina da parte dell’autore austriaco, e questa è la cosa interessante e insolita dell’opera. L’argomentazione di Wieser è che anche in uno “Stato a economia comunista”, i beni seguiterebbero ad avere valore, esisterebbe l’interesse e sarebbe necessario il capitale[16]. Insomma il valore è proprio naturale, eterno. Per Wieser le condizioni ideali che il modello ipotizza configurano uno ‘stato comunista’ ed “Egli si rende anche conto che in questo non c’è niente di originale, ma che sta semplicemente esprimendo con maggiore chiarezza opinioni comuni a molti economisti.”[17] Wieser esamina la vigente distribuzione della proprietà e del reddito, ma la trascura in sede di definizione del modello ideale. Il valore “naturale” è quello legato all’utilità marginale, ed è neutrale, socialmente e politicamente, proprio per la sua naturalità. L’economia di mercato divergerebbe dallo stato ideale perché nel capitalismo non contano solo i bisogni e le utilità. “Secondo von Wieser le condizioni necessarie perché esista un sistema di valori naturali sono le seguenti: uno “stato comunista perfetto”, una società con la massima efficienza, nella quale non vi sia abuso del potere amministrativo, i cui membri siano del tutto disinteressati e nella quale non ci sia né ignoranza né errore.”[18] Un simile inno al socialismo non si legge in nessuna pagina del Capitale né di altre opere di Marx. L’intenzione di Wieser di analizzare il processo economico nel suo complesso, determinando le deviazioni reali dallo stato ideale, sortisce questo strano risultato: l’ideale sarebbe una società socialista. Il capitalismo è tanto più inferiore ad essa, quanto più distorce e devia il ruolo “naturale” dei bisogni e dell’utilità. In questa opera Wieser conferma la nostra ipotesi anche troppo, giungendo a considerare le caratteristiche del capitalismo non come eterne ma come deviazioni da uno stato ideale e Myrdal può dire che “Molti teorici hanno quindi scritto la teoria del valore del comunismo senza rendersene conto e, nel far questo, hanno omesso di fornire la teoria del valore dello stato attuale.”[19] Potremmo cercare di analizzare anche le ultime scuole neoclassiche, per vedere se le aspettative razionali o altro confermano la nostra ipotesi. Ma prima ci deve essere dimostrato che esse costituiscono un passo avanti rispetto alla generazione precedente di economisti, che Lucas e soci hanno superato in qualche modo Böhm-Bawerk, Wieser, Walras o Wicksell. A tuttora noi pensiamo che non sia affatto così, soprattutto per quello che riguarda la struttura profonda del modello neoclassico, che recentemente viene semplicemente ignorata. Come sempre il miglior servizio che si può fare a un paradigma è studiarlo nella sua fase rivoluzionaria. 5. Lo sviluppo e il destino storico dell’economia neoclassica Lo sviluppo dell’economia neoclassica segue, come detto, i mutamenti della funzione storica della classe dominante. Rappresenta questi mutamenti nel diverso modo di reificare la realtà, addirittura idealizzando la società per cui si batte la classe dominata, sebbene nella forma concepibile da un intellettuale borghese. In questo modo anche per il capitalista più rozzo e reazionario diventa concepibile la ragione per cui una parte più o meno consistente dei propri dipendenti è socialista e come rispondere alle richieste di questa gente[20]. Anche le esigenze interne hanno un loro ruolo. La formalizzazione dell’economia, che è una necessità, è la forma analitica dell’astoricità, conduce la scienza a una spirale in cui conta più l’eleganza e il rigore del realismo. Ma bisogna ricordare che la matematizzazione è la conseguenza e non la causa di questo processo. Non è mai una mania estetica che conduce a teorie astoriche, soggettiviste ecc., è sempre il loro compito che costringe una selezione attenta dei mezzi con cui realizzarlo. Nel caso della Grande Crisi l’inversione del fenomeno fu causato dalla portata del disastro economico e sociale, che costrinse l’economia a tornare per qualche tempo al suo ruolo informativo[21]. In periodi in cui si impone una nuova politica, l’economia neoclassica, pur non acquisendo un ruolo pratico, tenta una giustificazione teorica di queste pratiche. E' quanto è successo negli ultimi decenni con il monetarismo per le politiche liberiste che costituivano un ritorno a periodi in cui lo Stato come ente economico aveva un ruolo molto minore. Ovviamente, anche se per qualche ragione, l’economia neoclassica non fosse riuscita a fornire la giustificazione teorica a queste politiche, queste sarebbero state realizzate lo stesso. Tanto per fare un esempio con un’altra scuola, i governi applicarono politiche keynesiane anni prima che venisse pubblicata la General Theory. Per quanto riguarda il destino dell’economia neoclassica, riteniamo che ad essa toccherà in sorte di risultare veramente solo in altri modi di produzione[22]. Mentre in questa società la rappresentazione delle categorie economiche come categorie che riguardano cose è feticistica, rovescia la realtà, in futuro questa potrebbe essere una rappresentazione corretta. La produzione potrebbe veramente essere basata sull’utilità anziché sulla massimizzazione del profitto e la crisi potrebbe essere sostituita dalla pianificazione cosciente. Le qualità che rendono la teoria dominante meno idonea a rappresentare questa società, potrebbero aiutarla a ben rappresentare un’altra società. Assisteremmo a una negazione della negazione della validità analitica dell’economia neoclassica. Finalmente tutte le conclusioni sull’efficienza statica e dinamica acquisterebbero un senso. Ad ogni modo non vale la pena attardarsi a congetturare futuri ruoli per la teoria attualmente dominante. Queste sono le prospettive teoriche per i nostri figli e nipoti. Come diceva Marx, non diamo ricette per l’osteria dell’avvenire. (giugno 1994) [1] L'ideologia tedesca, pag. 35. [2] Il Capitale I, pag. 40. [3] Il Capitale I, pag. 208. [4] The state in relation to labour, pag. 98. [5] The state in relation to labour, pag. 157. [6] Come dice Vygodskij: “La teoria economica marxiana esprime gli interessi fondamentali della classe operaia, rivela le tendenze oggettive di sviluppo della società” (Introduzione ai Grundrisse, pag. 165). E anche: “Il lavoro teorico di Marx fu sempre subordinato agli interessi della classe operaia, agli interessi della rivoluzione proletaria”. (pag. 7). [7] Ma questi corsi sono di solito marginali, decorativi. Per dirla con De Vroey, “La plupart des départements ont leur “marxiste de service”” (in "Une explication sociologique de la prédominance du paradigme néo-classique dans la science économique", in Economies et Sociétes, serie HS, n. 14, 1972, pag. 169). [8] In teoria questo è rappresentato da un'area grigia ben espressa in questo brano: “A ben vedere, tutto il periodo che separa l'elaborazione della scuola classica dallo sviluppo della teoria marginalista - un buon mezzo secolo, grosso modo dal 1820 al 1870 - rappresenta per la storia ufficiale una zona d'ombra, in cui i diversi autori sono difficili da collocare con precisione e vengono perciò giustapposti e lasciati convivere in un panorama eclettico che si rinuncia - di fatto - a vagliare” (Per una teoria della società capitalistica, di G. La Grassa, con M. Turchetto E. De Marchi, pag. 17). [9] Su questo vale la pena fare alcune osservazioni. Procederemo citando brani che favoriscano queste osservazioni. A volte gli economisti riconoscono sorprendentemente il ruolo della propria scienza, e dunque anche il loro. Nota per esempio R. L. Smith: “la sfiducia manifestata dalla classe operaia verso le sue [dell’economia] dottrine è senza dubbio grandemente dovuta alla non del tutto infondata credenza che essa ha teso a giustificare l’ordine sociale esistente e che il suo studio sia spesso raccomandato al fine, reale benché nascosto, di reprimere le aspirazioni popolari” (Essays in Economic Method, pag. 62). Questo autore era un economista moderato contemporaneo di Marx. Sul versante di chi riconosce politicamente il ruolo della teoria dominante, citiamo Graziadei, che si difende dalle sue analisi sociali sull'economia sostenendo quanto segue: “A qualche spirito troppo ingenuo o troppo astrattamente accademico potrà sembrare settaria o, quanto meno, eccessiva la nostra tesi che le teorie qui combattute rispondono a determinati fini sociali, e più specialmente alla lotta contro le conseguenze delle dottrine ricardiane, ed in particolare contro la loro rielaborazione ad opera del Marx. Ma in una scienza la quale si occupa di problemi così legati coi grandi interessi economici e politici, qualsiasi dottrina che non si limiti ad argomento di dettaglio è fatalmente influenzata dalle passioni sociali, e finisce quindi col convertirsi in un’arma ideale a favore dell'uno o dell'altro contendente.” (nella prefazione di Le teorie sull'utilità marginale e la lotta contro il marxismo). Sorprendente è anche la confessione che Baumol, economista contemporaneo, fece discutendo del fatto che gli economisti non si occupano del I volume del Capitale. Baumol scrive che questo fenomeno “is a merely reflection of our own prejudices as bourgeois” (Wages, virtue and value: what Marx really said, inMarx and Modern Economic Analysis, a cura di G. A. Caravale, pag. 59). Infine citiamo un economista fra i più virulenti nemici di Marx, Hayek, il quale però si lascia andare a una considerazione che potrebbe trovare posto in un’osservazione sul feticismo dell’economia politica: “Queste [le scienze sociali] non si occupano dei rapporti tra cose, ma si occupano invece dei rapporti tra uomini e cose e fra uomo e uomo” (inConoscenza, mercato, pianificazione, pag. 111). [10] Per questo un economista volgare tedesco scrisse, l’anno dopo la pubblicazione del Capitale:: “Il rifiuto della teoria del valore è il solo compito di chiunque combatta Marx; giacché, una volta ammesso questo assioma, bisogna concedere a Marx quasi tutte le conseguenze tratte con la logica più rigorosa” (citato in Introduzione ai Grundrisse,, pag. 61). [11] Già Marx nei Grundrisse spiegava agli apologeti che cosa avrebbero dovuto fare per rappresentare il capitalismo in modo consono al proprio ruolo: “Per salvare la produzione basata sul capitale, o si prescinde da tutte le caratteristiche specifiche, dalle sue determinazioni concettuali, e la si concepisce viceversa come una produzione semplice indirizzata al valore d’uso; ossia si astrae totalmente dai rapporti sostanziali e, per purificarla dalle contraddizioni, si finisce in effetti col sopprimerla e negarla addirittura (…). Oppure si afferma che domanda e offerta sono identiche e perciò debbono corrispondersi” (Grundrisse, pag. 14). [12] Anche se naturalmente non bisogna dimenticare l'esplosione rivoluzionaria del 1848. Come scrisse Schumpeter: “La rivoluzione del 1848, sebbene anch’essa di origine borghese, doveva rapidamente rivelare l’esistenza di una specie di stato maggiore di un esercito rivoluzionario socialista e addirittura di piani più o meno precisi per far funzionare uno stato socialista. Spaventati a morte, i gruppi borghesi fecero ciò che Luigi XVI non sarebbe mai stato indotto a fare, vale a dire, soffocarono la rivoluzione con la forza militare prima che fosse troppo tardi.” (Storia dell'analisi economica, II, pag. 552). [13] Ci riferiamo a L'economia politica del rentier. [14] L'economia politica del rentier, pag. 52. [15] Wieser F., Der Natürliche Werth. Wieser, come ora vedremo, non nutre certamente nessuna simpatia per il socialismo. Per dimostrare anzi come questo astio lo conduca a episodi di forte disonestà intellettuale vediamo questo brano: “I socialisti vorrebbero insegnarci che il valore di ogni sorta di lavoro deve essere valutato semplicemente in base al tempo; …il che significa che un lavoro diligente è considerato alla stessa stregua di un lavoro brutto e un lavoro qualificato è considerato al pari di un lavoro comune.” (pag. 784) Ovviamente bastava leggere Ricardo per sapere che questa obiezione è veramente poco seria. Qualche pagina prima Wieser aveva sostenuto chiaramente che “Nella teoria socialista del valore quasi tutto è errato. Essa non riconosce l’origine del valore, che sta nella utilità invece che nel lavoro” (pag. 701). [16] Uno “Stato ad economia comunista” è ovviamente una contraddizione in termini, ma rende ottimamente l’idea di Wieser e degli economisti in genere. Lo Stato, che pure non ha nessun ruolo da giocare nell'economia neoclassica, appare eterno, così eterno che non si può neanche pensare che in una società futura non ci sia. Esso è, nella mente dell’economista, tanto importante da definire l’intera società. Wieser non parla di “economia comunista” o di “comunismo” ma di “Stato a economia comunista”. I tre punti precisi in cui Wieser fa queste considerazioni sono i seguenti: “Anche in uno Stato a economia comunista i beni seguiterebbero ad avere valore” ( pag. 695), “anche nello Stato comunista il valore del capitale sarà calcolato in modo da esaurire solo una parte del reddito lordo del capitale” (pag. 766) “Anche nello Stato comunista esso [il capitale] dovrà dare perciò un interesse” (ivi). [17] Nell’analizzare questo scritto ci basiamo sull’analisi magistrale fatta da G. Myrdal in L'elemento politico nello sviluppo della teoria economica. L'elemento politico…, pag. 185. [18] L'elemento politico…, pag. 188. [19] L'elemento politico…, pag. 185. [20] Come sempre ci sono diverse posizioni in materia. Ci sono economisti che utilizzano le conclusioni appena descritte per giustificare qualsiasi governo e qualsiasi politica (vedi M. Friedman consigliere economico di un dittatore militare), mentre in altri questo tentativo di frenare le aspirazioni del proletariato spiegandogli che non porteranno a niente di nuovo, può sortire effetti depressivi e pessimisti (come accade a Schumpeter che arrivò alla conclusione dell’inevitabile vittoria del socialismo leggendo sia Walras che Marx). [21] Nota per esempio Marx: “Il capitale non ha affatto coscienza della natura del suo processo di valorizzazione e ha interesse ad averla soltanto in periodo di crisi.” (Grundrisse, I, pag. 380). [22] Nota Gramsci: “quando il lavoro è diventato esso stesso gestore dell'economia, anch’esso dovrà, per il suo essere cambiato fondamentalmente di posizione, preoccuparsi delle utilità particolari e delle comparazioni fra queste utilità per trarne iniziative di movimento progressivo.” (Il materialismo storico, pag. 330). |
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