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XEPEL

Su alcuni aspetti della teoria delle crisi

 le crisi permanenti non esistono – Marx

Introduzione

L’analisi delle crisi economiche periodiche del modo di produzione capitalistico è il compito più importante posto alla teoria economica marxista. Essa è alla base delle prospettive politiche su cui i marxisti costruiscono la loro azione politica, volta a fornire alla classe lavoratrice gli strumenti teorici e pratici per rovesciare il capitalismo. In questo scritto ne affronteremo alcuni aspetti.

Dal canto suo, la teoria economica borghese non ha una spiegazione endogena delle crisi. Tuttora, il ciclo economico è spiegato in base a fattori esterni al meccanismo dell’accumulazione di capitale (si parla di “shock”). Questo certo non sorprende. Non sorprende nemmeno l’annuncio ricorrente della morte del ciclo economico. L’annunciarono prima della grande depressione dell’Ottocento, prima del ’29, l’annunciarono negli anni ’60 i keynesiani. Da ultimo, lo hanno fatto i sostenitori del cosiddetto “nuovo paradigma economico”, la new economy. Oggi, chi si cura più delle loro “teorie”? L’analisi della teoria delle crisi è dunque non solo un’analisi del capitalismo, ma anche dei suoi mascheramenti ideologici. Inoltre, essa è anche un’analisi storica. Infatti, l’operare delle crisi porta a trasformazioni irreversibili del processo produttivo borghese. Il ciclo capitalistico non è una semplice alternanza di crescita e recessione, ma una spirale, la cui direzione muta, a un dato momento, dall’alto al basso e viceversa[1]. Questi macromovimenti a loro volta sono inseriti in un unico processo fondamentale che è lo sviluppo e il declino del modo di produzione capitalistico.

1. Come si presenta il ciclo capitalistico

Hilferding ha tratteggiato così l’andamento del ciclo di sviluppo capitalistico:

“Ogni ciclo industriale inizia con una espansione della produzione, le cui cause variano di volta in volta a seconda del concreto momento storico, ma che, in generale, possono essere ricondotte all’apertura di nuovi mercati, al sorgere di nuovi rami produttivi, all’introduzione di nuove tecniche, all’aumento del fabbisogno conseguente all’incremento della popolazione. Tutto ciò determina l’aumento della domanda, che provoca, a sua volta, in singoli rami produttivi, l’aumento di prezzi e profitti. Aumenta così la produzione dei settori interessati…il ciclo si inizia così, con il rinnovamento e la crescita del capitale fisso, il che costituisce la causa principale della incipiente prosperità…da questo ciclo, abbracciante una serie di anni di rotazioni in connessione fra loro, nelle quali il capitale è vincolato dalla sua parte costitutiva fissa, deriva un fondamento materiale delle crisi periodiche, in cui la vita economica percorre successivi periodi di ristagno, di vitalità media, di precipitazione, di crisi. I periodi nei quali viene investito capitale sono bensì molto differenti e non coincidono affatto. Ma tuttavia la crisi costituisce sempre il punto di partenza di un nuovo grande investimento, quindi costituisce anche, più o meno,…un nuovo fondamento materiale per il prossimo ciclo di rotazione.”[2]

Questi alti e bassi accompagnano tutta la storia del capitalismo. Alla mente reificata dell’economista essi si manifestano come un problema di domanda e offerta (prezzi troppo alti rispetto alla domanda effettiva) ovvero si presentano come una sproporzione fra consumo e produzione (accumulazione dei capitalisti) e anche come una sproporzione della produzione dei diversi rami. Ci sono “troppe” merci rispetto ai redditi disponibili a comprarle. I salari sono troppo bassi. Per questo Marx osserva:

“La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo assoluta della società.”[3]

È in questi momenti in cui i capitalisti non riescono a smerciare il loro prodotto che si lamentano della scarsa domanda e propongono mezzi per superarla. Ma questi mezzi confliggono con la loro veste di acquirenti di forza-lavoro. In qualità di compratore di forza-lavoro il capitalista vuole risparmiare, ma come venditore di merci vorrebbe essere generoso, come dice Marx:

“Ciascun capitalista pretende è vero che i suoi operai risparmino ma vuole anche che siano soltanto i suoi a risparmiare, perché gli stanno di fronte come operai; ma, per l’amor del cielo, non lo faccia il restante mondo dei lavoratori, giacché gli stanno di fronte in quanto consumatori. A dispetto di tutta la “pia” fraseologia, egli allora ricorre a tutti i mezzi pur di stimolarli al consumo, di dare nuove attrattive alle sue merci, di cacciar loro in testa nuovi bisogni. È proprio questo lato del rapporto fra capitale e lavoro che è un fattore essenziale d’incivilimento, e sul quale si basa la giustificazione storica, ma anche l’attuale potenza del capitale.”[4]

Abbiamo parlato di “troppe merci”, ovvero di sproporzione tra produzione e consumo. Il sottoconsumo è per definizione sovrapproduzione e viceversa. Ma sovrapproduzione di merci significa sovrapproduzione di capitale, dato che per espandere la scala della produzione i capitalisti devono prima accumulare nuovo capitale. Tutte queste espressioni – sottoconsumo, sovrapproduzione, sproporzione – descrivono dunque lo stesso processo, l’anarchia della produzione capitalistica, nella contraddizione chiave che la attanaglia: la forma sociale della produzione opposta alla forma privata della appropriazione. Il rapporto di produzione capitalistico (la proprietà privata dei mezzi di produzione) non riesce a racchiudere lo sviluppo delle forze produttive liberate dal capitalismo stesso:

“La produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione.”[5]

Lo sviluppo delle leggi di movimento del capitalismo non è che uno sviluppo di questa contraddizione di fondo. Ecco perché:

“Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori.”[6]

Marx definisce le “caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica” come segue: a) concentrazione dei mezzi di produzione in poche mani; b) organizzazione sociale del lavoro e unione del lavoro con le scienze naturali; c) creazione del mercato mondiale. A oltre 120 anni dalla morte del Moro non possiamo che constatare quanto acutamente avesse descritto questo sistema. Tali tendenze sono immanenti allo sviluppo capitalistico, ma intensificano il loro operare durante le crisi. Così il processo di concentrazione del capitale procede rafforzato proprio nei periodi di recessione, in cui interi settori produttivi vengono distrutti e le grandi aziende si divorano l’un l’altra. Questa crescente monopolizzazione dell’economia consente alle grandi aziende, di solito multinazionali, di scaricare la crisi sulla piccola e media borghesia: “i cartelli non eliminano affatto gli effetti della crisi: tutt’al più essi riescono a modificarli, in quanto possono rovesciare il peso della crisi sulle industrie indipendenti”[7].

Quando si sviluppa un nuovo settore dell’economia inizialmente si vede sempre la presenza di una gran quantità di piccole imprese “pioniere” che cominciano ad investire nel nuovo terreno. Ma una volta che il processo è avviato, rapidamente comincia la concentrazione e nel giro di pochi anni il mercato viene dominato da pochi grandi gruppi che distruggono o subordinano le piccole imprese. Allo stesso tempo, la crisi rende impellente la necessità di conquistare nuovi mercati, portando a scontri, commerciali e bellici. Questo si vede in primo luogo nella costante ricerca di mercati esteri, che ha fatto sì che nel giro di poco più di un secolo il capitalismo distruggesse tutti gli altri modi di produzione esistenti attraverso la colonizzazione. In secondo luogo si genera una spinta ad approfondire il mercato anche nei paesi già pienamente capitalistici; questo significa che c’è una pressione costante per far sì che settori della vita che precedentemente erano esterni alla produzione di merci rientrino nell’ambito della produzione capitalistica. Quanto all’“unione di scienza e lavoro”, vediamo la tendenza a introdurre tecnologia. La lotta per sconfiggere la concorrenza implica una spinta costante a ridurre i prezzi delle proprie merci. Il metodo principale per ottenere questo risultato è quello di introdurre massicciamente tecnologia che diminuisca i tempi di produzione abbassando così i prezzi.

Come notava Marx, “le macchine non intervengono a sostituire forza-lavoro mancante, ma per ridurre la forza-lavoro presente in massa alla misura necessaria”. Sotto il profilo della singola azienda, la concorrenza appare come la forza che riduce il saggio del profitto, a cui rispondere accrescendo le dimensioni in modo da resistere alla caduta del saggio di profitto con l’aumento della massa dei profitti. Ma ovviamente questo è quello che appare al singolo capitalista. La concorrenza non fa che livellare il saggio del profitto al suo livello medio, ma non spiega questo livello che dipende dal grado di sviluppo delle forze produttive incorporato nella composizione organica del capitale. La massa dei profitti deriva dalla produttività sociale raggiunta. La loro suddivisione deriva dalle circostanze storiche di ogni paese, settore, azienda.

2. Le forme fenomeniche della crisi

La crisi evidenzia l’impulso illimitato alla valorizzazione del capitale che si infrange contro la capacità limitata di consumo della società. È l’anarchia della produzione capitalistica a creare la crisi. Ma l’anarchia è un tratto permanente del modo di produzione capitalistico, la crisi no. Occorre dunque spiegare come la crisi si nasconda, o meglio prenda la forma, dell’equilibrio e insieme del crescente disequilibrio.

La ricchezza di questa società, spiega Marx all’inizio del Capitale, si presenta a prima vista come un’immane raccolta di merci. Le merci sono le cellule del capitalismo, ne formano la struttura. Ma le merci sono il prodotto di una determinata divisione del lavoro, dunque di determinati rapporti di produzione e di proprietà. Nell’analizzare questa cellula ritroviamo così tutti i rapporti economici propri del capitalismo: il lavoro salariato, il denaro, il capitale. Questo vale anche nella analisi delle crisi. La crisi appare a prima vista come un’immane ingorgo di merci. Improvvisamente, i commercianti iniziano a fare offerte sempre più vantaggiose, ribassano i prezzi, diluiscono i pagamenti ma le vendite vanno a rilento. Per vendere bisogna ridurre i prezzi e dunque i profitti. A un dato momento il commerciante pronuncia la fatidica frase “a questo prezzo ci rimetto a vendere”. Il settore della distribuzione comincia a ridurre gli ordini alle fabbriche e a chiedere dilazioni di pagamenti alle banche e ai fornitori.

La guerra dei prezzi, che è passata anche al settore produttivo, comincia a mietere le prime vittime nella forma dei concorrenti più piccoli e arretrati. Si contrae la produzione e l’occupazione. Calano gli investimenti. Se il mondo reale comincia a perdere colpi, il circuito del credito non è da meno. Le banche vedono aumentare i clienti che non ripagano i prestiti, le loro attività finanziarie vanno male perché nessuna azienda vuole quotarsi o emettere obbligazioni. In borsa, i risultati deludenti delle aziende, che avendo ridotto i prezzi, devono contrarre i dividendi, portano a un calo dei corsi azionari. Si riduce la ricchezza prospettica oltre che presente, deprimendo ulteriormente i consumi. La prospettiva di nuove riduzioni dei prezzi porta a ritardare le decisioni di acquisto producendo nuovi cali della produzione e così via.

Questo è uno schema generale, ma non è affatto l’unico possibile. La sovrapproduzione di un settore può essere percepita dal basso grado di utilizzo degli impianti già prima che questo cominci a spingere i prezzi verso il basso. Questo può causare un crollo dei corsi azionari preventivo che può innescare una crisi, come accadde nel 1987. Gli economisti e i giornali spiegheranno ovviamente che si tratta di una “bolla speculativa” che nulla ha a che vedere con l’economia “reale”, mentre vi sono connessioni, e profonde. In secondo luogo, una crisi può essere il risultato di una rottura dell’equilibrio internazionale. La crisi dell’egemonia inglese nella seconda metà dell’Ottocento e il crollo di Bretton Woods negli anni ’70 sono due casi del genere.

Di nuovo, questa rottura deriva dallo sviluppo di nuovi settori e nuovi concorrenti che non trovano sufficiente spazio per le proprie merci e si fanno aggressivi. Deriva dal fatto che la struttura istituzionale dominante si rivela ormai inadeguata ai nuovi rapporti di forza intercapitalistici e crolla sotto il peso della sua inadeguatezza. Possiamo trovare una lunga serie di cause scatenanti della crisi, persino le dichiarazioni di un ministro. Esse giocano lo stesso ruolo del casus belli. Come attribuire all’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando la prima guerra mondiale o all’invasione della Polonia la seconda sarebbe peggio che superficiale, inutile, così l’elencazione delle forme fenomeniche della crisi può servire solo come riassunto storico, non come indicazione teorica.

Prendiamo il problema dei prezzi. Generalmente, la sovrapproduzione si riflette in un calo assoluto dei prezzi (deflazione). Ma in un periodo di alta inflazione, questo calo può essere solo relativo, un rallentamento della loro crescita (disinflazione). In settori a rapida innovazione di prodotto può manifestarsi come aumento della qualità del prodotto a parità di prezzo. Inoltre, il calo non è mai uniforme. La carenza di domanda può sentirsi più nel settore delle merci di consumo, se nel periodo precedente i salari si sono ridotti, oppure nel settore dei mezzi di produzione, se un calo del saggio del profitto ha condotto alla tesaurizzazione dei profitti sotto forma di capitale monetario. Infine occorre ricordare una questione connessa al problema della sproporzione.

Come osservò Lenin, la distribuzione della produzione tra i settori è correttamente proporzionale in senso capitalistico quando vi è un saggio medio del profitto uniforme. È la differenza tra i saggi del profitto che conduce al riproporzionamento dei settori, anche se questo movimento assume un carattere di riproporzionamento di merci. Non è la proporzione del consumo che conta, ma quella del profitto.

In definitiva, come è inutile cercare la causa di una guerra in “chi ha sparato per primo”, il modo con cui esploderà la crisi dipende alla situazione degli specifici settori economici, dai rapporti tra le classi e i paesi, e così via. Ma possiamo trarre da questi processi un denominatore comune: la difficoltà a valorizzare ulteriormente il capitale. Questo è il punto centrale da analizzare.

3. La sostanza della crisi

Abbiamo visto come la crisi appare. Adesso cerchiamo di penetrarne l’essenza. Tutta l’economia moderna è un meccanismo per accumulare capitale. Il capitalista è in affari per aumentare il suo denaro, risultato finale dell’accumulazione, tramite l’utilizzo di lavoro salariato. La forza-lavoro, in quanto merce il cui valore d’uso consiste nella valorizzazione di tutte le altre, è la base obiettiva del plusprodotto che, se venduto, diviene profitto. Allo stesso tempo, la concorrenza tra capitalisti spinge ad aumentare l’utilizzo di capitale costante come mezzo per accrescere il rendimento del lavoro. La crescita di quella che Marx definì composizione organica del capitale riduce la base della profittabilità individuale ma ne accresce la potenza sociale.

 Il capitalista innovatore produrrà a un costo reale che è inferiore al costo sociale. Il maggior profitto potrà permettergli di ingaggiare una guerra dei prezzi o investire per ridurre ulteriormente i suoi costi. In entrambi i casi il suo maggior saggio del profitto costringerà i concorrenti a seguirlo. In quel settore assisteremo a una automazione, con la conseguente espulsione massiccia di forza-lavoro. Aumenterà il rendimento del singolo lavoratore e dunque il profitto che chi lo ha assunto ne trae ma si ridurrà la base del profitto: il lavoro umano.

A livello complessivo, l’effetto di questo processo è duplice. Libera forza-lavoro per altri settori, ma se questi settori non sono sufficientemente in espansione, porta a una crescita della disoccupazione e dunque a un calo della domanda effettiva. Le merci, ora prodotte più efficientemente, rimangono invendute. Perciò i capitalisti, per massimizzare i propri profitti devono tenere conto di entrambi i corni del dilemma: ridurre la massa e il saggio del salario per accrescere il rendimento del lavoro; espandere la domanda complessiva per realizzare l’aumento dei profitti che l’accresciuta composizione organica ha prodotto in potenza.

Questo processo demarca i due confini dell’accumulazione capitalistica delineati da Marx. Il processo che conduce alla crisi è determinato da un’unica causa di fondo: l’accumulazione di capitale; ma nelle circostanze storiche date, la crisi può manifestarsi perché il capitalismo incontra lo scoglio di Scilla della eccessiva accumulazione di capitale con conseguente caduta del saggio di profitto che conduce a ridurre gli investimenti; oppure perché incontra  il mostro Cariddi della crisi di realizzo, la sovrapproduzione di merci, dove il basso saggio di profitto appare una conseguenza e non causa della crisi. In entrambi i casi l’aspetto decisivo è la valorizzazione del capitale: il limite del capitale è il capitale stesso. L’aumento dell’accumulazione porta a una caduta tendenziale del saggio del profitto. La crisi emerge nel processo di circolazione che fa parte anch’esso del processo di riproduzione complessiva del capitale, ma si produce nel nucleo dei rapporti di produzione borghesi: la relazione capitale-lavoro.

4. La storia del dibattito

La possibilità di una crisi economica generalizzata, cioè dell’impossibilità di vendere le merci prodotte, nasce con lo scambio stesso e con la creazione del denaro. Come dice Hilferding: “presupposto generale della crisi è lo sdoppiamento della merce in merce e denaro”. Questo sdoppiamento implica anche la dissociazione di produzione e consumo, appunto, la produzione di merci. Il valore di scambio, in quanto porta alla divisione tra acquisto e vendita di un prodotto (non si scambia direttamente lavoro con lavoro o prodotto con prodotto), determina la possibilità di una crisi. Il primo importante dibattito storico sul problema degli “sbocchi”, come veniva definito allora, avvenne all’inizio dell’Ottocento tra Malthus e Ricardo. Malthus, rappresentante scientifico dell’aristocrazia fondiaria, sosteneva l’importanza della domanda aggiuntiva fornita dai rentiers per evitare la saturazione dei mercati. Ricardo, difensore degli interessi della borghesia, attaccava queste pretese come un inutile fardello sulle spalle dell’industria, sostenendo che l’offerta crea automaticamente la propria domanda. Nella storia dell’economia borghese, la posizione di Ricardo, volgarizzata nella cosiddetta “legge di Say”, è stata considerata vangelo per oltre un secolo, fino alle critiche mosse da Keynes.

Marx iniziò ad analizzare il problema della crisi capitalistica sin dal Manifesto, ma non riuscì a completare il quadro dell’analisi a cui stava lavorando. Esso è contenuto nel secondo e terzo libro del Capitale e nei suoi appunti preparatori (i Grundrisse). Marx spiegò che le crisi sono insieme crisi di sovrapproduzione, sottoconsumo, sovrainvestimento, sovracapacità, sproporzione, domanda, saggio del profitto. Sottolineò inoltre che la crisi in sé pone solo la necessità storica di una trasformazione sociale, ma non la risolve. È l’azione cosciente dei lavoratori che pone fine, tramite la rivoluzione, alle crisi stesse. Per questo, descrivendo le ragioni per cui le crisi economiche assumono una forma più o meno distruttiva, Marx negò la possibilità di un crollo automatico del capitalismo.

Le correnti revisioniste che presero il controllo della Seconda Internazionale dopo la morte di Engels utilizzarono questa mancanza di una fine automatica come “prova” della non necessità storica di rovesciare il capitalismo e della validità del riformismo. Alcuni dirigenti reagirono a questa impostazione attribuendo a Marx l’idea del crollo finale del sistema capitalistico. Seguì un aspro dibattito in cui i riformisti usarono il periodo di prolungata ascesa capitalistica seguito alla Comune di Parigi come dimostrazione definitiva che il capitalismo aveva cessato il suo operare ciclico e contraddittorio. La prima guerra mondiale fornì una risposta storica e inconfutabile sul funzionamento del capitalismo nella sua epoca imperialista.

Se in Marx la concezione della crisi era complessa ma unitaria, l’impostazione tipica degli economisti “marxisti” del XX secolo è stata di prendere un aspetto e isolarlo dal resto. Così abbiamo visto sorgere la teoria del sottoconsumo, della sproporzione, del calo del saggio del profitto. A grandi linee possiamo dividere queste teorie come segue.

a)    teoria della sproporzione

Il primo a proporre questa teoria fu l’economista neoricardiano Tugan-Baranovskij. Secondo la sua tesi, è l’anarchia nell’allocazione della forza-lavoro che conduce al disequilibrio nello sviluppo dei diversi settori. Hilferding fu tra quelli che svilupparono questa idea. Le conseguenze politiche di tale posizione sono chiare: il capitalismo ha solo dei problemi di “coordinamento”. Se lo Stato o la monopolizzazione dell’economia portassero ad una regolazione almeno parziale del flusso degli investimenti, le sproporzioni sparirebbero. È dunque una giustificazione storica del riformismo: basta correggere le disarmonie del sistema e il capitalismo si svilupperà senza problemi. Torneremo sul problema della sproporzione discutendo degli schemi di riproduzione. Giova sin d’ora osservare che a queste tesi aveva comunque già risposto Marx:

“quando si afferma che non si tratta di una sovrapproduzione generale, ma di una mancanza di proporzione fra i diversi rami di produzione, si afferma semplicemente che nella produzione capitalistica la proporzionalità dei diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione: poiché qui il nesso interno della produzione complessiva si impone agli agenti della produzione come una legge cieca, e non come un legge che, compresa e dominata dal loro intelletto associato, sottometta il processo di produzione al loro comune controllo.”[8]

b)    il sottoconsumo

Reagendo a questa degenerazione del marxismo, Rosa Luxemburg cercò di mostrare che il punto non era la sproporzione ma il realizzo del plusvalore. La Luxemburg sottolineò giustamente la tendenza del capitalismo a espandere la produzione di merci oltre le risorse della domanda e dunque evidenziò che il sottoconsumo è una sproporzione radicata, necessaria, del capitalismo e non un caso. Non è un problema di non pianificazione ma della natura del capitalismo. In quanto i lavoratori non possono comprare tutto il prodotto del loro lavoro, i capitalisti possono vendere tutta le loro merci solo attraverso lo scambio con settori extracapitalistici, ovvero con paesi ancora al di fuori dell’orbita della produzione di merci.

Di qui la necessità di sviluppare imperi coloniali. Finito l’assorbimento di questi territori, il capitalismo avrebbe affrontato una crisi senza via di uscita. Sebbene la conclusione politica che Rosa Luxemburg traeva da queste osservazioni fosse generalmente corretta, lo schema concettuale luxemburghiano era incoerente. Rosa non capì l’indicazione di metodo di Marx: nel discutere degli schemi di riproduzione occorre astrarre dal commercio estero. Infatti, innanzitutto, un paese non può esportare senza importare in proporzioni analoghe; in secondo luogo, se escludiamo l’appropriazione con mezzi fraudolenti (furti, guerre) il commercio con zone extracapitalistiche dovrà pure condurre a uno scambio. Come notò l’economista marxista Sweezy:

“nel discutere la riproduzione allargata, Luxemburg mantiene implicitamente l’ipotesi di una riproduzione semplice. Il dogma, che essa non mette neanche per un momento in dubbio, che il consumo dei lavoratori non può realizzare nessuna parte di plusvalore, implica che il totale ammontare del capitale variabile e, quindi, il consumo dei lavoratori, debba rimanere fisso e costante, come nella riproduzione semplice. Invece, è proprio tipico dell’accumulazione l’implicare delle aggiunte al capitale variabile e, quando questo capitale variabile addizionale è speso dai lavoratori, esso non fa che realizzare una parte di plusvalore che ha la forma materiale di beni di consumo.”[9]

L’idea del sottoconsumo ha avuto molti estimatori anche nel dopoguerra tra cui lo stesso Sweezy[10], Baran e altri. Essa fu criticata sia dai riformisti che dai rivoluzionari. Bauer e altri austromarxisti sottolinearono le incoerenze logiche della teoria per sottolineare la possibilità del capitalismo di svilupparsi con qualche correttivo. In quello stesso periodo, in Russia i marxisti erano impegnati su un fronte opposto. Se a occidente il problema era la fine del capitalismo, in Russia era il suo avvio. Per decenni i narodniki, la corrente populista che raccoglieva gran parte degli intellettuali e dei militanti rivoluzionari, avevano sostenuto che le peculiarità russe avrebbero impedito il radicarsi della produzione borghese.

Uno degli argomenti con cui difendevano questa posizione era appunto l’impossibilità di espandere i mercati sulla base del capitalismo. Lenin condusse una battaglia teorica che durò decenni per dimostrare che il capitalismo stava avanzando a passi da gigante nelle campagne russe e che dunque i rivoluzionari russi avrebbero dovuto imparare dalle esperienze dei loro compagni occidentali e non restare ancorati ai metodi cospirativi tipici dei populisti.

Rispondendo ai narodniki, Lenin espose la natura degli schemi di riproduzione, avvertendo tuttavia che di questi strumenti non se ne può fare un uso apologetico se non modificando le ipotesi che sono alla loro base. I bolscevichi ricordarono che, sebbene Rosa Luxemburg sottolineasse a ragione il ruolo dell’imperialismo come fattore che frena la caduta del saggio di profitto, non esiste la crisi finale del capitalismo. In mezzo a questa battaglia, che vedeva, seppure con alcune divergenze teoriche, Rosa Luxemburg e i bolscevichi fare fronte comune contro i revisionisti, i centristi stavano in mezzo anche nelle loro posizioni teoriche. Kautsky propose così una teoria della crisi “multicausale”, in cui, per non scontentare nessuno, si dava importanza a tutti i fattori.

A proposito sia della teoria della sproporzione che del sottoconsumo occorre osservare una loro debolezza logica. Una teoria delle crisi cicliche deve spiegare la prosperità così come la depressione. Ma la prosperità sarebbe inspiegabile se il sottoconsumo o le sproporzioni conducessero di per sé alla crisi, dato che la prima crisi sarebbe anche l’ultima. Mentre il capitalismo si sviluppa, seppure per mezzo delle crisi. Ciò avviene attraverso la crescita della produttività del lavoro che diminuisce il valore della forza-lavoro senza ridurre il livello di vita assoluto dei lavoratori. Il sottoconsumo e la sproporzione sono i termini direttamente osservabili sul mercato, della crisi capitalistica, ma non la sua essenza.

c)    teoria della mancanza di forza-lavoro

 

L’austromarxista Otto Bauer, criticando Rosa Luxemburg, propose un modello in base al quale la crisi derivava dal fatto che la crescita della popolazione non era proporzionata alla crescita della produzione. Cercò anche di dimostrare che tutte le altre teorie della crisi erano fallaci. Henryk Grossman dimostrò che questa tesi aveva ipotesi assolutamente arbitrarie (come l’idea che ci fosse invarianza nella produttività) ma che pur prendendo queste ipotesi per buone, il modello produceva l’azzeramento del saggio di profitto dopo un certo numero di anni. Usò questa conclusione altrettanto arbitraria come “prova” dell’inevitabile crollo del capitalismo.

Negli anni ‘70, una leva di economisti inglesi radicali (Glynn, Sutcliffe, Rowthorn, Boddy e Crotty) riprese parzialmente l’idea, proponendo la teoria del “profit squeeze” secondo la quale la crisi derivava dagli ostacoli che la piena occupazione e la forza della classe operaia davano ad un aumento della produzione e della produttività. I marxisti discussero ampiamente di questa tesi, come vedremo più avanti.

d)    la teoria dell’aumento della composizione organica del capitale

Diversi economisti, a partire da Preiser, legarono la crisi direttamente all’aumento della composizione organica del capitale. Naturalmente, la legge della caduta tendenziale agisce su tempi lunghi, ma circostanze contingenti possono condurre all’operare congiunto e repentino delle sue conseguenze. Tra gli economisti che hanno connesso la teoria della crisi alla caduta tendenziale del saggio di profitto ritroviamo Dobb, Mattick, Yaffe e Shaikh.

5. Il ruolo della moneta, del credito e della finanza

Le crisi di sovrapproduzione sono una caratteristica del capitalismo. La crisi è causata dalla contraddizione sociale di forze produttive ormai sviluppate oltre i rapporti di produzione borghesi, ma si manifesta, come detto, con la presenza di merci invendute, o impianti inutilizzati. La storia ha fornito una dimostrazione inconfutabile dell’esistenza di crisi, con ciò togliendo ogni validità scientifica alla “legge di Say”, ma sotto il profilo teorico la negazione che i continuatori di Say fanno della crisi si basa sulla negazione del ruolo di merce particolare della moneta. In sostanza, lo strumento teorico con cui veniva difesa la “legge di Say” è lo stesso usato ancora oggi: la teoria quantitativa della moneta. Se la moneta è solo un tramite dello scambio, se la circolazione monetaria è solo una trasposizione moderna del baratto, non si può dare una crisi generale dei mercati.

Negando l’aspetto peculiare, l’essenza stessa della moneta, e riducendola a puro simbolo, è possibile ipotizzare l’inesistenza di crisi, impedendosi però di comprendere il capitalismo. Il punto è capire di che cosa la moneta è un simbolo. Il denaro è equivalente generale perché è innanzitutto una merce particolare. Ma non appena il processo storico lo conduce a rappresentare i valori di scambio di tutte le merci, esso tende irresistibilmente a diventare simbolo, a “entrare in conflitto con la sua esistenza reale”, come dice Marx.

Le esplosioni cicliche delle bolle speculative non sono che l’ultimo prodotto di questo processo. La stessa esistenza del denaro contiene in nuce la finanziarizzazione del capitalismo, il suo dimenticare la produzione, l’ideale utopico del denaro che produce se stesso. L’oro già dall’antichità divenne simbolo della ricchezza, il cui valore era stabilito dalla legge. Ma nessuno Stato, per quanto potente, ha mai potuto impedire che il prezzo dell’oro tendesse al suo vero costo sociale. Quando la produzione capitalistica si sviluppò troppo per potersi accontentare dell’oro, ai movimenti dei prezzi dei metalli preziosi dell’oro si sostituirono i movimenti dei tassi di cambio, delle borse, degli spread sulle obbligazioni statali. Ma il processo storico rimane lo stesso.

Non appena un simbolo circola quale oro, è posta la possibilità e subito dopo l’inevitabilità del distacco tra simbolo e realtà. Il potere dello Stato di dare valore al denaro “è semplice parvenza”, come i molteplici processi inflattivi del ventesimo secolo dimostrano bene. La carta moneta incorpora un’ulteriore reificazione. L’oro circola per il suo valore, ma la carta assume valore solo in quanto circola. Sembra così rovesciare le leggi economiche, e al capitalista ciò appare come moneta-velo, moneta puro numerario.

Le crisi economiche si incaricano di dimostrare che questo “velo” nasconde alla mente apologetica dell’economista il vero funzionamento del modo di produzione borghese. È in questo senso che la moneta è un simbolo: essa è un simbolo del concreto livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Ma la moneta non è solo circolazione delle merci già prodotte, ma protende il suo operare al futuro, è credito. Spiega Marx:

“Il denaro svolge la sua funzione di mezzo di circolazione in due sfere diverse, quella della circolazione del capitale e quella della circolazione del reddito; nella prima esso circola essenzialmente come mezzo di pagamento, nella seconda come mezzo d’acquisto. Abbiamo anche visto che, nel lungo periodo, la quantità di denaro necessaria al commercio si riduce sempre di più con lo sviluppo del capitalismo, e con la collaterale evoluzione dell’economia dei pagamenti. Oltre a ciò, essa è determinata dallo stato degli affari del momento, e quindi dallo stato del credito, cioè dalla fiducia e dalla possibilità che una persona ha di affidare le proprie merci ad un’altra persona dietro una promessa di pagamento. Perciò, per conoscere il modo in cui varia lo stato del credito e, dall’altro, vedere da che cosa dipende la domanda di mezzi di circolazione da parte della sfera del reddito.”[11]

Il denaro è appunto insieme mezzo di pagamento per il presente e strumento di espansione della produzione futura. Non appena il denaro assume un’esistenza indipendente dal suo valore metallico, divenendo l’autorità indipendente delle merci, si origina la possibilità di dividere il momento della vendita e dell’acquisto. Si può acquistare o vendere una merce che ancora non esiste, si può far circolare una merce con denaro che rappresenta uno sviluppo delle forze produttive che non si è ancora materialmente dato nella società.

Questa spaccatura crea le figure di debitore e creditore ed è la base naturale del sistema del credito. Se la massa dei pagamenti fornisce la base iniziale della massa del denaro circolante, l’uso del credito spezza questo rapporto, lo rende flessibile. Il credito è una ricevuta su una quota del prodotto sociale che ancora non esiste (profitti, se è credito alla produzione, salari, se credito al consumo). In quanto la natura anarchica della produzione capitalistica rende impossibile la determinazione di questo prodotto futuro, e per l’operare della concorrenza tra le banche, il credito può ampliare le fluttuazioni del ciclo, ma non può eliminarlo.

Non appena il denaro diviene indipendente dalle merci, esso acquisisce una figura che se ne occupa specificamente: il banchiere. I rapporti tra capitale industriale e creditizio, ai tempi di Marx ancora nettamente separati, decidono della distribuzione dei profitti all’interno della borghesia. Osserva Marx:

“La questione della relazione tra accumulazione reale e accumulazione monetaria è così ridotta alla questione della relazione tra accumulazione del capitale monetario e a prestito e accumulazione reale.”[12]

I rapporti di forza determinano se l’interesse è lo 0 o il 100% del profitto. Questi rapporti, generalmente, seguono il ciclo economico. Tipicamente, durante le crisi i tassi si riducono per il crollo della domanda (di investimenti e di consumi) per le manovre espansive delle autorità monetarie che assecondano la naturale discesa dei tassi incrementando la liquidità in circolazione.

Nella misura in cui si rafforza ed espande la ripresa, i tassi crescono attirando in un vortice nuovi capitali fino alla saturazione del mercato: il capitale da prestito comincia a scarseggiare e perciò gli speculatori diventano sempre più importanti. All’approssimarsi della crisi il saggio d’interesse sale perché a tutti serve denaro per pagare onde evitare il fallimento. Arrivati al picco del boom, il capitale da prestito scarseggia, il saggio d’interesse sale. Marx sintetizza questa idea così:

“L’accumulazione di capitale monetario da prestito, il cui indice è il saggio d’interesse, e l’accumulazione reale hanno quindi un andamento opposto lungo il ciclo; e perciò naturalmente si incontrano in un punto.”[13]

Con lo sviluppo del capitale finanziario e dei mercati finanziari, questa osservazione si mantiene valida, ma emerge con una maggiore varietà fenomenica. Lo sviluppo dei mercati finanziari e dunque delle diverse forme di finanziamento dell’accumulazione, influenza l’andamento del capitale da prestito e slega ancor più capitale reale e monetario. Ma in sintesi rimane il fatto che tutto il denaro che non diventa capitale produttivo di plusvalore rimane capitale fittizio. La questione è: che differenza esiste, sotto il profilo della sua remunerazione, tra capitale produttivo e capitale fittizio? Questo è un punto centrale. Per rispondervi cominciamo con l’analisi che Marx fa della teoria quantitativa della moneta.

Per gli economisti che modernamente si chiamano “monetaristi”, ovvero che sostengono la teoria quantitativa della moneta[14], i fenomeni della circolazione monetaria spiegano tutto il resto: defluisce l’oro e causa la crisi anziché viceversa, aumenta l’offerta di moneta e c’è inflazione anziché viceversa. Se ci si pensa, questa impostazione è naturale nel senso di connaturata allo spirito reificato del borghese. Poiché appare alla coscienza umana un deflusso di moneta in concomitanza con una riduzione dell’attività economica, questa è causata dalla moneta, la moneta è una potenza autonoma nelle vicende umane.

Questa glorificazione del denaro, che diviene una divinità che interviene nelle vicende dell’uomo con la stessa importanza e imprevedibilità di un dio olimpico, non è che il riflesso della funzione storica del capitale: la centralizzazione delle risorse sociali a fini di sviluppo delle forze produttive: “Accumulate, accumulate! Questa è la legge e questo dicono i profeti”. Che cosa rappresenta questa teoria? Essa fornisce al denaro un ruolo indipendente, originario. Le variazioni della quantità di denaro circolante producono i cambiamenti nella ricchezza di una nazione. Il denaro non è più un equivalente, ma sono le merci a dipendere dal suo valore.

Questa teoria è dunque l’espressione massima del feticismo delle merci, della reificazione cui sottostà la mente dell’intellettuale borghese. Nel processo di scambio le merci sono solo quantità di denaro. Qui si fa un altro passo: ciò che le merci sono dipende dal denaro. Non a caso tra i primi a sviluppare questa teoria vi fu il vescovo Berkeley, fondatore dell’idealismo soggettivo. Idealista in filosofia, monetarista in economia. In questa visione il denaro è un rappresentante ideale, solo un nome e dunque può idealmente anche essere eliminato per far posto allo scambio diretto di merci.

Quello che questi signori dimenticano è che nel capitalismo non circolano valori d’uso ma di scambio. Senza denaro si perderebbe la connessione tra i produttori, il carattere mediatamente sociale del lavoro. È il denaro che ricompone la divisione del lavoro e permette così al mercato di far circolare non solo prodotti, ma quote di lavoro socialmente necessario. La funzione del denaro subisce un capovolgimento nella testa dell’intellettuale borghese, divenendo insieme arbitro delle vicende umane e un futile simbolo. Occorre rovesciare la prospettiva per comprendere la sua vera funzione.

Come dice Marx “i prezzi non sono quindi alti o bassi perché circola più o meno denaro, bensì circola più o meno denaro perché i prezzi sono alti o bassi”[15]. Il denaro, quando “i prezzi sono bassi”, ovvero c’è crisi economica, si ritrae dalla circolazione, viene utilizzato in altro modo (all’epoca di Marx veniva tesoreggiato come oro, oggi finisce come capitale fittizio in qualche segmento dei mercati finanziari). Per questo gli alti e bassi della speculazione sono intrinsecamente connessi all’andamento della produzione reale.

Questa connessione è totalmente persa dalla economia borghese e non a caso. Al capitalista non interessa la specifica forma e composizione del suo capitale, ma solo la sua grandezza e si attende una identica remunerazione per pari quantità di capitale, a prescindere dal settore in cui vengono investiti i denari. Che si investa per aprire una fabbrica, acquistare titoli in borsa, comprare un immobile, ci si attende un’uguale remunerazione. Il profitto, l’interesse, la rendita sono la stessa cosa. Non ragionava così l’industriale dei tempi di Ricardo, quando la borghesia considerava suoi nemici giurati i rentiers, i banchieri, il re, il prete e tutti gli altri che osavano pretendere una quota dei suoi profitti solo perché le terre erano scarse o perché dovevano mantenere la corte. Non a caso nei classici (soprattutto Smith e Ricardo), la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo è rigorosa.

Ma la borghesia della fase imperialista è una cosa sola con i rentiers, i banchieri, lo Stato. In un certo senso tutti i capitalisti sono rentiers al giorno d’oggi. Soprattutto i grandi capitalisti, che lasciano spesso la cura delle proprie aziende a manager ben pagati, ritornando alla vecchia idea della Roma antica che l’ozio sia la virtù suprema. Alla teoria borghese, che vede l’interesse come la remunerazione di una parte del capitale al pari del profitto, Marx obietta che il saggio d’interesse è un fenomeno puramente monetario, connesso con la domanda e l’offerta di capitale monetario. Esso è una deduzione e non una componente dei profitti, come le tasse.

A sua volta, domanda e offerta di capitale monetario dipenderanno dal ciclo. Le variazioni del saggio d’interesse dipenderanno dall’andamento dell’economia. Infatti, all’apice del boom, la speculazione è frenetica, e innesca la sovraccumulazione. La concorrenza tra i banchieri rende convenienti progetti sempre meno redditizi. La speculazione, nella misura in cui si rivolge a nuovi settori, finanzia una diminuzione della composizione organica del capitale, perché nei nuovi settori la concentrazione del capitale è minore, i profitti così sono maggiori e possono ripagare interessi più elevati.

Quando la speculazione comincia a dare segni di cedimento e i valori mobiliari cominciano a perdere terreno, si innesca una spirale deflazionistica che porta al crollo del saggio del profitto, della domanda, dell’occupazione. Le banche non prestano più, la borsa crolla. Che cos’è dunque una crisi finanziaria se non l’esito dello sviluppo di un nuovo settore? Gli economisti ovviamente, finita la sbornia del crollo di borsa, osserveranno saggiamente che se lo Stato e le banche centrali fossero riuscite a impedire un “eccessivo” afflusso di capitale, questi settori avrebbero potuto crescere in modo equilibrato. Ma “se” ciò accadesse verrebbe meno l’anarchia della produzione, il capitalismo stesso.

Non si può impedire la concorrenza, non si può impedire al capitale di muoversi verso settori a più alta remunerazione. L’enorme afflusso di denaro, qualunque forma tecnica assuma, sviluppa una bolla speculativa che attrae nuovo denaro. Alla fine, dopo mesi o anni, gli investimenti ridurranno il saggio di profitto; ciò segnalerà che la concorrenza ha svolto il suo ruolo necessario di imporre la legge dell’uniformità del saggio di profitto, ma a che prezzo! La speculazione, ovvero il finanziamento di un settore al di fuori di ogni “ragionevole aspettativa” gioca un ruolo necessario nel capitalismo, permettendo al capitale di muoversi tra i settori. Certamente, con il senno di poi è facile accorgersi dell’assurdità di certe previsioni. Soprattutto per chi ha fatto quelle sbagliate. Il capitalismo non può esistere senza rivoluzionare continuamente le forze produttive, sottolineava Marx.

Questa trasformazione incessante avviene necessariamente a ondate di crescita impetuosa di nuovi settori e di riconduzione a unità dei mille capitali. La sproporzione è dunque inevitabile, perché, come scrisse Carli, “se lo sviluppo è rapido non è bilanciato; se è bilanciato, non è rapido”. Gli esempi di “pazzia delle folle” sono antiche quanto il capitalismo stesso. Dopo ogni episodio i capitalisti si ripetono che non cadranno più nell’errore e che saranno più equilibrati la prossima volta. Come se fosse la loro opinione soggettiva a decidere dell’economia. Al ciclo successivo, quando la speculazione è al suo apice, li sentiamo sottolineare la diversità di questo ciclo e il fatto che “tutti si stanno gettando a capofitto in questo nuovo settore e dunque...”. Ogni episodio del genere, dalla Tulipanomania olandese del XVII secolo alla bolla delle “dot.com” del 2000, è noiosamente simile al precedente. Un brano tratto da un processo speculativo del 1720 descrive perfettamente ogni episodio del genere:

“Partirono altri progetti, del tipo più strano…nascevano ovunque innumerevoli compagnie per azioni…alcune di esse durarono una settimana o due, e non se ne sentì più parlare…C’erano quasi cento diversi progetti, uno più dispendioso e campato in aria dell’altro…Alcuni di questi progetti erano abbastanza plausibili e, se non fossero stati intrapresi in un momento in cui l’opinione pubblica era così sovraeccitata, si sarebbe potuto portarli avanti con vantaggio di tutti gli interessati…Uno di questi fu un progetto relativo a una ruota in moto perpetuo…ma la più assurda e ridicola di tutte, e che mostrava più efficacemente di qualsiasi altra la completa follia della gente, era una compagnia costituita da uno sconosciuto avventuriero, chiamata una “compagnia che si propone di portare avanti un’impresa altamente conveniente, ma che nessuno sa cosa sia”.”[16]

Appunto, come sul Nasdaq fino a ieri.

Il credito e la speculazione, in quanto ampliano enormemente il raggio d’azione del capitale, consentono alle sue leggi di operare con maggior forza e regolarità. Consentono anche, in alcune circostanze, di attenuare gli effetti di queste leggi. In nessun modo possono sbarazzarsene; come osservò Marx, “le leggi di natura non possono mai essere annullate”. Storicamente, il capitalista nasce in contrapposizione al banchiere. Nell’epoca imperialista le due figure si fondono. La classe capitalista intera diviene una classe di speculatori, senza alcun legame necessario con la produzione. Ne deriva un’ideologia alienata in cui la produzione non è più la base del profitto, come negli economisti classici, ma un’inutile perdita di tempo.

Il peso della finanza e del capitale fittizio crescono inesorabilmente. La massa di capitale accumulato è tale, la sua concentrazione così elevata, che i mercati finanziari sono ormai enormemente più grandi dell’economia reale. È difficile sommare il loro valore, data la complessità degli strumenti finanziari moderni e il loro collegamento funzionale. Ad ogni modo parliamo di qualcosa come venti, trenta volte il Pil mondiale, forse cento. E la crescita avviene a ritmi forsennati.

Tutto ciò che riguarda la moneta è ormai fuori scala. La moneta stessa, in primo luogo. Ancora negli anni ’90 la quantità di moneta dei paesi più avanzati si aggirava fra il 65 e il 70% del Pil. Ora supera l’80%. L’incremento della massa monetaria degli ultimi 5 anni è stato maggiore che nei precedenti venti. Il credito è fuori controllo. Quello degli Stati, delle famiglie, delle imprese. Infine, la finanza nel suo complesso è fuori controllo, con oltre il 95% delle transazioni che avvengono sui mercati mondiali aventi natura finanziaria e non più reale. Che cos’è la finanziarizzazione dell’economia se non l’estrema forma di concentrazione del capitale e la dimostrazione più palese del suo parassitismo?

6. La teoria del valore e la teoria delle crisi

Nel capitalismo non avviene alcuna suddivisione cosciente delle forze produttive tra i diversi settori economici. Questa suddivisione avviene attraverso il sistema dei prezzi. In questo senso la legge del valore (cioè la modalità capitalistica di scambio di merci) è una relazione sociale fra le classi, è la forma che la divisione sociale del lavoro tra le classi prende in una società in cui la produzione si svolge in unità indipendenti non coordinate ma concorrenti tra loro. I prezzi regolano i flussi degli investimenti di capitale in quanto incorporano un determinato saggio del profitto. I settori in cui i prezzi sono “alti” (cioè il saggio del profitto maggiore della media), attirano nuovi investimenti. L’afflusso di capitali, accrescendo la produzione, ridurrà il saggio del profitto.

Questo incessante movimento riconduce a unità l’anarchia della produzione capitalistica creando un saggio medio del profitto. Questo non significa che in un momento dato tutti i settori hanno lo stesso saggio del profitto, e nemmeno che operi sempre una livellazione dei diversi saggi. Possono esserci, ad esempio, settori protetti dalla concorrenza, cartelli dei produttori, e così via. Ma la tendenza è una pressione che cerca di aggirare ogni ostacolo. Alla fine anche il monopolio più resistente si rompe, il tentativo dei capitalisti di entrare nei settori più profittevoli si serve di ogni mezzo. In quanto la legge del valore è una legge che regola la società, il funzionamento della legge non procede aggregando singoli prezzi, ma disaggregando il valore sociale complessivo della produzione.

Come osserva Hilferding: “la legge del valore non regola direttamente i singoli atti di scambio, ma soltanto la loro totalità, da cui viene determinato il singolo atto di scambio, in quanto momento di quella totalità”. Questo significa anche che il saggio del profitto non è legato per il capitalista, alla composizione organica del suo capitale. Ogni investitore aspetta legittimamente un profitto commisurato alla grandezza investimento non alla sua natura specifica. Ogni capitalista ritrae dalla produzione in misura del capitale con cui vi partecipa e non in base al plusvalore effettivamente estratto nella produzione. Questa uniformità è “giusta” nel senso che rispecchia il grado di sviluppo delle forze produttive del sistema borghese. Essa comporta un deflusso di plusvalore dai settori e produttori più arretrati a quelli più avanzati, spingendo costantemente per il rivoluzionamento delle forze produttive.

Nel capitalismo, i valori assumono la forma monetaria del prezzo, e la sostanza di valore (il lavoro astratto) è nascosta sotto la legge della remunerazione uniforme del profitto. Il movimento del denaro tra i diversi settori economici uniforma il saggio di profitto. Al posto del lavoro non pagato concretamente estratto nelle aziende, alla superficie della circolazione abbiamo movimenti di denaro. La legge del valore, che come detto è una legge che regola i rapporti tra le classi, appare come una questione connessa ai prezzi delle merci, al mercato. Questa apparenza, come sempre, diviene la vera realtà dell’economista che ignora tutto ciò che non è dato immediatamente sul mercato. Marx spiega invece che sotto il livello dei prezzi vi è la realtà dei valori, ovvero dello sfruttamento del proletariato.

Nel terzo libro del Capitale Marx analizza il rapporto tra valori e prezzi sia in termini storici che analitici. Cerca anche di dare una rappresentazione matematica di questa relazione[17]. Questa idea di connettere matematicamente valori e prezzi ha aperto una lunga controversia teorica nota come problema della trasformazione. Ai fini del presente lavoro, l’aspetto che interessa di questa controversia è come nel capitalismo avviene concretamente il passaggio dalla realtà del valore, cioè del lavoro estorto senza compenso, a quella dei prezzi, cioè di quantità monetarie.

Non essendoci una divisione cosciente del lavoro, questo rapporto è anarchico. La sostanza del valore (il lavoro astratto) la cui totalità domina entrambi i piani, ovvero determina il plusvalore e il profitto, non è divisa secondo un progetto cosciente. Ne risultano, appunto, crisi. Un settore ha prodotto “troppo”, una merce costa “troppo”, un’altra (i salari) costa “poco” e non può scambiarsi adeguatamente con le altre e così via. Quando queste sproporzioni si fanno eclatanti, come vengono eliminate? Attraverso la crisi.

La crisi economica è il metodo capitalistico di ricomposizione reale dei produttori, è il modo con cui nella realtà avviene la trasformazione dei valori ai prezzi. Sottolineando il furto di plusvalore che avviene ai danni dei capitalisti meno innovativi (sia tra settori, sia tra paesi, sia all’interno dello stesso settore) si spiega la spinta costante a rivoluzionare i metodi di produzione. In questa corsa rimangono indietro i capitalisti che non hanno sufficienti capitali da gettare nella competizione. Il sistema finanziario, e in particolare la borsa, consentendo una circolazione estremamente rapida del denaro, cioè dell’esito finale del processo di produzione capitalistico, rendono il furto, cioè la ridistribuzione, tecnicamente efficiente.

Questa efficienza non è però un’efficienza assoluta, ma un’efficienza che rimane nel perimetro capitalistico. Ciò significa che non può condurre ad un corretto riproporzionamento del lavoro sociale tra i settori o nei rapporti tra salari e profitti. Nonostante le raffinatezze della finanza, occorre perciò un metodo più brutale per ricondurre l’anarchia della produzione alle leggi di natura che non possono essere annullate. Questo metodo è la crisi.

Durante le crisi si regolano bruscamente i conti tra capitalisti. Interi settori vengono spazzati via, i produttori più inefficienti vengono comprati o distrutti, guerre commerciali o scontri militari veri e propri distruggono forze produttive e insieme rami secchi. Insomma, le sproporzioni tra i vari settori, l’anarchia con cui si sviluppa il sistema, vengono ricondotte alle necessità dello sviluppo generale in uno scontro violento, in una guerra di tutti contro tutti che si svolge non solo tra classe operaia e capitalisti, ma anche tra paesi e tra settori. Non a caso le grandi crisi del capitalismo sono periodi in cui sorgono nuove branche della produzione, e insieme sono periodi di guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni. Qual è dunque la “soluzione” cui il capitalismo ricorre per ricondurre i prezzi ai valori, se così vogliamo dire, cioè per eliminare le distorsioni del sistema? La crisi economica.

7. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto

Il lavoro umano è la linfa vitale del processo di valorizzazione, il tocco di Re Mida che trasforma i mezzi di produzione in profitti. La concorrenza tende inesorabilmente ad accrescere la quota del capitale costante sul totale del capitale investito. Tendenzialmente, questo comporta una riduzione del saggio del profitto. Questa tendenza non è una peculiarità storica del capitalismo; essa rappresenta piuttosto la forma specifica con cui si esprime una legge più generale: l’aumento della produttività del lavoro umano, che Marx considera l’essenza stessa dell’economia.

Questo aumento può prendere diverse forme: la riduzione della giornata lavorativa, il miglioramento del tenore di vita, ecc. Il capitalismo la esprime attraverso l’indicatore più importante dei rapporti di produzione borghesi: il saggio di profitto. Questa legge non esprime dunque la decadenza sociale del capitalismo, ma al contrario ne sottolinea il rimarchevole successo nello sviluppo delle forze produttive e insieme il suo carattere contraddittorio: lo sviluppo delle forze produttive rende più difficile la valorizzazione del capitale. Il capitalista cerca di resistere a questa tendenza attraverso una serie di misure che Marx chiama “cause antagonistiche” della legge[18].

Possiamo riassumerle brevemente come segue:

a)    aumento dell’estrazione di plusvalore assoluto

Questo si ottiene tramite l’allungamento della giornata lavorativa o la riduzione diretta del salario. Storicamente, questa controtendenza è tipica dei periodi di riflusso del movimento operaio, quando una sconfitta storica apre la strada a un arretramento significativo delle condizioni di vita dei lavoratori. Anche l’inflazione, riducendo i salari reali, è un mezzo per accrescere il plusvalore assoluto, ma solo a scapito di un generale caos economico, massimo negli episodi storici di iperinflazione.

L’uso del trucco, proposto tra gli altri da Keynes, di ridurre i salari reali senza abbassare la paga nominale, era già ben noto al movimento operaio internazionale. Ad esempio nella piattaforma dell’Internazionale Comunista stilata per il suo primo congresso del 1919 si spiega: “le lotte degli operai per l’aumento dei salari non comportano - anche in caso di successo - lo sperato miglioramento delle condizioni di vita, giacché l’immediato aumento del costo dei beni di consumo rende illusorio ogni successo”. Ai fini della crisi da realizzo occorrerebbe dunque aumentare i salari, ma poiché nessun capitalista farà per primo questo passo, è lo Stato che di solito propone una misura del genere. Questo oggi è reso di fatto impossibile dalla concorrenza internazionale.

b)    aumento dell’estrazione di plusvalore relativo, ovvero del grado di sfruttamento del lavoro

Mentre per ottenere la crescita del plusvalore assoluto è sufficiente non pagare gli straordinari, in questo caso il capitalista deve investire e, a meno che non si trovi in un settore a rapida crescita, deve licenziare. Il licenziamento aiuta ad accrescere le pressioni sulla classe lavoratrice conducendo ad una riduzione dei salari. Questo dimostra l’operare spesso combinato dell’estrazione di plusvalore assoluto e relativo. Come notò Marx, dopo ogni sciopero compare una nuova macchina. Ma quando la sovrappopolazione relativa dei paesi avanzati non è sufficiente a tenere bassi i salari, il capitalismo ricorre all’espansione della produzione all’estero. Per questo il rafforzamento della forza contrattuale dei sindacati nei primi paesi imperialisti è strettamente connessa all’esportazione di capitale nei paesi arretrati e alla crescita del commercio estero (che aiutò anche ad aumentare la scala della produzione).

c)    svalorizzazione del capitale fisso, ovvero diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante

Nel capitalismo il valore d’uso è solo un veicolo del valore di scambio. Per i macchinari e il capitale costante in genere ciò significa che la loro utilità nel valorizzare il capitale è funzione del loro rendimento relativo, non assoluto. Il costo sociale di una merce è il costo di riprodurla nelle condizioni medie dominanti nella società, non il suo costo storico. Ciò significa che se inizia a diffondersi un macchinario che diminuisce significativamente il costo di produzione, le merci prodotte alle vecchie condizioni andranno fuori mercato.

Pertanto. per vendere al nuovo costo sociale, i proprietari dei vecchi macchinari dovranno accettare un ammortamento solo parziale del capitale costante oggettivamente impiegato o rinunciare ai loro profitti. Anche se tecnicamente il vecchio macchinario potrebbe ancora produrre per anni, deve essere rapidamente sostituito per non spingere il suo proprietario fuori mercato. Ovviamente, l’entrata di un nuovo metodo produttivo non svalorizza istantaneamente il capitale fisso già installato. Ci vuole tempo perché la nuova invenzione entri in funzione ovunque e molti produttori non la adotteranno mai, perché nel frattempo falliranno. Per questo Marx parlava di condizioni “medie” della produzione.

Chiaramente, il capitalista che vede scomparire parte del capitale costante per l’arrivo di nuovi metodi di produzione non può chiedere indietro i soldi a chi gli vendette il macchinario. Dovrà accelerare il tempo di ammortamento del capitale costante. Questa accelerazione servirà a introdurre nuovi macchinari, ovvero ad aumentare la composizione organica del capitale. Accanto alla svalorizzazione degli elementi del capitale fisso (e costante in generale) vi può poi essere la vera e propria distruzione di parte del capitale accumulato (ad esempio con la chiusura di stabilimenti, i bombardamenti, ecc.).

d)    nascita di nuove industrie e di nuovi mercati capitalistici

La creazione di nuovi settori industriali, che nascono solitamente con una composizione organica inferiore, aiuta ad accrescere il saggio del profitto. Lo stesso vale per gli investimenti in paesi arretrati, in cui il salario è ridotto e rende conveniente servirsi di tecnologie a più bassa composizione organica del capitale. Ovviamente l’apertura di nuovi mercati e la nascita di nuovi prodotti non è qualcosa su cui i capitalisti abbiano controllo assoluto e dipende da circostanze storiche peculiari.

Ad esempio il crollo dello stalinismo ha ricondotto nell’orbita capitalistica interi continenti. La distruzione spaventosa di forze produttive che ne è seguita (in Russia la produzione industriale ha subìto un crollo peggiore a quello inferto dall’invasione nazista[19]) ha ridotto per qualche tempo la sovraccumulazione di capitale a livello mondiale.

Queste misure frenano o invertono la caduta del saggio di profitto, ma possono aggravare la crisi di realizzo e il capitalismo deve trovare metodi che evitino entrambe le crisi. Contro la crisi di realizzo la borghesia ha due strade:

a)    l’aumento delle spese statali

Una tendenza a lungo termine del capitalismo e che dimostra la ineludibile socializzazione delle forze produttive, anche all’interno dei rapporti di produzione borghesi. Il punto è: può lo Stato creare domanda aggiuntiva? O non fa che ridistribuire i redditi già esistenti? Prima della crisi del ’29, gli economisti tendevano a considerare lo Stato uno spreco, utile solo in tempo di guerra e per reprimere la classe operaia. Ma Keynes spiegò che in un periodo di crisi spesso il capitale scompare dal processo produttivo, non fisicamente, ma perché gli investitori perdono fiducia nel futuro (si deprimono i loro “animal spirits”, come li definiva lo stesso Keynes) a causa della scarsa profittabilità.

Lo Stato poteva dunque socializzare una parte degli investimenti che altrimenti i capitalisti privati non avrebbero fatto. Questo può risolvere alcuni problemi di sproporzione dell’economia. Tuttavia c’è un problema di fondo che i keynesiani non hanno mai considerato. Se le aziende statali sono profittevoli, concorrono con i capitalisti privati a detrimento dei loro profitti. Se sono in perdita dovranno essere finanziate e dunque comporteranno un aumento dell’imposizione fiscale.

b)    l’aumento del lavoro improduttivo

Il lavoro improduttivo è ormai nei paesi avanzati gran parte del lavoro salariato totale. Unito ad una spinta feroce all’indebitamento, questo ha reso nel dopoguerra meno pesanti le crisi di realizzo; tuttavia, in quanto la crescita del peso del lavoro improduttivo abbassa la generazione di nuovo plusvalore, rende inevitabile l’esplosione del capitale fittizio. Sempre più mezzi di produzione sono mossi da sempre meno lavoratori. E gli altri? A rigor di logica sono superflui. Ma superflui non significa disoccupati. I lavoratori in questione sono superflui per creare plusvalore ma non sono superflui per il suo realizzo e dunque per mantenere in piedi il capitalismo.

A questo proposito occorre precisare che proprio come per il capitalista non c’è distinzione tra capitale costante e variabile, e conta esclusivamente la quantità di denaro investito ai fini del profitto che intende ricavare, non c’è nemmeno distinzione tra lavoratore produttivo per la società e per lui. È produttivo il lavoratore che crea un profitto. È l’unica cosa che conta per il suo padrone. Questo non si preoccupa del fatto che il lavoro produttivo nel capitalismo è una forma specifica di lavoro produttivo che rende macroscopica e insieme rinnega l’essenza del lavoro produttivo in generale.

Esiste un lavoro produttivo prima del valore? Ovviamente sì, dato che il sovrappiù esiste anche prima dello scambio di merci e il lavoro produttivo è il lavoro che accresce il sovrappiù. In una società di cacciatori e raccoglitori, è produttivo il lavoro di un uomo che raccoglie dieci chili di frutta consumandone solo cinque, mentre è improduttivo il lavoro di un tizio che viene nutrito per elevare preghiere agli animali totemici perché facilitino la caccia.

Trattandosi di una società in cui il lavoro è direttamente sociale, il lavoro è anche facilmente distinguibile per la sua natura di lavoro produttivo o meno. La cosa è molto meno chiara nel capitalismo, a causa dell’operare delle leggi della concorrenza. Un capitalista vale esclusivamente in base alla propria quota di capitale e null’altro. Che il capitale abbia una determinata composizione o determinate qualità concrete, nulla toglie alla parità di trattamento che ogni capitalista deve ricevere. Questa legge, che è essenziale per il funzionamento del capitalismo, nega ma insieme conserva la realtà del lavoro produttivo. Questo significa, in concreto, che essa opera a danno di alcuni capitalisti ma a favore della classe capitalista nella sua totalità.

Marx spiega che nel capitalismo è produttivo il lavoro che valorizza il capitale, indipendentemente dalla sua caratteristica di lavoro effettivamente produttivo. Senza questa contraddizione il capitalismo non funzionerebbe. Eppure nemmeno il capitalismo può violare le “leggi di natura”. Poniamo la situazione di un capitalista che affitta determinati attrezzi a dei ladri che se ne servono per rapinare banche. Il capitalista spende una somma di denaro per acquistare questi mezzi di produzione e ne ricava una somma maggiore. Il lavoro dei ladri accresce il suo capitale ed è dunque produttivo. Ma questo lavoro accresce il sovrappiù sociale? Naturalmente no, il furto non può aumentare il valore sociale complessivo. Un esempio analogo è il gioco d’azzardo.

È ovvio che lotterie e giochi d’azzardo sono semplici movimenti di denaro, non creazione di nuovo valore, eppure il croupier o l’addetto alla ricezione delle schede del lotto sono produttivi, assai produttivi in effetti, per i loro padroni. Vi sono casi più controversi, tuttavia. Prendiamo il caso del sistema creditizio. Ai tempi di Lutero l’idea che una persona potesse ricavare un profitto semplicemente prestando a interesse soldi altrui era ritenuta immorale e fonte di corruzione e la Chiesa vietava, in quanto usura, ogni interesse[20].

Effettivamente non si vede quale contributo dia il semplice prestito di denaro alla produzione. D’altra parte, le banche potrebbero obiettare di essere fondamentali selezionando i progetti imprenditoriali, fornendo servizi di liquidità e dunque regolarizzando il processo produttivo ecc. Il punto è che esiste una differenza tra lavoro produttivo e lavoro produttivo in senso capitalistico. Di nuovo, la differenza è una negazione-continuazione. Ogni società ha il lavoro produttivo più idoneo al suo sviluppo. Nel capitalismo, l’applicazione della legge del lavoro produttivo “diretto” sarebbe nefasta, distruttiva e peraltro anche concettualmente impossibile, perché la produzione e il lavoro nel capitalismo non sono direttamente sociali. È il confronto con il mercato, dunque la trasformazione del lavoro in valore, che dimostra se e quanto il lavoro erogato e la produzione effettuata sono socialmente necessari. In definitiva, cresce la quota di lavoro improduttivo, riducendo la quantità di plusvalore complessivo realizzabile ma aumentando la sua proporzione realizzata.

Queste due tendenze (crescita della spesa statale e del lavoro improduttivo) si uniscono al massimo grado nella produzione bellica. Nel dopoguerra, anche per le esigenze della guerra fredda, l’aumento delle spese militari fu immane. Sweezy calcolò che nel 1970 gli addetti all’industria bellica americana, compresi quelli indiretti, ammontavano a 22 milioni. Il vantaggio di questo settore è che produce “merci” che non fanno concorrenza alle aziende private.

Tuttavia, rimane il fatto che la guerra non è direttamente produttiva di sovrappiù; pertanto quando la crisi di egemonia della potenza dominante viene a galla, emerge subito la connessione tra spese militari e debiti. Fu così con l’Inghilterra alla fine della prima guerra mondiale, lo si vede oggi con gli Stati Uniti la cui spesa pubblica è finanziata in gran parte da paesi esteri. Durante il periodo di ascesa economica dopo la seconda guerra mondiale, diversi economisti, non solo borghesi ma anche “marxisti”, dichiararono la teoria delle crisi superata proprio grazie alla spesa militare[21].

Questi marxisti dimenticavano che le “merci” prodotte nell’industria bellica non si scambiano contro tempo di lavoro né contro pluslavoro in quanto sono acquistate dallo Stato il quale non può vendere il suo “lavoro astratto”, non producendo nulla. Il suo reddito viene dalle tasse e comunque dal resto della società. La spesa statale è una deduzione da salari e profitti. Questo era ovvio anche ai sostenitori di questa teoria, solo che in periodi di basso utilizzo delle risorse produttive ritenevano che lo Stato potesse aiutare con spese aggiuntive, il che è vero ma solo a costo di aumentare il debito pubblico.

Più in generale, le pretese anticicliche della politica keynesiana sono malposte. Il keynesismo non fece che razionalizzare le esigenze della borghesia dell’epoca imperialista di servirsi dello Stato per accrescere i profitti. La storia ha però dimostrato che questa socializzazione nei fatti non funziona. Gli Stati Uniti del New Deal e il Giappone negli anni ’90 sono due esempi eclatanti di masse enormi di denaro pubblico spese senza successo, in mancanza di una crescita della profittabilità privata. Alla fine, la spesa pubblica conduce ad un aumento del debito pubblico, ad un aumento dell’inflazione o a tutti e due. Ciò non toglie che nel breve periodo i capitalisti si servano di questa strada perché può avere effetti economici nel breve periodo, quando già la crescita economica sta maturando nei bilanci delle aziende. Può inoltre ridurre gli effetti di una crisi con il ricorso massiccio al credito rimandando i problemi. Lo Stato “tiene a bada” la crisi mentre i capitalisti ritornano a investire e dunque sembra che l’intervento dello Stato abbia contribuito direttamente alla svolta.

Se la crisi distruggesse contemporaneamente la profittabilità di tutto il capitale, la produzione capitalistica cesserebbe. In realtà, anche nella crisi più acuta, una porzione del capitale rimane abbastanza profittevole per continuare a valorizzarsi, anche se su scala ridotta. Un’altra parte viene invece a cadere sotto i colpi della crisi e diviene inservibile. Nell’Ottocento, quando le aziende erano di piccola dimensione e la composizione organica del capitale bassa, il processo avveniva liberamente e procedeva finché la distruzione delle forze produttive in termini di valore (dunque essenzialmente di svalorizzazione del capitale fisso e licenziamenti) era sufficiente al recupero della profittabilità.

Nel XX secolo la dimensione delle aziende, la situazione politica complessiva hanno reso questa strategia rischiosa. Per questo si è fatto solitamente ricorso all’intervento statale. Ma alla fine, si è dimostrato che l’unica vera soluzione al problema della crisi era la distruzione fisica, non più la svalorizzazione delle forze produttive. Ovviamente ciò comporta per la borghesia diversi pericoli. Storicamente, le guerre fino all’Ottocento erano combattute da eserciti relativamente ridotti e non coinvolgevano di solito la popolazione civile o grandi distruzioni di impianti.

La prima guerra mondiale fu la prima in cui i massacri di forza-lavoro raggiunsero una proporzione significativa. Purtroppo per la borghesia, il conflitto si concluse con la vittoria della rivoluzione in Russia e con un’ondata internazionale di rivoluzioni senza precedenti che rischiò di abbattere il capitalismo. Le distruzioni di capitale fisso determinate dalla seconda guerra mondiale furono sufficientemente estese per permettere almeno dieci anni di ricostruzione postbellica. Ma, di nuovo, la guerra causò l’espansione dello stalinismo e, dopo la vittoria della rivoluzione cinese, il controllo di quasi un terzo del globo da parte di una forza certo non rivoluzionaria, come la burocrazia sovietica, ma obiettivamente ostile al capitalismo. La forza dello stalinismo e l’ascesa postbellica hanno impedito altri conflitti tra paesi imperialisti.

Il fatto che questo sistema trovi come unica vera soluzione alle sue crisi conflitti di queste proporzioni è di per sé una condanna storica definitiva. Quanto i capitalisti delle origini erano pacifisti, antistatalisti e liberali, tanto i borghesi dell’epoca imperialista sono guerrafondai, aggrappati all’apparato repressivo dello Stato, totalitari. Le due guerre mondiali sancirono storicamente quale teoria delle crisi rispondesse meglio alla realtà. Mentre si stava ancora asciugando l’inchiostro sui libri dei revisionisti che parlavano di come i monopoli e il capitalismo di Stato avrebbero eliminato le crisi e le guerre, si udirono i boati dei cannoni che annunciavano la prima guerra mondiale.

Allo stesso tempo, il boom postbellico si incaricò di dimostrare che anche la teoria di Rosa Luxemburg era errata. Il capitalismo era sì stato immerso per trent’anni in una profondissima crisi economica e politica, ma seppure a costo di due guerre mondiali, degli orrori del nazifascismo e della perdita di buona parte del pianeta a favore dello stalinismo, era riuscito ad emergere dalla crisi. La dimostrazione storica definitiva che l’imperialismo è orrore senza fine, come disse Lenin, ma anche che esso può essere distrutto solo dalla classe operaia armata delle idee del marxismo, non da un inesorabile processo storico. La “crisi finale” del capitalismo è la rivoluzione e dunque il partito rivoluzionario. In definitiva, lo sbocco sociale della crisi, è la lotta di classe.

Le controtendenze che abbiamo descritto rimandano la crisi di profittabilità o di realizzo del sistema, sostanzialmente a spese della classe lavoratrice. Alla fine, anche i crolli più devastanti del capitalismo non sono che occasioni storiche per il suo rovesciamento (e, per inciso, anche i suoi boom lo sono). Ma se il capitalismo non viene abbattuto, si riprenderà da ogni crisi. Che questo comporti guerre, dittature, l’impoverimento di interi continenti, la distruzione ecologica del pianeta, questi sono dettagli di fronte all’unica cosa che davvero conta, quella che Marx sintetizzava nella formula D-M-D’. Se il denaro finale D’ è maggiore del denaro immesso nella produzione, D, qualunque atrocità è giustificata.

8. Il dibattito sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. La teoria del profit squeeze

Il dibattito sulla legge della caduta tendenziale si intreccia al problema della teoria delle crisi. Negli anni ’70, alcuni economisti inglesi (soprattutto Glynn e Sutcliffe) avanzarono una teoria nota come “profit squeeze”, secondo la quale la caduta del saggio di profitto non era attribuibile alla crescita della composizione organica del capitale, che la svalorizzazione del capitale costante può contrastare indefinitamente, ma alle difficoltà nel contenere la crescita del capitale variabile (i salari) come conseguenza della piena occupazione e della forza del movimento operaio. A dimostrazione che il clima esplosivo di quegli anni aveva contagiato gli intellettuali, uno di questi economisti, professore a Oxford, aderì alla tendenza marxista del partito laburista, il Militant, e vi portò il dibattito sulla sua teoria del profit squeeze.

I partecipanti al dibattito erano d’accordo sul fatto che ci fosse stata una caduta della profittabilità come conseguenza dell’accumulazione di capitale. Non concordavano sul fatto che ciò dipendesse dall’operare della legge. Nella sua critica, Glyn sostenne che la legge della caduta tendenziale non fa parte del nucleo della teoria marxista come si evincerebbe dal fatto che non è citata nel primo libro del Capitale, o nell’Imperialismo, nel Manifesto. Essa avrebbe inoltre una impostazione economicista, basandosi su questioni tecnologiche anziché sociali e condurrebbe a un’analisi politica meccanica. In definitiva sarebbe un errore dargli troppa importanza.

In effetti, la quantità di capitale mossa da ogni lavoratore si basa su due processi contraddittori: l’aumento della composizione tecnica e la svalorizzazione del capitale. I sostenitori del profit squeeze ritengono che ogni supposizione su quale tendenza prevalga sia errata. Sotto il profilo empirico, secondo i dati citati da questi autori, la composizione organica del capitale risulterebbe crescere rapidamente in Italia e Giappone, mentre scenderebbe per il Regno Unito. Se il saggio di profitto è diminuito, ciò dipende dunque da altre cause.

Queste sono da ricercarsi nell’aumento del costo totale del lavoro (tasse, contributi, salari nominali grazie alla forza sindacale). Tutto ciò “is the direct economic result of the exhaustion of the reserve army of labour” (Glyn). Il motivo per cui la riserva di manodopera non poteva essere costituita era per via della guerra fredda e dei processi di decolonizzazione dei paesi arretrati che rendevano difficile investire fuori dal ristretto numero dei paesi avanzati. La forza del sindacato inglese non permetteva di tagliare i salari e dunque i profitti venivano compressi. Il ruolo storico del thatcherismo fu appunto di annientare il movimento sindacale per salvare il capitalismo britannico.

Non c’è dubbio che l’importanza attribuita da questa scuola alla lotta di classe come fattore che incide sul saggio del profitto fosse un riflesso delle lotte dell’epoca. E occorre anche ricordare che di per sé, l’operare di queste tendenze non è in contrasto con la legge della caduta tendenziale. Anzi, Marx criticando i sottoconsumisti della sua epoca spiegava che all’apice del boom i salari sono sempre alti e la disoccupazione bassa. Rimane il fatto che le crisi del capitalismo hanno preceduto la contrattazione salariale di secoli. Inoltre, la forza dei sindacati è molto diversa tra i paesi capitalisti, mentre le crisi tendono a presentarsi simultaneamente.

Sull’importanza della legge per il marxismo occorre osservare diversi aspetti. In primo luogo, sminuire l’importanza di un aspetto della teoria economica marxista è la prima mossa di chi sta allontanandosi dal marxismo. La rottura non avviene immediatamente, ma all’inizio il “critico” sostiene che l’innovazione proposta serve a rendere più “attuale” la teoria. È lo stesso argomento che usò Bernstein per criticare il materialismo dialettico. Anche l’artificio retorico di sostenere che il punto difeso è un feticcio, e che quello che conta è il “metodo” è ricorrente. Bernstein lo utilizzò contro la dialettica.

In secondo luogo, per Marx le leggi economiche sono tendenze. Questo significa che vi sono delle leggi di movimento di fondo del sistema e delle forze che spingono in altre direzioni. È un approccio empirista selezionare alcuni fatti (per esempio alcune controtendenze) e farne un’altra legge di movimento

La teoria del profit squeeze può poi essere criticata sotto altri punti di vista. Innanzitutto, seppure i suoi sostenitori ricordassero giustamente che i capitalisti non possono trovare “razionalmente” una soluzione collettiva alla crisi del loro sistema, toglievano all’analisi del capitalismo l’aspetto del processo contraddittorio del rapporto tra il singolo capitale e i molti capitali. Quando Marx parla dell’introduzione delle nuove macchine spiega che la singola nuova macchina, che richiede investimenti maggiori e dunque rovina i piccoli produttori, appena messa in funzione porterà a un aumento della merce prodotta per unità di tempo e dunque si mostrerà più conveniente. La variazione del saggio del plusvalore non è uguale a quella della produttività.

Se le merci salario si producono in meno tempo, il capitalista intasca la differenza. Quindi la riduzione del prezzo non corrisponde per forza alla crescita della produttività a meno che tutto l’incremento non si riversi nella svalorizzazione del capitale costante. La crescita del saggio del plusvalore trova dei limiti nel fatto che più il lavoro vivo è sostituito dal lavoro morto, meno ulteriori guadagni si possono fare se non aumentando enormemente il capitale costante. Per questo la svalorizzazione dei beni capitali non può compensare la caduta del saggio di profitto.

La svalutazione del capitale costante non può nascondere il fatto che esso diventi una parte crescente del capitale complessivo. Per quanto possa svalutarsi il macchinario, è un fatto che ogni singolo operaio muova un valore crescente di capitale. La progressiva caduta del saggio di profitto è un’espressione peculiare al modo di produzione borghese dello sviluppo della produttività del lavoro. Il modo con cui si presenta questa caduta può dipendere da ogni tipo di circostanza singola ma il lavoro morto, accumulato per generazioni, cresce sempre di più.

Sulla svalutazione del capitale costante (soprattutto dei costi fissi) occorre poi osservare questo. Questi costi sono spesati nel bilancio delle aziende, ovviamente. Sia che si sia investito troppo e che dunque vi sia del capitale fisso immobilizzato (che pesa come un macigno sul saggio di profitto), sia che un nuovo macchinario abbia eliminato ex post parte del valore del capitale costante stesso, l’unico modo per uscire dalla crisi è svalutarlo, ma questo capitale fisso è stato comprato, svalutarlo comporterà un peso notevole per il futuro.

Per questo l’aggiustamento non può essere immediato. Con quale denaro (profitti, crediti) potrà il capitalista sostituire il vecchio macchinario, quando gli attuali prezzi già non consentono di ricostituire il costo di produzione originale? Se i profitti, qualunque ne sia la causa, scendono, vi sono minori risorse per investire. Di necessità l’innovazione tecnologica si ridurrà e con essa la svalorizzazione del capitale costante. Il processo di distruzione della sovra-accumulazione non avviene armonicamente e in un istante ma attraverso una guerra aperta tra capitalisti e tra le classi[22].

Anche la “soluzione” che secondo questa tesi risolverebbe la crisi, ovvero la riduzione dei salari, non è di per sé la via di uscita, anzi, riducendo i mercati può aggravare la crisi. Ma può essere una via di uscita quando avviene per una sconfitta storica della classe operaia di cui la borghesia ha la forza di avvantaggiarsene. Quando ciò avviene, la borghesia si disinteresserà delle contraddizioni del proprio sistema prendendo a prestito dal futuro. Così accadde, per esempio, all’inizio degli anni ’80.

Un’altra posizione errata dei teorici del profit squeeze è l’idea che dato che la legge della caduta tendenziale è un problema “tecnico”, ci sarà anche nel socialismo, confondendo produzione capitalistica e produzione in generale. Nel socialismo la riduzione del tempo di lavoro necessario servirà principalmente a ridurre l’orario di lavoro effettivo come strumento per accrescere la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia e dunque porre le basi per l’estinzione dello Stato. Scomparso il mercato, scomparsa la regolazione incosciente del lavoro sociale tramite i prezzi, scomparsa la forma stessa del profitto, il pluslavoro sarà usato collettivamente e socialmente per accrescere il benessere della collettività. Non si potrà dare la caduta tendenziale di qualcosa che non ci sarà più.

Quanto all’argomento della piena occupazione, è errato considerare una percentuale assoluta della popolazione come attiva. Il capitalismo trova il modo di ricreare l’esercito di riserva in un modo o nell’altro. I controlli sull’immigrazione non hanno favorito la piena occupazione. Sotto il piano empirico, vi sono dati contrastanti circa l’effettiva dimensione delle concessioni fatte alla classe operaia nel dopoguerra, così come sul ruolo della redistribuzione concreta dovuta allo stato sociale. Tuttavia è indubbio che la disoccupazione negli anni 60 fosse ai minimi storici nei paesi del G7 e che i sindacati fossero molto più forti che in passato.

Inoltre, è superficiale la teoria che sia la concorrenza ad abbassare il profitto. Come già aveva osservato Ricardo criticando Adam Smith: la concorrenza può livellare il saggio, ma non eliminare profitti, la concorrenza esegue le leggi di movimento del capitalismo, non è queste leggi.

Infine, occorre ricordare che la legge della caduta tendenziale si accompagna sempre all’aumento del plusvalore relativo (se no i capitalisti non investirebbero in tecnologia), ma ciò non può contrastare la caduta del saggio di profitto. Si può dimostrare anche con una semplice formula matematica. Infatti, se scriviamo la composizione organica del capitale come: c/(v+c) vediamo che per ogni c, v, s: (c+v)/c>s/(c+v). Quindi la tendenza del saggio di profitto a calare non può essere fermata dalla crescita del plusvalore relativo perché il saggio di profitto è minore di c+v/c che tende a diminuire (aumento della composizione organica del capitale).

Sebbene, in definitiva, l’idea del profit squeeze abbia difficoltà a spiegare il fatto che il calo del saggio di profitto è una tendenza mondiale e di lungo periodo, mentre le vicende della lotta di classe sono diverse in ogni paese, c’è il rischio di esagerare anche in senso opposto, concependo le leggi economiche come operanti in modo avulso dalla lotta di classe. Ciò significa negare che la classe operaia possa ottenere delle vittorie nel capitalismo o che gli effetti di queste vittorie durino anni nei rapporti tra le classi. Come le sconfitte.

Dimenticarsi della lotta di classe significa ridurre il saggio di profitto a una frazione aritmetica. Ma i capitalisti basano le proprie decisioni di investimento sul saggio di profitto futuro. Lotte operaie importanti possono scoraggiare gli investimenti. Negarlo significherebbe che l’attività sindacale è inutile, che il ruolo dei marxisti si riduce a convincere gli operai della bontà del socialismo. Significherebbe negare il programma di transizione di Trotskij come metodo e strategia. L’essenza del programma di transizione è che il movimento operaio può mettere in campo un programma nel capitalismo che ponga le basi per la rivoluzione. Come sarebbe possibile che questo programma non riducesse gli investimenti e i profitti?

Il rapporto tra la caduta del saggio di profitto e la lotta di classe è dialettico. In linea generale, l’acuirsi della lotta di classe riflette la necessità dei capitalisti di accrescere i profitti. Ma la lotta di classe non deriva direttamente e meccanicamente dal ciclo economico. Il maggio francese e l’autunno caldo italiano sono esempi di esplosioni rivoluzionarie dovute all’accumularsi di tensioni sociali politiche, senza che ciò fosse direttamente connesso al calo dei profitti nel periodo immediatamente precedente. Quei movimenti condussero a consistenti vittorie per i lavoratori e dunque, tra le altre cose, a una riduzione del saggio del profitto. Su scala storica, dove i decenni si intravedono appena, distinguere la causa scatenante (ha cominciato prima la classe operaia con le lotte o la borghesia con i licenziamenti?) è secondario di fronte al punto centrale: il processo della accumulazione di capitale.

 9. Teoria della crisi e distribuzione del reddito

Come spiegava Marx, “la struttura della distribuzione è interamente determinata dalla struttura della produzione”. La domanda, intesa come domanda sociale di una merce, è il riflesso della distribuzione del reddito di una società. Questo era già noto ai primi critici della legge degli sbocchi. Malthus difendeva accanitamente i rentiers agricoli proprio perché riteneva essenziale la domanda supplementare che essi fornivano al mercato.

Quando gli economisti borghesi parlano di “paniere di consumo”, si affrettano a ricordare che esiste una cosa che si chiama “vincolo di bilancio”. Ma da dove derivi questo “vincolo” non è dato saperlo. La realtà è che l’analisi della domanda può essere sostituita, nell’analisi complessiva della società dall’analisi della distribuzione del reddito. Qui ritorna il tema della proporzione, analizzata, come vedremo, negli schemi di riproduzione. Se è ragionevole supporre che la qualità dei consumi dipenda in massima parte dalla quantità del reddito, è necessario che oltre alla produzione anche la distribuzione del reddito sia bilanciata per poter equilibrare la riproduzione del sistema. Poiché anche in questo caso nulla permette a priori un tale equilibrio, la distribuzione del reddito è fonte anch’essa di possibili effetti di squilibrio. La teoria del valore lega questi due aspetti, la crisi come anarchia del processo produttivo e la crisi come squilibrio della distribuzione del reddito in una specie di immane conto economico sociale dove, a differenza di quanto avviene nei bilanci aziendali, il conto non deve e non può tornare.

10. Gli schemi di riproduzione

Si è già accennato di passata allo strumento analitico utilizzato da Marx per analizzare le condizioni ci crescita del capitalismo: gli schemi di riproduzione. Ora vedremo il loro funzionamento concreto.

L’analisi dell’economia come flusso circolare di risorse nasce nel diciottesimo secolo con il Tableau Economique di Quesnay, capo della scuola fisiocratica francese. La formazione scientifica di Quesnay, che era il medico di corte di Luigi XV, lo aiutò a concepire l’analogia tra sistema economico e flusso sanguigno. Marx riprese questa intuizione e la approfondì descrivendo l’analisi della circolazione e rotazione del capitale nel II volume del Capitale.

Per portare a termine tale compito sviluppò uno strumento analitico eccezionalmente fecondo: gli schemi di riproduzione. Gli schemi di riproduzione permettono di comprendere le condizioni di cui il capitalismo ha bisogno per crescere. Essi mostrano la compresenza di fattori che avvicinano e di fattori che allontanano il sistema produttivo da queste condizioni. L’interazione di queste forze fa sì che nel capitalismo l’equilibrio, ovvero una crescita proporzionata dell’economia, sia estremamente improbabile e solo momentanea. Il capitalismo trova l’equilibrio per un attimo fugace, durante le sue oscillazioni periodiche. Come notò Marx, “il movimento del suo disordine è il suo ordine”.

Gli schemi di riproduzione, nel descrivere come il capitalismo può crescere in modo equilibrato spiegano effettivamente perché ciò non avviene. Questo non ha impedito ad alcuni “socialisti” di dare agli schemi un’interpretazione ben diversa. I riformisti, che nella teoria economica erano rappresentati dai cosiddetti neoricardiani (per tutti, il già citato Tugan-Baranovskij), cercavano di dimostrare che il capitalismo può svilupparsi senza fine, e che dunque il socialismo è solo un desiderio morale, non una necessità storica.

Gli schemi di riproduzione vennero utilizzati a questo fine attraverso un’operazione di cattiva logica. Secondo il noto detto, se mia nonna avesse avuto le ruote, sarebbe stata una cariola. I riformisti si limitarono a questo ragionamento, senza indagare la possibilità concreta che un essere umano abbia delle ruote. Per i riformisti la cosa era semplice. “Purché” si diano certe proporzioni, la produzione può andare avanti per sempre. La loro idea di “astrazione” mancava totalmente di dialettica, era puro ragionamento matematico. I riformisti non comprendevano l’essenza del concetto marxiano di produzione in generale sviluppato da Marx nell’Introduzione a Per la critica dell’economia politica.

Non comprendevano che il capitalismo, come ogni altro modo di produzione, in ultima analisi, deve produrre valori d’uso. Non è lo scopo della produzione, non è lo scopo dei capitalisti, ma alla fine, se le merci prodotte non servono, non si vendono. Ora, gli “ottimisti” alla Tugan-Baranovskij eliminano ogni problema di realizzo con questa semplice trovata: basta espandere il settore dei mezzi di produzione[23]. Se anche gli operai si riducono (o meglio, se il capitale variabile si riduce come proporzione del capitale complessivo), non c’è problema: i capitalisti si vendono le merci l’un l’altro. Ma poiché nessun capitalista può mangiare per mille operai, di che merci stiamo parlando? Di mezzi di produzione. E che se ne fa il capitalista? Ci produce altri mezzi di produzione che vende ad altri capitalisti.

Tutti producono macchine che servono a produrre altre macchine che servono a produrre altre macchine che inevitabilmente servono a produrre altre macchine, perché una simile concentrazione di mezzi di produzione, se si dedicasse alla produzione di merci finali, saturerebbe rapidamente il mercato. Ma si può escludere che si arrivi a questo perché una simile montagna di capitale costante, manovrata da una sparuta quantità di operai, implicherebbe una composizione organica del capitale così elevata che il saggio di profitto dovrebbe inevitabilmente ridursi rapidamente a zero. Molto prima di quel momento i capitalisti avrebbero smesso di investire, a prescindere dagli eleganti e armonici modelli dei riformisti. La prima guerra mondiale, l’imperialismo in generale, sono la dimostrazione storica che gli “ottimisti” non avevano idea di come funzioni il capitalismo. 

Come visto, Rosa Luxemburg afferrò rapidamente le conseguenze politiche di queste posizioni e criticò l’interpretazione data agli schemi di riproduzione[24]. Tuttavia ritenne che il problema di una scorretta astrazione risiedesse nello strumento matematico stesso: gli schemi di riproduzione erano un’astrazione eccessiva del capitalismo, ne perdevano alcuni aspetti essenziali. Rosa Luxemburg si sbagliava, il motore del capitalismo è endogeno.

Ma su almeno due punti la sua idea sull’“esaurimento” dello spazio extracapitalistico ha molto da dire. Innanzitutto, la crisi dell’imperialismo (la prima guerra mondiale) si ebbe grosso modo quando finì l’occupazione dell’Africa e del Medio Oriente, sostanzialmente la parte di mondo che ancora andava spartita tra le grandi potenze. Che questo abbia reso insuperabili i dissidi tra i paesi imperialisti non c’è dubbio. In secondo luogo, il capitalismo si espande assorbendo nuova forza-lavoro e questa forza-lavoro, se è “nuova”, significa che non proviene dalle file del proletariato. Si tratta dunque di contadini (di paesi avanzati e arretrati) e di altri ceti non già compresi nell’orbita della produzione capitalistica. Che il capitalismo tenda molto presto ad espandersi per cercare manodopera a basso costo, materie prime, sbocchi per merci e capitali è indubbio. Già Marx osservò:

“La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale. Ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare.”[25]

E ancora

“Non appena comincia ad avere la sensazione e la consapevolezza di essere esso stesso un ostacolo allo sviluppo, subito [il capitale] cerca scampo verso forme le quali, mentre danno l’illusione di perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano nello stesso tempo la dissoluzione sua e del modo di produzione che su di esso si fonda. Ciò che è implicito nella natura del capitale viene solo reso realmente esplicito, come una necessità esterna; e il mezzo è la concorrenza, la quale poi non è altro che questo: che i molti capitali si impongono reciprocamente e impongono a se stessi le determinazioni immanenti del capitale.”[26]

Allo stesso modo, è indubbio che l’inglobamento di paesi non capitalisti nell’orbita capitalista abbia conseguenze economiche e politiche di prim’ordine, ma le ragioni di questo processo non solo quelle ipotizzate da Rosa Luxemburg[27]. Da queste errate premesse Rosa Luxemburg traeva anche una conseguenza: una volta terminate le “terze persone”, il capitalismo sarebbe imploso, affogato in una ineludibile crisi di realizzo.

Al contrario, sotto il profilo teorico è possibile ridurre il capitalismo a due classi. Infatti, Marx spiega che il rapporto di produzione capitalistico, come ogni rapporto, è una relazione dialettica tra due classi sociali: i proprietari dei mezzi di produzione e i proprietari della forza-lavoro. Questo rapporto non ha logicamente e storicamente bisogno di altro. Ovviamente, il capitalismo, come sistema storico, per le necessità complessive della sua sopravvivenza, sviluppa altre classi, il cui ruolo è economicamente non necessario alla produzione di plusvalore. L’astrazione compiuta da Marx è corretta: essa delinea il fondamento del problema e dunque consente poi allo storico e al politico di ricondurre verso il concreto l’analisi effettuata. Saltare i passaggi verso il concreto significa compiere errori di schematismo, ma impostare male l’astrazione significa escludersi la possibilità di capire.

a) la riproduzione semplice

Abbiamo detto che a prima vista una crisi è sempre causata da una sproporzione. Il ruolo degli schemi di riproduzione è esporre questa tesi:

“i nostri schemi dimostrano che nella produzione capitalistica sia la riproduzione semplice che la riproduzione allargata possono svolgersi indisturbatamente, solo a patto che vengano mantenute tali proporzioni.”[28]

Introducendo gli schemi di riproduzione, Marx distingue la riproduzione semplice, che è uno stato in cui il ciclo economico si ripete sempre uguale a se stesso, e la riproduzione allargata, che introduce l’aspetto dell’accumulazione e della crescita economica. Sarebbe un errore ritenere che la riproduzione semplice sia solo un artificio didattico, usato da Marx per introdurre l’accumulazione del capitale. Marx spiega infatti che la riproduzione semplice esiste in ogni contesto ed è alla base dell’accumulazione.

Senza riproduzione semplice sarebbe impossibile procedere ad una espansione delle forze produttive. Allo stesso tempo, l’essenza del capitalismo sta nel fatto che i proprietari dei mezzi di produzione sono delle macchine per accumulare, il loro scopo è massimizzare la quota di lavoro non pagato da destinare a nuovi investimenti. La borghesia, come “funzionario del capitale”, assolve la funzione storica di accrescere lo sviluppo delle forze produttive. In questo senso il passaggio dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata è anche un processo storico da società in cui l’accrescimento del plusvalore non era lo scopo della produzione, al capitalismo.

Per analizzare le caratteristiche di sviluppo del capitalismo, Marx divide l’economia in due settori. Il settore 1 produce i mezzi di produzione, il settore 2 produce le merci per il consumo. Ovviamente nella realtà vi è una certa sovrapposizione perché una merce può avere più funzioni, ma si può pensare, in linea teorica, che una parte della produzione di quella merce ricada nel settore 1, l’altra nel settore 2. Integrando le singole porzioni di capitale costante, capitale variabile e plusvalore nei settori 1 e 2 possiamo scrivere:

(1)                            

(2)                            

(dove P sta per produzione totale, c per capitale costante, v per capitale variabile e s per plusvalore)

Ora, perché la riproduzione di questo sistema avvenga con regolarità vi sono due condizioni di equilibrio. La prima è che il valore della produzione del settore 1 corrisponda ai mezzi di produzione impiegati dall’economia. La seconda è che il valore della produzione del settore 2 corrisponda alla domanda complessiva del sistema. Ovvero, il valore del settore dei mezzi di produzione deve corrispondere ai mezzi di produzione esistenti e, allo stesso modo, il valore del settore delle merci di consumo deve corrispondere alla domanda complessiva. In formule le due condizioni sono:

(3)              

(4)              

Sostituendo la (1) nella (3) e la (2) nella (4), ovvero scrivendo per esteso il valore della produzione dei due settori, osserviamo che le due condizioni si riducono a una:

(A)              

Questa è la condizione di equilibrio che, se raggiunta, è necessaria e sufficiente al regolare funzionamento del sistema. Il significato della formula è che la somma di tutti i nuovi valori prodotti nell’economia in un dato periodo deve equivalere al valore lordo dei mezzi di consumo.

Da un punto di vista analitico, occorre analizzare che cosa succede quando il capitalismo non si trova in questa condizione. Poniamo ad esempio di osservare che: .

Ciò significa che la grandezza del settore 1 supera il valore complessivo del capitale costante. Vi è dunque domanda solvibile non corrisposta dalla produzione. In una situazione del genere, le merci tenderanno a vendersi ad un prezzo superiore al loro costo di produzione. Questo aumenterà i profitti e dunque gli investimenti per ampliare la scala della produzione. I mezzi di produzione tenderanno perciò a crescere, riequilibrando la domanda potenziale. Si noti che questa è soltanto una tendenza. Nulla garantisce, nonostante la spinta della concorrenza, che ciò accada nel tempo e nella dimensione adatti a equilibrare il sistema.

Al contrario, i produttori espanderanno tutti insieme la produzione, guidati dalla crescita del saggio di profitto, e questo avrà come effetto di aumentare la capacità dei mezzi di produzione oltre la domanda solvibile (), provocando una riduzione dei prezzi e dunque una riduzione dei profitti, degli investimenti e così via. Le oscillazioni attorno all’equilibrio potranno essere più o meno violente a seconda della situazione dell’economia mondiale, del sistema creditizio, della politica economica ecc. Ma in linea di massima le forze che riequilibrano il sistema non garantiscono il raggiungimento di una situazione armonica.

Da questa analisi, pure matematicamente elementare, è possibile trarre profonde indicazioni analitiche. Notiamo ad esempio che il rapporto tra i settori 1 e 2 - che si può leggere in un certo senso come l’ampiezza dello sviluppo della società rispetto alla sua attuale dimensione - si connette ai due aspetti chiave del capitalismo: il saggio di profitto e la composizione organica del capitale. Possiamo infatti scrivere:

(5)              

(dove C=c1+c2, ecc.)

Ora definendo con k la composizione tecnica del capitale[29] e con t il saggio di plusvalore, possiamo scrivere

(6)              

Questo significa che lo sviluppo decresce quando k decresce e t sale. Il che è del tutto in linea con quello che è successo nella storia del capitalismo e con quello che succede nelle diverse fasi del ciclo.

b) la riproduzione allargata[30]

Se nulla garantisce l’equilibrio nella riproduzione semplice, in cui tutto procede immutato di anno in anno, a maggior ragione ciò varrà introducendo l’accumulazione. Ipotizziamo ora che i capitalisti, da veri funzionari del capitale, capitalizzino una parte del plusvalore con cui acquistano nuovo capitale costante e nuovo capitale variabile. Seguendo la notazione introdotta da Bucharin, dividiamo il plusvalore come segue: s=ac+av+b, dove: ac rappresenta l’accumulazione di capitale costante, av l’accumulazione di capitale variabile e b il consumo personale della popolazione non proletaria. A questo punto riscriviamo la (1) e la (2):

(1a)             

(2a)             

Come si vede, la riproduzione allargata si basa sempre sulla riproduzione semplice. Infatti:

 

riproduzione semplice

 

riproduzione allargata

P1=

+

P2=

+

Allo stesso modo, le condizioni di equilibrio diventano

(3a)                  

(4a)                  

Anche qui, sostituendo la scrittura estesa della produzione ricaviamo un’unica condizione, analoga a quella già vista:

(B)       

Questa condizione significa che la crescita della domanda e la crescita della capacità produttiva devono andare di pari passo. Una conclusione abbastanza logica, persino scontata, e nel capitalismo assai difficilmente raggiungibile. Ricordiamo solo che Marx, a conclusione della sua analisi della materia, escluse esplicitamente che l’equilibrio si possa dare come condizione permanente del sistema. Purtroppo, i riformisti di ogni risma si sono dimenticati di questa osservazione.

Come abbiamo visto, gli schemi di riproduzione delineano le condizioni necessarie per la crescita del capitalismo. In quel contesto, l’unica crisi possibile del sistema è una crisi di sproporzione tra i due settori. Ma ora sappiamo che la sproporzione nasconde cause più profonde che negli schemi di riproduzione non possono manifestarsi. Infatti il vero modo di operare del capitalismo è la concorrenza, la lotta tra i singoli capitali per un saggio di profitto più elevato. Ma negli schemi, i molti capitali sono aggregati e la lotta tra i singoli capitali scompare. Che ne è dunque della necessità di innovare? Che ne è della redistribuzione del profitto?

Nel capitalismo un produttore ha un saggio di profitto basso rispetto ai suoi concorrenti e deve uscire dal mercato. Ma in questo contesto, nessun saggio di profitto sarebbe troppo basso. Quando si considerano gli schemi di riproduzione occorre dunque tenere in mente che la loro capacità di descrivere la crisi economica è necessariamente ridotta. Non era questo l’intento con cui Marx ha elaborato questo geniale strumento analitico.

Conclusione

Lenin, sintetizzando efficacemente, disse che il ruolo storicamente progressista del capitalismo può riassumersi in due punti: l’aumento delle forze produttive del lavoro sociale, e la sua socializzazione. Una delle conseguenze di questo ruolo è che il capitale costante cresce più rapidamente di quello variabile (cioè tendenzialmente aumenta la composizione organica del capitale). Questa è una legge “progressista” del capitalismo. Ma in quanto questa stessa legge cozza contro una difficoltà crescente nel valorizzare il capitale crescente o nel realizzarlo, il capitalismo si muove in una contraddizione permanente che conduce a crisi periodiche.

L’espansione della produzione capitalistica può avvenire solo attraverso una serie di crisi. Ecco il senso dell’analisi economica marxista. Queste crisi, aventi diverse espressioni fenomeniche e intensità, in base al diverso momento storico in cui si manifestano, minacciano non solo le condizioni di vita immediate della classe lavoratrice, ma anche la biosfera che ci ospita e dunque la sopravvivenza dell’intera specie umana a medio termine. La parola “barbaro” in greco antico indicava le popolazioni straniere, che non appartenevano alla civiltà e alla cultura elleniche. Il capitalismo nella sua epoca di declino è in questo senso assolutamente barbaro, nella misura in cui nel suo oscillare da ubriaco conduce l’umanità ai livelli più bassi di civiltà della nostra storia. Per questo, non c’è mai stato un compito storico più importante e urgente di questo: rovesciare il capitalismo. Aprire la strada al fiorire della storia dell’uomo.


Bibliografia

  • AA VV, Crisi economica e lotta di classe (rivista “In difesa del marxismo” n. 4)

  • Brofenbrenner M., Il capitale per l’uomo moderno

  • Brooks M., The tendency of the rate of profit to fall and post-war capitalism

  • Bucharin N., L’imperialismo e l’accumulazione del capitale

  • Hilferding R., Il capitale finanziario

  • Itoh M., Value and crisis

  • Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia

  • Lenin, A proposito della cosiddetta questione dei mercati

  • Lenin, Ancora una volta sulla teoria della realizzazione

  • Lenin, L’imperialismo

  • Luxemburg R., L’accumulazione del capitale

  • Mackay C., La pazzia delle folle

  • Marx K., Grundrisse

  • Marx K., Introduzione del ‘57

  • Marx K., Per la critica dell’economia politica

  • Marx K., Il capitale, voll. 2 e 3

  • Mattick P., Economic Crisis and Crisis Theory

  • Rosdolski R., Genesi e struttura del Capitale di Marx

  • Sweezy P., La teoria dello sviluppo capitalistico

  • Trotskij L., La curva dello sviluppo capitalistico


[1] Trotskij ha descritto molto acutamente questo processo ne La curva dello sviluppo capitalistico.

[2] R. Hilferding, Il capitale finanziario, pp. 336-337.

[3] Il capitale, vol. 3, p. 569.

[4] Cit. in R. Rosdolsky, Genesi e struttura del Capitale di Marx, p. 242.

[5] Il capitale, vol. 3, p. 302.

[6] Ibidem, p. 303.

[7] Il capitale finanziario, p. 389.

[8] Il capitale, vol. 3, p. 310.

[9] P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, pp. 240-241.

[10] Mentre completavamo questo scritto è giunta la notizia della morte di P. Sweezy, deceduto il 27 febbraio del 2004 a 93 anni. Sebbene non condividessimo diverse posizioni prese da Sweezy nel corso della sua lunga attività scientifica e politica, non possiamo fare a meno di sottolineare il contributo fornito da questo brillante e coraggioso intellettuale che per difendere le idee del marxismo e del socialismo venne incarcerato sotto il maccartismo.

[11] Ibidem, vol. 3, p. 143.

[12] Ibidem, vol. 3, p. 151.

[13] Ibidem, vol. 3, p. 154.

[14] Giova in proposito ricordare che nel chiacchiericcio anticomunista che costituisce l’habitat indispensabile dell’economista, un elemento ricorrente è rappresentato dalla confutazione della teoria marxista in base a considerazioni di età: è roba del passato, è roba vecchia. Questi stessi signori non si rendono conto di utilizzare una concezione, la teoria quantitativa della moneta, esposta per la prima volta nei lavori di David Hume, quasi cinquant’anni prima della nascita di Marx (una prima esposizione rigorosa è del 1777). Ma non si deve pensare che questa doppia morale sia frutto di malafede. L’economista semplicemente ignora tutti i lavori scientifici che hanno più di un decennio in quanto inutili alla sua carriera accademica.

[15] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 86.

[16] C. Mackay, La pazzia delle folle, p. 64.

[17] Vds. “Ancora una volta sulla teoria del valore” in questo sito.

[18] Marx ne parla nel terzo volume del Capitale (parte terza).

[19] Si consideri che nel 2002, secondo statistiche dell’OCSE, il Pil pro capite della Federazione Russa era al livello del 1966. Se consideriamo che il reddito è oggi enormemente più concentrato, dobbiamo desumerne che per i lavoratori, il reddito è tornato al livello della fine degli anni cinquanta.

[20] Tuttora questo divieto esiste nella religione musulmana. Per questo le banche “islamiche” devono trovare altri mezzi per fare profitti, essendo loro proibito di ricavarne dai prestiti.

[21] Ad esempio, Baran e Sweezy in Monopoly Capital iniziato nel ’56 e pubblicato un decennio dopo, ma anche Mandel, che pretendeva di rifarsi a Trotskij, in Late Capitalism del ‘75.

[22] A questo proposito occorre osservare quanto antidialettica e antimaterialista sia l’idea, sintetizzata nel noto “teorema di Okishio” secondo cui l’innovazione, che ha lo scopo di ridurre i costi e non di aumentare i profitti, comporta sempre un aumento del saggio di profitto. Ovviamente, il fatto che per giungere a questa conclusione (matematica, non certo empirica) si debba astrarre dal processo di diffusione dell’innovazione e dal capitale fisso non è un problema per questi teorici.

[23] Contro questi “socialisti” si può utilizzare un’osservazione che Marx fece sugli economisti borghesi “ottimisti”: “Quando la scissione estrema porta a eruzioni, gli economisti additano l’unità essenziale e astraggono dall’alienazione. La loro sapienza apologetica consiste nel dimenticare in tutti i momenti decisivi le loro stesse condizioni.” (Grundrisse, vol. 1, p. 87).

[24] In proposito occorre ricordare che Rosa Luxemburg, essendo quotidianamente a contatto con la direzione della socialdemocrazia tedesca, aveva compreso prima di Lenin di quale pasta erano fatti Kautsky e gli altri leader “di sinistra” della SPD; per questo il tradimento dei centristi, che al momento della guerra si schierarono con l’ala destra del partito, non la colse di sorpresa come avvenne con i dirigenti bolscevichi. Il problema è che, pur consapevole di questo, Rosa Luxemburg tardò a costruire un’opposizione organizzata nel partito e questo ritardo le fu fatale.

[25] K. Marx, Grundrisse, vol. 2, p. 9.

[26] Ibidem, p. 334.

[27] Furono i bolscevichi a tratteggiare le caratteristiche essenziali del capitalismo nella sua ultima fase, che tuttora attraversa. Tuttavia, Marx aveva già fornito alcune intuizioni interessanti in proposito. Nelle sue Teorie sul plusvalore, parlando del rapporto tra Say e Ricardo, Marx spiega che non appena si instaura il commercio mondiale, la legge del valore “è sottoposta a modificazioni essenziali” perché le giornate lavorative stanno fra di loro sulla base delle diverse produttività relative e dunque “il paese più ricco sfrutta quello più povero”. Questa è la nascita della teoria dell’imperialismo. Se vogliamo è un’estensione dell’analisi di come le grandi aziende si impadroniscono di nuovi settori: vi investono e dunque realizzano profitti, devastando o comprando i produttori “locali”. Lo scambio di più lavoro con meno lavoro è appunto l’essenza dell’imperialismo, sia verso i paesi coloniali ed ex coloniali sia verso la piccola e media borghesia. Spettò a Lenin nell’analisi dell’imperialismo e a Trotskij con la teoria della rivoluzione permanente trarre compiutamente le conseguenze politiche di questo sviluppo.

[28] R. Hilferding, Il capitale finanziario, p. 333.

[29] Matematicamente, la composizione tecnica è sempre maggiore della seconda (avendo identico numeratore e un denominatore minore: c/v>c/c+v), ma la tendenza di sviluppo delle due è ovviamente identica. Inoltre, come è immediato dimostrare algebricamente, la proporzione tra i due tipi di composizione in due settori è identica. Se infatti c1/(c1+v1)=c2/(c2+v2) ne segue (c1+v1)/c1=(c2+v2)/c2 da cui c1/v1=c2/v2.

[30] Qui non svilupperemo compiutamente questa materia. Per una trattazione ampia si vedano il capitolo 21 del secondo libro del Capitale e l’articolo di Lenin Sulla cosiddetta questione dei mercati.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12/09/2014