ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


Le ragioni strutturali della crisi del capitalismo

Adriano Torricelli

In questo articolo verranno affrontate le ragioni del declino dell’economia capitalista, declino inteso come conseguenza della sua naturale evoluzione. Si cercherà inoltre di delineare i tratti essenziali della società che potrebbe sorgere dalla fine di tale sistema.

Le tesi qui espresse – nonostante eventuali somiglianze con altre, più celebri, teorie – sono in ultima analisi da ascrivere, nel bene e nel male, all’autore di questo articolo.

1) I caratteri salienti dell’economia capitalista (e industriale)

L’economia capitalista è un’economia “di mercato”, basata cioè sulla produzione e la vendita di grandi quantità di merci, la cui creazione è resa possibile solo dall’impiego della moderne tecnologie, impensabile quindi prima dell’avvento della moderna Rivoluzione Industriale. Il principio guida di tale organizzazione è il profitto, ovvero l’accumulazione attraverso le attività di mercato di un surplus finanziario rispetto al capitale originario, impiegato per la produzione e/o la commercializzazione delle merci.

Ma la creazione del profitto non è qualcosa di cui il capitalista possa godere edonisticamente, quantomeno non in prima battuta. Egli infatti, in un sistema basato sulla libera concorrenza di agenti economici privati, è costretto a rinnovare e implementare in continuazione la propria produzione, e in primo luogo il proprio parco tecnologico. Se così non facesse difatti, i suoi concorrenti, attraverso migliorie e ammodernamenti al proprio sistema d’impresa e la conseguente produzione e/o commercializzazione di un sempre maggior numero di prodotti (o servizi), e a costi sempre minori, finirebbero per rendere le sue merci non più appetibili per l’utenza finale. La sua azienda non potrebbe perciò, a un certo punto, sostenere i costi di produzione e sarebbe costretta a chiudere.

Del resto, grandi quantità di merci vendute determinano grandi, grandissimi guadagni, a loro volta indispensabili per finanziare l’organizzazione produttiva industriale, estremamente costosa (molto più di quella artigianale, di dimensioni decisamente più modeste). Emerge qui un secondo carattere essenziale di un tale tipo di organizzazione: la divisione cioè, tra un ristretto numero di ricchi, i capitalisti, proprietari delle enormi quantità di ricchezza necessaria a finanziare l’impresa industriale, e la grande massa dei proletari, individui economicamente dipendenti dai primi, nella misura in cui il loro lavoro dipende dai primi in quanto proprietari della fabbrica o impresa per cui essi lavorano in cambio di un salario.

L’economia capitalista si fonda quindi sulla ricerca sistematica del profitto e sul suo sistematico reinvestimento ai fini della crescita e del miglioramento produttivi d’impresa. In ultima analisi perciò, ancor prima che come un’economia industriale, quella capitalista si caratterizza come un’economia del profitto e della libera concorrenza di mercato, laddove la crescita della tecnologia (quindi la nascita e lo sviluppo dell’industria moderna) è un portato di questo primo carattere.

2) Il declino dell’economia capitalista

Le ragioni del declino dell’economia capitalista si collocano nell’utilizzo sempre più consistente (fatto, come si è già detto, inevitabile a partire dalla logica concorrenziale che caratterizza questo tipo di sistema economico) della tecnologia come strumento di produzione delle merci, con la conseguente decrescita dell’impiego della manodopera salariata.

Il problema dell’economia capitalista, nei suoi stadi più evoluti e tecnologicamente avanzati, risiede dunque essenzialmente nel sempre minore impiego di forza-lavoro. L’impiego di macchinari sempre più avanzati e produttivi, e quindi, almeno nel breve periodo, economicamente più convenienti della manodopera umana, porta insomma a una graduale diminuzione della capacità d’acquisto delle merci e della domanda effettiva, il che significa a un tendenziale declino dei profitti di impresa, motore ultimo dell’organizzazione economica capitalista. *

* Un’osservazione: il capitalismo come sistema economico e tecnologico ha conosciuto una lunga evoluzione: a) in un primo periodo più che sulle macchine, si è fondato sulle manifatture, ovvero su grandi imprese produttive finanziate da ricchi cittadini, la cui forza stava nella grande forza-lavoro mobilitata, che diede vita alle prime forme di produzione seriale; b) in un secondo momento, con la nascita dell’industria moderna, la forza-lavoro umana è stata affiancata e coadiuvata dall’impiego delle nuove tecnologie industriali; c) in una fase successiva, le macchine hanno iniziato a ridurre considerevolmente il lavoro manuale umano, cioè il lavoro direttamente produttivo, e la forza-lavoro si è spostata sempre di più verso gli impieghi nel settore “terziario” (servizi e lavori “di concetto”, e al limite la ricerca tecnologica e scientifica); d) attualmente vediamo, in particolare per l’impiego sempre più massiccio dei computer, l’automazione tecnologica invadere anche quest’ultimo settore, fino a pochi decenni fa dominio pressoché esclusivo della manodopera umana. Così oggi, anche i lavori di segretariato o di carattere burocratico sono sempre più spesso svolti da computer, e in ogni caso l’impiego di manodopera tende anche in questi settori a ridursi costantemente.

Vi sono due paradossi in questo discorso.

Il primo paradosso, se così lo si vuole definire, sta nel fatto che per l’imprenditore, il poter utilizzare sempre meno lavoratori costituisca un indiscutibile vantaggio economico immediato. L’impiego sempre maggiore della tecnologia infatti, aumenta la produttività e diminuisce il costo della produzione delle merci. Ciò permette al capitalista di abbassare il prezzo dei propri prodotti sul mercato, diventando in tal modo sempre più concorrenziale, e costringendo i propri concorrenti a fare altrettanto. Vista in un’ottica di breve periodo insomma, o se vogliamo dal punto di vista del vantaggio immediato del singolo imprenditore, l’implementazione tecnologica non può che essere un fatto positivo.

Ma, osservando lo stesso fenomeno da un punto di vista più ampio o sistemico, almeno da un certo momento in avanti (da che cioè, l’utilizzo dei macchinari inizia a incidere negativamente sull’impiego della manodopera umana, quindi sulla domanda effettiva di merci), si può notare come un tale fenomeno costituisca – al contrario – la causa più profonda del declino dell’economia capitalistica, ovvero della capacità dell’attuale economia di mercato di creare profitto.

Il secondo paradosso (e in questo secondo ambito il termine paradosso calza a pennello) risiede nel fatto che la crisi dell’economia capitalistica si accompagni da una parte a una maggiore povertà tra la popolazione (il declino tendenziale dei profitti capitalistici infatti, è una conseguenza diretta delle minori risorse economiche dei lavoratori, ovvero di una povertà sempre più diffusa **); ma anche dall’altra, a una sempre maggiore capacità di creazione di beni d’uso. Il benessere sociale insomma decresce, nella stessa misura in cui cresce quello tecnologico (legato alle maggiori possibilità offerte alla produzione).

** Inoltre, il calo tendenziale dei profitti capitalistici (la marxiana diminuzione tendenziale del saggio di profitto) coinvolge negativamente anche la classe capitalistica, i cui esponenti sempre più spesso sono costretti a chiudere le proprie aziende, o a inglobarle in altre (a loro volta magari, prodotto dell’unione di altre imprese: unione il cui fine è, chiaramente, quello di contrastare la tendenza alla decrescita dei profitti d’impresa). Questo secondo fenomeno si invera nella nascita delle cosiddette corporations: grandi agglomerati finanziari capaci, proprio grazie alle loro enormi risorse finanziarie, di schiacciare la “piccola” concorrenza che spesso finiscono per inglobare al proprio interno.

Ovviamente, quella qui individuata è solo una tendenza di fondo dell’economia capitalista, di solito bilanciata da spinte di segno opposto (ad esempio, l’invenzione di nuovi tipi di merci (o servizi), capaci di smuovere nuove forze sul piano occupazionale, creando così nuova manodopera salariata; la nascita di nuovi mercati – ad esempio, il costante allargamento della fetta di mondo che entra nel gioco dell’economia capitalista, assorbendone così le merci, ma anche (all’opposto) creando imprese capitalistiche concorrenziali rispetto alle precedenti; l’iniezione di liquidità nei sistemi economici da parte delle banche, per favorire – almeno apparentemente o sul breve periodo – la ripresa degli investimenti e dei mercati…)

Queste controspinte tuttavia, appaiono strutturalmente più deboli della tendenza qui individuata, e capaci perciò non di frenarla, ma solo di rallentarla.

Se quanto detto è giusto, l’economia del profitto (e dell’egoismo individuale come motore del benessere globale, ossia della smithiana "Mano invisibile") non potrà in futuro non entrare in crisi in modo sempre più palese. Crisi finanziarie (in ultima analisi, di sovrapproduzione) sempre più forti tempesteranno allora il mondo capitalistico, il cui possibile sviluppo (coincidente con lo sviluppo dei profitti), oramai peraltro non più estensivo (ogni area del pianeta infatti, essendo oramai stata sfruttata come possibile “spugna” capace di assorbire merci ributtando danaro, e creando così profitti commerciali) ma solo intensivo (legato cioè alla creazione di sempre nuovi tipi di merci), sarà essenzialmente bloccato e in ogni caso insufficiente a bilanciare gli effetti negativi della sempre minore (capacità di) domanda da parte dei mercati.

Il problema che sorge spontaneo da questo bilancio, è allora il seguente: quale tipo di società potrà nascere da queste trasformazioni radicali?

Come l’economia schiavista collassando ha dato vita a quella servile (feudale) e questa a sua volta a quella capitalistica borghese (industriale), così quest’ultima forma di organizzazione economica – con lo sviluppo di una tecnologia sempre più pervasiva a livello produttivo – dovrà fare posto a un nuovo tipo di organizzazione economica. Ma quale sarà, che caratteri avrà o potrà avare questa nuova forma di organizzazione dell’economia e della società?

3) Quale mondo nuovo?

Stante l’impossibilità di prevedere con esattezza il futuro, tanto più se, come in questo caso, esso abbia carattere molto incerto (quantomeno per quanto concerne il momento e le modalità della sua realizzazione), si cercherà qui avanti di delineare alla lontana alcuni possibili sviluppi dell’organizzazione economica e sociale che potrebbe sorgere con il declino e la scomparsa dell’economia di mercato capitalistica.

Molti pensatori, ovviamente, si sono già soffermati su questo problema, e in primo luogo Karl Marx, che per primo concepì il sistema capitalista come una forma di organizzazione economica transitoria, al pari di quelle che la precedettero, in contrasto con la certezza di molti (sia prima sia dopo di lui) riguardo alla sua “eternità”, ovvero alla sua natura storicamente definitiva.

Secondo Marx, infatti, la crisi della logica privatistica e di mercato (una logica ben compresa, anche se solo nei suoi aspetti progressivi e “positivi”, da Adam Smith e dai principali esponenti dell’economia classica) porterà inevitabilmente all’affermazione di una società basata su presupposti di carattere diametralmente opposto. Non più concorrenza privata, non più mercato e non più divisione di classe (sfruttatori capitalisti vs lavoratori salariati), e soprattutto non più proprietà privata, che dei precedenti caratteri è la condizione stessa di possibilità. Secondo Marx infatti, il fallimento del capitalismo sfocerà nella nascita di una società in cui gli strumenti alla base della produzione (la tecnologia industriale) saranno socializzati, ovvero proprietà dell’umanità come tale, anziché di una parte privilegiata di essa (possessori di capitali).

Il capitalismo peraltro, spiega Marx, con la sua urgenza estrema di estendere i mercati per estendere i profitti, e di implementare la tecnologia per implementare la produttività, avrà già posto i presupposti di questo nuovo mondo che lo supererà. In esso non vi saranno più stati nazionali ma Umanità, che significa una società mondiale, politicamente indivisa; non vi saranno più povertà e penuria, ma abbondanza.

La caduta del saggio del profitto (di cui, seppure in termini diversi dai suoi, abbiamo parlato sopra) con tutti i fenomeni annessi (anch’essi in parte affrontati) porterebbe infatti col tempo, per Marx, all’insostenibilità sempre più evidente dell’organizzazione capitalistica, che per forza di cose verrà soppiantata da una nuova forma di organizzazione economica e sociale, di carattere socialista e comunista.

In essa, la scomparsa della proprietà privata comporterà anche quella delle classi (gruppi sociali caratterizzati appunto da diversi livelli di proprietà) e la nascita di un’organizzazione democratica della produzione, in cui l’Umanità stessa (cioè i suoi distretti) deciderà democraticamente come orientare la produzione, senza più essere peraltro pressata dal pungolo della necessità e della sopravvivenza materiale (“da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni”). In tale contesto, non sarà più la logica (distorta) del mercato e della ricerca del profitto privato, a orientare la produzione, bensì le decisioni della libera comunità dei cittadini, sulla base di criteri razionali in quanto fondati sulle esigenze reali della popolazione, anziché sulla “razionalità” capitalistica basata sulla competizione di mercato.

Anche il filosofo Emanuele Severino si è occupato recentemente del declino del capitalismo e del mondo che sorgerà dalla scomparsa di tale sistema.

A differenza di Marx tuttavia, egli non si sofferma sulle ragioni economiche della crisi, ovvero sui fattori di declino intrinseci a tale tipo di organizzazione della produzione, ma sulle ragioni tecnologiche di essa.

In sostanza, per Severino, il capitalismo entra in crisi per effetto della moderna produzione tecnologica, sempre più spesso sovrabbondante rispetto alle esigenze di consumo della popolazione, quindi inconciliabile con l’istituzione del mercato, il cui senso ultimo è la distribuzione di risorse in una condizione di scarsità. A questo proposito, Severino utilizza la figura hegeliana del rapporto servo/padrone: la tecnica infatti, per molto tempo è stata “serva” del capitalismo, in quanto mezzo di incremento della produzione delle merci e quindi dei profitti capitalistici; ma questo servo, a un certo punto, finisce per prendere coscienza della propria forza, del fatto cioè che il capitalismo ha bisogno di lui più di quanto lui non abbia bisogno del capitalismo.

La società che Severino vede profilarsi all’orizzonte non è tanto la marxiana società dell’Eguaglianza, della Condivisione, ecc. bensì la società della Tecnica: una società il cui fine direttivo non sarà più l’incremento indefinito del profitto ma quello della potenza tecnologica. In un tale tipo di organizzazione economica insomma, la tecnica (forza intrinsecamente progressiva ed evolutiva) diverrà finalmente scopo a se stessa, anziché (come è avvenuto finora) essere mero strumento dello sviluppo del capitalismo e del mercato.

Il capitalismo ovviamente, inteso come attività di dislocazione delle risorse esistenti al fine di creare altre risorse, continuerà ad esistere, ma senza più essere diretto dalla ricerca del profitto privato. Se di capitalismo si vuole ancora parlare, tale termine avrà quindi in ogni caso un senso assolutamente diverso da quello attuale.

Contrariamente a Marx, inoltre, Severino non pone l’accento sulla natura democratica e non classista di questa ipotizzata società post-capitalista. Piuttosto, egli ne sottolinea la natura profondamente interconnessa, basata su principi simili a quelli delle moderne tecnologie informatiche: ovvero sulla costante comunicazione e quindi sulla collaborazione tra i vari settori della ricerca e della produzione.

Nonostante poi, egli affermi che la tecnologia ha “sconfitto” il Socialismo reale come, in futuro, sconfiggerà il Capitalismo, per molti versi la società da lui prefigurata appare, almeno a chi scrive, una riedizione delle società burocratiche e stataliste che caratterizzarono il vecchio blocco comunista, non a caso spesso definito come una forma di capitalismo di stato, in cui le gerarchie di comando decidevano (attraverso piani di sviluppo di lunga durata) la dislocazione delle risorse (capitali) disponibili a livello globale al fine di perseguire i fini di sviluppo prefissati.

Nella differenza tra le due visioni qui presentate, possiamo scorgere forse una tendenza di fondo che caratterizza la nostra epoca rispetto a quella (otto-novecentesca) delle grandi lotte per l’emancipazione del proletariato: quella cioè alla disillusione e per così dire alla “de-utopizzazione” della visione del mondo post-capitalista (un mondo, peraltro, per ora solo astrattamente ipotizzato).

E in effetti c’è da chiedersi se un’ipotetica fine dell’attuale società del profitto e del mercato dovrebbe per forza coincidere con la fine storica delle organizzazioni sociali basate sulle disparità tanto interne (classi) quanto esterne agli stati, ovvero tra le diverse zone del mondo. E la risposta sensata a questa domanda appare purtroppo di no, quantomeno non necessariamente.

Quali ragioni infatti, dovrebbero indurci a pensare che la fine della logica del mercato (intesa quantomeno come lo stesso asse portante dell’organizzazione economica) dovrebbe portare necessariamente alla socializzazione dei mezzi di produzione e all’instaurazione di una condizione di eguaglianza tra i membri della comunità (sia sul piano nazionale o locale che su quello mondiale)? Al contrario, se come pare adombrare Severino la futura società della Tecnica si baserà come quella attuale su una rigida divisione o parcellizzazione specialistica del lavoro e – più ancora di quella odierna, basata sull’impresa capitalistica e anarchica – su una rigida pianificazione produttiva decisa dall’alto, le cose potrebbero andare nel verso opposto rispetto a quello prefigurato dell’”utopismo” marxiano.

C’è da chiedersi allora, se un’eventuale fine del capitalismo odierno non coinciderebbe con una forma ancora più accentrata e dispotica di organizzazione economico-sociale.

L’altra possibilità tuttavia, è che la società mondiale che sorgerà da questa ipotetica situazione di declino del mondo attuale, sarà basata sull’esistenza di libere comunità locali, potenzialmente autosufficienti economicamente, libere quindi di interagire reciprocamente ma senza alcuna costrizione nel farlo, e in grado di autogestirsi democraticamente. Purtroppo però, la storia passata ci insegna che la bramosia umana di potere è una forza che sempre si riafferma, in ogni epoca e luogo, e nulla ci impedisce perciò di pensare che, in una tale situazione, le zone del mondo più sviluppate eserciterebbero o cercherebbero di esercitare il proprio dominio su quelle più deboli, così come che le classi sociali a più alta specializzazione e/o con compiti di natura più dirigenziale cercherebbero di mantenere dispoticamente (ovvero senza consultazioni democratiche) il proprio potere sulle altre, anche attraverso l’impiego di sovrastrutture coercitive estremamente sofisticate.

La speranza che emerge da questo bilancio, tuttavia, è che le capacità produttive di questa ipotetica società futura saranno tali da poter garantire a tutti, anche considerando il superamento delle logiche irrazionali del mercato (capaci, come abbiamo visto, di creare povertà anche nell’abbondanza), un livello di vita dignitoso. E che inoltre l’Umanità, finalmente liberata dall’ossessione del profitto, saprà consapevolmente indirizzare la propria ricerca tecnologica verso forme di produzione con il minore impatto ambientale possibile.

Fonte: adrianotorricelli.wordpress.com


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019