ECONOMIA E SOCIETA' |
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La rete del Capitalismo italiano: dal Banco di Roma ad UniCredit Group
La storia del Gruppo comincia, come spesso accade nelle realtà bancarie italiane, da un passato lontano e suggestivo. Precisamente, ci ritroviamo nella Roma immediatamente post-unitaria, che si serviva dei servizi finanziari di varie banche, soprattutto francesi, per assecondare il boom edilizio del decennio 1870-1880, durante il quale la popolazione aumentò di un terzo, fino a 300 mila abitanti, naturale conseguenza dello spostamento delle istituzioni governative nella nuova capitale. Fino a pochi anni prima, i principali istituti cittadini erano Crédit Lyonnais e Crédit Mobilier, ai quali si aggiunse attorno agli ultimi anni del 1870 la prima filiale romana di Union Générale, che immediatamente intrecciò relazioni con importanti investitori. Tra questi, gli aristocratici romani ed il clero erano sicuramente tra i principali clienti ed azionisti, ma un grande ruolo lo giocarono Papa Leone XIII ed il Mons. Folchi, suo stretto collaboratore. Infatti, allorché montarono divergenze tra il marchese Mereghi, il principe Giustiniani Bandini ed il duca Borghese e la “holding” parigina di Union Générale, il primo travasò i suoi fondi nel neonato Banco di Roma, fondato dai tre aristocratici a seguito della crisi. Tuttavia fu Folchi, nelle congetture di alcuni storici, a spingere la Santa Sede e l'aristocrazia cattolica verso lo scontro con i francesi e soprattutto favorì la fondazione, il 9 marzo 1880, del Banco di Roma. Mereghi divenne il primo presidente, con il mandato, preciso, di amministrare e generare interessi dalle ricchezze del Papa e delle congregazioni religiose. Anche in seguito i rapporti con l'ambiente ecclesiastico rimasero molto forti, talvolta persino ambigui. Questo preambolo mette in chiaro la costante presenza di trame più o meno chiare sulla gestione degli istituti finanziari, anche oltre 150 anni fa. La storia del Banco di Roma, però, ha forse un alone di mistero in più, dovuto alle tante vicende ed ai nomi che hanno avuto a che fare con esso durante tutto il corso del secolo scorso e l'inizio degli anni 2000. Trattandosi di una banca con forte ispirazione territoriale, l'attività risultò per oltre un ventennio limitata al Lazio, ma a partire dai primi del '900, e soprattutto durante il periodo mussoliniano, si estese all'intero paese e all'estero in qualità di banca del regime. Giocò un ruolo chiave nei finanziamenti alle imprese coloniali aprendo filiali in Turchia, Libia, Etiopia e Somalia, ma non diversamente da altri gruppi bancari europei, venne travolta dalla Grande Crisi del 1929. Quattro anni dopo, quando il rischio di default divenne insostenibile, il governo fascista corse in soccorso dei grandi istituti finanziari italiani: scongiurando il crollo della fragile economia italiana, Mussolini creò un ente di sostegno, pensato in principio come provvisorio, l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Quello che in seguito diventerà la colossale "scatola" della Pubblica Amministrazione italiana, e che per alcuni anni venne registrato come l'ente con più lavoratori dipendenti al mondo, in quei primi anni di vita evitò il fallimento delle maggiori banche italiane (Banca Commerciale, Credito Italiano e lo stesso Banco di Roma). Questi stessi istituti, nel 1937, vennero dichiarati “banche di interesse nazionale”, soggette alla disciplina del diritto pubblico, ergo impossibilitate ad effettuare operazioni a lungo termine e ad avere rapporti (ad esempio di credito o di partecipazioni) con realtà industriali, ma in compenso con la possibilità di operare su tutto il territorio nazionale, contrariamente a qualsiasi altra Cassa di Risparmio, Rurali, eccetera. In un simile sistema ovviamente la concorrenza viene azzerata, e le politiche monetarie mutano in una pura appendice partitica. (Ad ogni modo, negli anni Quaranta, il rilancio delle possibilità di internazionalizzazione fu molto ostacolato dalle rivendicazioni e dalla concorrenza della banca inglese Barclays). Il regime delle "bin" persistette fino all'abrogazione della legge che innestava la radice economico-finanziaria della Banca d'Italia con quella politica del Ministero del Tesoro, ossia soltanto verso l'inizio degli anni Ottanta. Alla fine di quello stesso decennio l'IRI, diretto da Romano Prodi, vantava quote rilevanti su due banche che versavano in cattive condizioni: una quota di maggioranza assoluta nel Banco di Roma (81%) e una partecipazione minoritaria nel Banco di Santo Spirito, posseduto al 51% dalla Cassa di Risparmio di Roma. Il presidente dell'IRI non nascose un forte interesse alla creazione di un polo bancario in previsione dell'apertura ai capitali europei, tramite importanti opere di privatizzazione, fino ad allora consentite però soltanto su aziende statalizzate in crisi. L'idea dunque era quella di far acquisire alla Cassa di Roma il Banco di Santo Spirito, e poi osservare l'evoluzione degli eventi per decidere come sdoganare anche il Banco di Roma. Così il 1° agosto 1992 nasce Banca di Roma, dal processo di concentrazione voluto da Cesare Geronzi, assecondato dal governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, dal ministro del Tesoro Guido Carli e dal ministro delle Partecipazioni Statali Franco Piga. L'accorpamento riguardava il Banco di Roma, il disastrato Banco di Santo Spirito (fondato nel 1605) e Cassa di Risparmio di Roma (fond. 1836, dal 1937 possessore del Monte di Pietà di Roma). Il patrimonio netto si aggirava sui 10 mila miliardi di lire, con una raccolta di capitali di 107 mila miliardi, 24000 dipendenti e 1200 sportelli presenti in 18 paesi. La Cassa di Risparmio di Roma Holding agiva allora come controllante, con il 67,55% del capitale, contro il 13,35% dell'IRI e il 10% dell'Ente Cassa di Risparmio di Roma. La Holding era a sua volta controllata dall'Ente (65%) e dall'IRI (35%). Alla guida del gruppo il presidente Pellegrino Capaldo e il DG Cesare Geronzi, assieme ad Antonio Nottola, già da lungo tempo al vertice della Cassa di Roma. Il “direttore dei lavori” fu l'ex presidente della CONSOB Guido Carli, che portò così a buon fine la prima applicazione della Legge Amato, promulgata per favorire una sostanziale ristrutturazione finanziaria del sistema bancario italiano. Ma approfondiamo la vicenda anche in chiave politico-strategica. Cronologicamente, l'operazione partì tre anni prima, nel 1989, con l'acquisizione del Banco del Santo Spirito da parte della piccola ma efficiente Cassa di Risparmio di Roma, e si concluse due anni dopo con la nascita del gruppo. Durante questo periodo, alla presidenza del consiglio dei ministri si avvicendarono due figure chiave della Democrazia Cristiana: Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti. In quello stesso biennio la presidenza dell'IRI era tenuta da altri due personaggi rispettivamente vicini alle posizioni del governo vigente, cioè Romano Prodi e Franco Nobili. Furono le posizioni vicine al Vaticano di Andreotti e Nobili a dare la spinta giusta (e poco trasparente) alla conclusione dell'operazione, assecondata da Lamberto Dini, allora direttore generale di Bankitalia. Le posizioni sullo scacchiere danno una impressione preliminare sul vero senso della nuova realtà bancaria romana, che era un punto essenziale per la transizione delle partecipazioni, da statali a private. D'altronde chi andava ad occupare il vertice erano Capaldo e Geronzi, entrambi da molti anni impegnati in missioni di riassetto economico-finanziario o di risoluzione di (il primo su Enimont e Federconsorzi, entrambi sul bridge financing di Finmeccanica e su altre operazioni di M&A). Da un punto di vista strategico, questa fusione andava a compensare l'altro polo “settentrionale” guidato dalla Mediobanca di Enrico Cuccia, che aveva portato due grandi realtà bancarie quali Comit e Credit nella sfera di influenza franco-tedesca (pur non essendone proprietario, ma con la “spinta politica” dei Repubblicani di Ugo La Malfa da un lato, e quella industriale della famiglia Agnelli dall'altro). In effetti già da molti decenni molti capi di governo avevano espresso la volontà di formare un blocco romano alternativo alla “calamita per capitali” costituita dalle banche settentrionali. Ricerche effettuate dall'ex presidente BNL Nerio Nesi negli Archivi di Stato confermano che prima Giolitti, poi Mussolini ed infine De Gasperi giudicarono come opportuna una manovra del genere su INA, INPS e BNL (tutte nate attorno al 1910). Dopo l'abbandono di Capaldo nel 1995, Geronzi raggiunse obiettivi dimensionali importanti per la Banca di Roma, tramite acquisizioni del calibro della Banca Nazionale dell'Agricoltura (1995), Mediocredito Centrale e Banco di Sicilia (quest'ultimo in cambio entra, assieme alla Regione Sicilia, nella compagine proprietaria), pur con alcuni problemi di solidità, che portò conseguenze quali la firma di un contratto di solidarietà tra i dipendenti per ridurre i costi del lavoro e salvare la banca nel 1998. Entrano forze nuove nel top management: Giorgio Brambilla diventa AD della holding in sostituzione di Capaldo, e nel 2001 un giovanissimo Matteo Arpe, già ex-Mediobanca (per contrasti con Maranghi) ed ex-Lehman Brothers, viene messo a capo del Mediocredito Centrale (oggi MCC), intermediario specializzato nel credito all'impresa e più in generale nella linea di business di Corporate & Investment Banking. Sarà il terzetto Geronzi-Brambilla-Arpe a traghettare la Banca verso una nuova metamorfosi: nel maggio 2002 Capitalia è il prodotto della fusione con Bibop Carire. Oltre 32000 dipendenti, 2000 sportelli in tutto il territorio italiano per creare il quarto gruppo creditizio nazionale, nel più lineare e semplice dei modi, secondo le dichiarazioni di Geronzi del 17 maggio 2002, seguendo strade meno aspre del percorso che portò alla Banca di Roma. Nel frattempo, nell'ottobre 1998 con l'aggregazione di Credito Italiano e Rolo Banca 1473 con Cariverona, Cassa di Risparmio di Torino e Cassamarca, nasceva Unicredito Italiano, poi integrato dalle partecipazioni della Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto e la Cassa di Risparmio di Trieste, ed infine nel giugno dell'anno successivo con la seconda banca commerciale polacca, Bank Pekao. All'epoca (1999) il numero di dipendenti superava le 60000 unità, e gli sportelli erano 3600. I risultati economici confortavano le scelte strategiche, con un patrimonio di oltre 15000 miliardi di lire, un utile netto di 2500 miliardi, un risultato di gestione che aveva raggiunto e superato i 6700 miliardi ed un attivo, tra fondi di investimento, gestioni patrimoniali, assicurazioni sulla vita oltre i 185 mila miliardi. Le quote principali erano detenute da Fondazione Cariverona, Cassa di Risparmio di Torino e Cassamarca, gruppo Allianz, Max Mara, Luxottica, Commercial Union, Société Générale. L'AD Alessandro Profumo controllò l'M&A per la incorporazione di Capitalia in UniCredito Italiano, proprio negli stessi giorni in cui Cesare Geronzi fu rinviato a giudizio per le vicende del crac Cirio, in cui andarono bruciati più di un miliardo di euro di obbligazioni, ormai diventati carta straccia nelle mani di circa 80 mila risparmiatori (maggio 2007). La fusione, avvenuta tramite acquisto di azioni Capitalia ad un costo superiore del 12% rispetto a quello di mercato, diede i natali ad uno dei più grandi gruppi bancari europei, con 96 miliardi di euro di capitalizzazione ed oltre 950 di attivo: Unicredit Group. I quasi diecimila sportelli, fondamentali per la capillarità dei rapporti con i clienti sono per circa metà sul territorio italiano, e per la parte restante sparsi in Europa. Gli azionisti più rilevanti (con quote tra il 3,9 ed il 2,4%) del nuovo colosso erano tutti dell'UniCredito (in ordine di partecipazioni decrescenti: Fondazione Cariverona, Fondazione CRT, Munich Re, Carimonte Holding, Gruppo Allianz), mentre tra le quote Capitalia troviamo sopra l'1% soltanto ABN Amro (1,9%) e Fondazione CariRoma (1,1%). Questa operazione, per molti aspetti, ha l'aria di rappresentare una "risposta" al merger di Banca Intesa e San Paolo IMI, e l'approdo di Geronzi in Mediobanca (milanese) in qualità di presidente del consiglio di sorveglianza ha sancito il delinearsi di un inedito fronte, non più di istituti romani contro banche settentrionali, ma di un puro scontro di capitali e di interessi contrapposti, completamente scissi da questioni geografiche. A seguito di tale manovra, ritenuta solo parzialmente accettabile dall'Ente Antitrust, Matteo Arpe, che pure fino all'ultimo rimase elemento gradito al primo azionista ABN Amro e alla stampa internazionale, a causa delle vessazioni e dei contrasti continui con Geronzi, decide di dimettersi, per poi riprendere la strada del Private Equity e dell'Asset Management alcuni mesi dopo, fondando la Sator SGR. Anche su di lui graveranno i sospetti di un coinvolgimento in uno dei tronconi del processo Parmalat, per un'operazione su cui la sua firma fu probabilmente forzata dagli ambienti ancora torbidi del vecchio ed appesantito capitalismo italiano, che in quei mesi paventava un contagio della grande crisi attuale. |
Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"