ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


Fra Manierismo e Barocco

Dario Lodi

La situazione europea, fra XVI e XVII secolo, si complica per tre ragioni principali: la perdita della centralità romana, l’affermazione del Protestantesimo e le imprese transoceaniche, dopo che nel 1492, com’è ben noto, Colombo scoprì (per caso) il continente americano. Vediamo le conseguenze: le imprese transoceaniche tolsero importanza al commercio nel Mediterraneo. La romanità, così, fu sepolta per sempre. L’affermazione del Protestantesimo causò le famose guerre di religione, in realtà guerre per dividersi le spoglie del Sacro Romano Impero, non più condizionato dalla Chiesa (che, infatti, si ribellò a questa “pretesa”). La perdita della centralità romana provocò un vero e proprio caos, da cui uscirà una nuova Europa: quella delle Nazioni, già in essere o in proiezione.

Nello specifico, la questione religiosa (in realtà, come abbiamo visto, una questione di potere: ovvero lotta non per l’altare, fra Cattolici e Protestanti, ma per gli effetti della frantumazione del sistema e dunque lotta fra imperiali e suoi avversari, imbaldanziti dalla loro coesione), portò, nel nord dell’Europa, a cambiamenti epocali nel giro di pochi anni.

Tutto parte dall’inglobamento del Ducato di Borgogna nel regno francese. Ciò accadde perché il Ducato era rimasto senza eredi e perché sussisteva in Francia il concetto di centralità regale, con dispense feudali di natura soprattutto esattoriale. Non avveniva come in Germania e in Italia, divise in miriadi di organizzazioni private, la cui unione era solo formale ed era rappresentata, appunto, dal controllo e dal dirigismo della Chiesa romana.

Il Ducato di Borgogna controllava, con molto lassismo, i Paesi Bassi. Quando scompare, i Paesi Bassi finiscono, per questioni dinastiche, alla Spagna (altro regno centralizzato come la Francia, ma allora molto più potente). Filippo II, figlio di Carlo V, e poi i suoi successori, fecero di tutto per proibire la diffusione del Protestantesimo in quelle terre cattoliche. Il Cattolicesimo resisterà in Belgio, costringendo i nascenti luterani a emigrare, chi a nord, in Olanda, chi ancora più a nord, in Inghilterra. Sempre in Olanda e in Inghilterra finiranno anche gli Ugonotti (protestanti francesi) dopo la famosa “Notte di San Bartolomeo” del 1572.

Morale: Belgio e Francia persero parecchie forze imprenditoriali e commerciali, le più attive, facendo la fortuna di Olanda e Inghilterra che si videro triplicare (nel caso inglese addirittura quadruplicare) il numero degli abitanti in una cinquantina d’anni. Questa emigrazione, unitamente agli abitanti tradizionali del luogo, diedero vita a un mercato particolarmente florido e del tutto laico. Le Chiese protestanti divennero semplici luoghi di culto, non poterono interferire moralmente (son non con sermoni) sull’andamento delle cose. Si attenuava, sino alla scomparsa, la presa psicologica, di matrice etica e spirituale, imposta dalla vecchia chiesa ed effettiva, almeno in modo formale ma accentuato, sul piano pratico. La situazione cominciò a cambiare in senso tutto laico, con la discesa di Carlo VIII re di Francia in Italia, nel 1494, così ben descritta dal Guicciardini: preludio alle tragiche Guerre d’Italia, durate praticamente sino al 1559, e scintilla del caos europeo del XVII secolo.

L’arte di questo periodo si adegua alle circostanze, mettendosi più che mai al servizio del committente. La Chiesa romana punta sul fasto per dimostrare la bontà della sua organizzazione, mentre i Paesi luterani, come l’Olanda, dove sono proibite (ma talvolta tollerate) le riproduzioni sacre, trovano commissioni nel ricco mondo mercantile derivato dall’intraprendenza priva dei freni ecclesiastici. Il Manierismo, così come il coevo e successivo Barocco (forse dal francese, irregolare), esaltano l’immagine rinascimentale, sino a portarla alla massima decoratività. L’afflato spirituale è sovente di riporto (non mancano certo espressioni sentite e sincere, ma sono rare e dovute a personalità eccezionali), dato per scontato, e quindi è avvertita come necessaria la spettacolarità. E’ una sorta di cerimonia di ringraziamento ai numi rinascimentali, ovvero la triade Leonardo, Raffaello e Michelangelo, con particolare riguardo alla bravura formale del secondo. Senza dimenticare Caravaggio, che con la sua “luce” e la bellezza “concreta” delle sue figure, influenzerà la pittura dell’intero Continente sino all’avvento del Neoclassicismo, e cioè sino a metà, circa, del XVIII secolo.

Non è agevole individuare con esattezza gli artisti delle due categorie. D’altro canto, le categorie sono state fatte, in genere, per avere un punto di riferimento, più che per fare piena chiarezza. Quest’ultima è impossibile, dati i contesti differenti fra i vari artisti e date le diversità culturali e caratteriali fra essi. Se pensiamo alla Maniera come a una continuità in qualche modo parodistica dei modelli classici e al Barocco come a una celebrazione elegante e puntigliosa della Maniera e del classicismo allo stesso tempo (ovvero senza parodie dichiarate) allora possiamo tentare dei nomi rappresentativi dei due movimenti. Essi, per gli effetti dei contrasti religiosi fra Cattolici e Protestanti, vanno a interessare l’intera area europea. Centrali rimangono: il disegno fiorentino e il colore veneziano, con predominanza del secondo.

Il Rinascimento italiano è guida generale, non tanto per i suoi contenuti culturali derivati dall’Umanesimo, quanto per le soluzioni formali adottate, soluzioni che recitano quella perfezione visiva da sempre immaginata dall’uomo. A questo punto, forma e contenuto si scindono parzialmente, nel senso che la prima assorbe il secondo: il contenuto classico non è recuperato e discusso, bensì accettato e trasformato in qualcosa d’ideale. L’arte, quindi, si sviluppa entro questo idealismo. La cosa avviene anche con le opere di carattere forzatamente laico. Il mercante si fa ritrarre come se la sua figura, espressione di autonomia vincente, fosse sacra. Gli ambienti, specie olandesi, come fossero interni di chiese. Poche le eccezioni intimiste e pochi gli indugi sentimentali baciati da una razionalità nuova, figlia dell’Umanesimo, e madre delle problematiche attuali caratterizzate dal procedere vertiginoso della Scienza: Galileo sta facendo balenare la realtà di un mondo nuovo. L’uomo è chiamato a nuove responsabilità, questa volta dirette.

Legato ancora, in buona parte, al classicismo rinascimentale, una specie di miracolo dati i tempi, è Annibale Carracci (1560-1609). Pittore bolognese, operò principalmente in Emilia, ma fu chiamato anche a Roma, dove affrescò Palazzo Farnese ed eseguì altri lavori per l’importante famiglia romana. Rivalutò completamente il paesaggio, portandolo alla stessa dignità degli altri soggetti. Fu ottimo ritrattista. Polemizzò col Vasari, dicendo di lui che capiva poco di pittura (infatti, Vasari fu più buon storico d’arte che pittore). Annibale è unanimemente considerato il migliore dei Carracci (con i cugini, Ludovico e Agostino, suoi collaboratori, fondò una sorta di accademia – l’Accademia degli Incamminati – dove veniva onorata l’arte di Raffaello, Correggio, Michelangelo, Tiziano, Veronese, di cui Annibale fu sempre devoto e alla quale, dichiaratamente s’ispirò). Si riporta la splendida “Pietà” (se ne conoscono diverse copie, questa, fra le migliori, è un olio su tela cm. 156x149, anno 1598-1603, e si trova nel Museo di Capodimonte di Napoli): è straordinariamente priva di enfasi e ricorda la pietà di Michelangelo, con qualche languidezza in più, che tuttavia non risulta superflua. E’ una commozione che l’artista non ha voluto trattenere. Molto interessante è la “Testa di vecchio”, olio su tela cm. 39,4x27,9, anno 1590-92, Dulwich Picture Gallery, Londra. Resa assai bene la malinconia pensosa del personaggio. E’ qualcosa d’insolito nella ritrattistica. Splendido e suggestivo, nella sua poetica descrizione atmosferica del famoso viaggio forzato, è questo “Paesaggio con la fuga in Egitto”, olio su tela, cm. 122x230, anno 1603, Galleria Doria Pamphilj, Roma, un dipinto tutto a favore del paesaggio, capostipite per eccellenza di tutte le successive opere sul tema. Difficile tuttavia eguagliare tanta dolcezza e tanta semplicità.


Carracci, La Pietà

Carracci, Paesaggio con la fuga in Egitto

Carracci, Testa di vecchio

Nobili e sontuosi sono il manierismo di Guido Reni (1575-1642) e di Pieter Paul Rubens (1577-1640), il secondo sfociato nel Barocco più fulgido. L’irregolarità dell’immagine e dell’insieme, nel caso, è contemplato nella misura in cui porta lo spettacolo a un’ampia fruizione, certo di natura spirituale, ma d’una spiritualità fatta più di estetica che di etica e tutto questo proprio a favore, quasi per un incantesimo, dell’etica stessa.

Rubens era di origine tedesca, il padre fuggì a Colonia per evitare la persecuzione contro i protestanti, poi ad Anversa, sotto gli spagnoli, dove si fece cattolico. Nella città belga il nostro pittore ebbe i primi rudimenti da pittori locali. Nel 1600 partì per l’Italia e vi rimase otto anni. Apprese dai maestri rinascimentali. Vincenzo I duca di Mantova lo volle alla sua corte e lo adoperò anche per varie ambascerie. Così Rubens fu a Roma (dove lavorò per la cerchia del cardinale Scipione Borghese), quindi in Spagna. Infine tornò ad Anversa, realizzando tavole per diverse chiese. Nel 1621 fu chiamato da Maria de’Medici, madre del re francese Luigi XIII, per decorare la galleria del Palazzo del Lussemburgo, cosa che fece magnificamente. Le opere sono ovviamente allegorico-encomiastiche. Maria de’Medici si vantava d’aver evitato conflitti tra Francia e Spagna. Ritenuta inadatta al comando fu esiliata nel castello di Blos.

Nel 1629-1630 il nostro pittore fu in Inghilterra, chiamato da Carlo I per la decorazione della Banqueting House di Whitehall a Londra. Rubens amò la pittura spettacolare, senza sottrarsi alla teatralità più smaccata. Ma fu anche capace di pause di vera poesia, anche se un po’ stucchevole, come in questo “Giardino dell’amore”, olio su tela cm. 198x283, anno 1633, Museo del Prado di Madrid. Si noti la straordinarietà della pittura, ammirevole per finezza e sicurezza esecutiva, e la splendida tavolozza cromatica, con quel rosso sulla destra che illumina tutto il dipinto. Meno rimarchevole è quando riproduce scene drammatiche, come la “Resurrezione di Cristo”, olio su tela, cm. 183x155, anno 1616, Palazzo Pitti, Firenze. Sempre eccellente la tecnica, ma molto enfatica la resa. Cristo è bloccato in una posa assurda per eccesso di volontà di significazione da parte del pittore. Rubens è ancora meno convincente in questa scena, movimentatissima, che si riferisce alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648). La tela, a olio, è del 1637-38 e porta il titolo “Conseguenze della guerra”, cm. 206x345, Galleria Palatina, Firenze. Il dramma è urlato, la scena è stravolta. Ottima la padronanza del tutto, ma dispersivo il messaggio, e banalmente morale. Grande talento, quello di Rubens, non supportato, in generale, da altrettanta pregnanza intellettuale. Nella sostanza, un decoratore raffinatissimo. Un esteta attratto dall’estetica più in sé che fuori di sé. Un’eleganza che fa elegante anche la tragedia. La forma, nel suo caso sempre notevole, che travolge il contenuto.


Rubens, Giardino dell'amore

Rubens, Conseguenze della guerra

Rubens, Resurrezione di Cristo

Formalista notevole è anche Guido Reni (1575-1642), artista bolognese molto richiesto a Roma, dove lavorò per vari cardinali, fra cui il solito Scipione Borghese, e addirittura per il papa, Paolo V, che gli fece affrescare sale dei Palazzi Vaticani. Reni era andato a lezione da Denijs Calvaert, pittore fiammingo allora molto in voga a Bologna, dove teneva una rinomata bottega, e dai Carracci, titolari dell’Accademia degli Incamminati (era il 1594 e da poco si chiamava così l’Accademia dei Desiderosi, dai Carracci stessi fondata). Nel 1588 è citato come pittore fatto, indipendente.

A Roma, nel 1601, Reni poté ammirare le opere di Raffaello, ormai un eroe dei Manieristi, e Caravaggio. Tradizione vuole che apprese da entrambi, che tentò di imitarli. Forse il nostro pittore è più vicino allo stile di Annibale Carracci, almeno nei primi tempi. Nella realtà, però, Reni non procede in modo coerente. La sua forma cambia secondo le circostanze. Egli sa adeguarsi alle pretese della committenza, non persegue la manifestazione della propria personalità. Le opere risentono di questo adeguarsi, dando l’impressione che le figure e le situazioni rappresentate non siano di “prima mano”, ma siano come derivate da copiature e rimaneggiamenti accurati.

Reni pare distaccato da ciò che dipinge, pur essendo attento alla resa di ogni dettaglio. La sua è come una lezione ripetuta a memoria, con punti e virgole propri. Le accentuazioni sono di varia natura e talvolta raggiungono un’intensità sorprendente, oltre la Maniera. Si veda il "Ritratto della madre", olio su tela, cm. 65x55, anno 1620, Pinacoteca Nazionale di Bologna. E si ammiri questo "San Michele Arcangelo", olio su seta, cm. 295x202, anno 1635, Chiesa di S. Maria della Concezione di Roma, forse il suo capolavoro, e un capolavoro del Manierismo più ispirato. Infine, l’affresco intitolato “L’aurora”, su commissione del Cardinale Borghese, anno 1614, Palazzo Rospigliosi-Pallavicini Roma, dove la grazia, la soavità delle forme e l’evolversi sereno della scena sono perle manieristiche inestimabili.


Reni, Ritratto della madre

Reni, Aurora

Reni, San Michele Arcangelo

Singolare è l’opera di Adam Elsheimer (1578-1610), tedesco trapiantato a Roma nel 1600 e divenuto cattolico sei anni dopo. La singolarità è rappresentata da certa sensibilità nordica affiancata a certa liricità mediterranea che la pittura rinascimentale ha spesso sottinteso. La discrezione è anche di Elsheimer nel dispiegare il sentire del suo animo. Il nostro artista amava le composizioni minute, le pennellate lente e calibrate, il colore sfumato. Una classicità personale la sua, dove ha prevalenza la comunione fra uomo e natura. Questa comunione viene espressa con sentimento vivo, con sincerità e passione. Lo si vede nei suoi paesaggi meditati, nei quali il sentimento si apre lentamente, indugiando su ogni particolare, restando come accanto ad esso, sospirando in silenzio, in contemplazione, sulla natura che si svela. C’è sublime ammirazione e volontaria sottomissione a un’immagine, a una scena, che sembra comporsi da sola. Elsheimer è noto soprattutto per una “Fuga in Egitto” notturna, dove per la prima volta è dipinta la Via Lattea. Probabilmente egli era al corrente degli studi di Galileo. Ma è questo “Paesaggio con il tempio di Vesta a Tivoli”, olio su tavola cm. 23,5x33,5, anno 1598, Nàrodni Galerie, Praga, a spiccare. Non c’è ricercatezza, non c’è enfasi (entrambe presenti nella sua figurazione classica: questo paesaggio, come altri, è come un’opera privata, personale).


Elsheimer, Fuga in Egitto

Elsheimer, Paesaggio con il tempio di Vesta a Tivoli

Roma fece anche la fortuna del Domenichino (Domenico Zampieri, 1581-1641), così chiamato, pare, per la timidezza e l’ingenuità. Bolognese, era stato a bottega dai Carracci, da Ludovico in particolare, in quanto Annibale era a Roma da tempo. Nel 1601 è con Francesco Albani proprio a Roma a collaborare con Annibale alla realizzazione di alcuni affreschi. Il Domenichino diventerà un grande affrescatore. Dopo Roma è a Palermo, ma ritorna presto a Roma, richiesto dal cardinale Pietro Aldobrandini e quindi dall’immancabile cardinale Scipione Borghese, la cui galleria è ormai fra le più importanti d’Europa. Dopo brevi soggiorni a Fano e a Bologna e un nuovo soggiorno a Roma, dove viene eletto architetto della Camera Apostolica (non realizzerà alcuna costruzione, ma farà altri affreschi), eccolo a Napoli, in due tornate, chiamato dai Depositari del Tesoro di San Gennaro. La prima, del 1630, vide il Domenichino fuggire dalla città a causa degli ostacoli posti dai pittori napoletani. La seconda volta, nel 1637, fu costretto a rimanere dalle insistenze dei depositari (gli avevano sequestrato la famiglia per farlo tornare) che finalmente riuscirono a fargli dipingere nove affreschi e quindi affrescare anche la cupola del Tesoro. A Napoli morì.

L’opera proposta è “La caccia di Diana”, olio su tela cm., 225x320, anno 1617, Galleria Borghese, Roma. Il Domenichino, che realizzò anche molti quadri tradizionali, si trovava meglio con le opere mitologiche, con quelle opere cioè dove poteva dare libero sfogo alla propria fantasia e alla propria abilità scenografica (anche se la scena gli fu suggerita da un cardinale, ma solo per quanto riguarda il ricorso a simbologie). Questo quadro è un piccolo gioiello, è una bellezza pura, un divertimento mentale e tecnico. Il virtuosismo è di ampio respiro, riguarda non solo l’esecuzione, bensì anche, e forse soprattutto, l’immaginazione. Il nostro artista era per il classicismo puro, secondo gli insegnamenti dei Carracci, ma, nei suoi lavori, specie di natura sacra, questo classicismo è dichiarato, più che perseguito. Lo zelo, infatti, porta sovente il Domenichino nelle braccia del Manierismo teatrale.


Domenichino, La caccia di Diana

Teatrali sono anche numerose opere del Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, 1591-1666) e specialmente la sua vertiginosa pala d’altar, di ben 7 metri per 4, la “Sepoltura di Santa Petronilla” a Roma in San Pietro (rimossa nel 1730, fu sostituita da un mosaico; la pala è visibile nei Musei Capitolini). Si tratta di un dipinto complesso, caratterizzato da una solennità convenzionale portata all’eccesso. Il soprannome di Guercino deriva dallo strabismo del pittore. L’artista emiliano (era nato a Cento, nel ferrarese) fu presto a Bologna dove poté ammirare le opere dei Carracci. Gli furono affidati alcuni lavori, fra cui, importanti, i paesaggi per la Casa Pannini.

Si riporta “La mietitura”, cm. 66x106, anno 1617: è un affresco staccato ora nella Pinacoteca Civica di Cento, fra i migliori paesaggi di sempre. Opera serena, pacata, dotata di grande calore umano e di amore sincero per la natura, la terra, i riti degli uomini per la sopravvivenza, il tutto eseguito con dolce intensità. Il Guercino fu a Venezia, in ammirazione di fronte alle opere di Tiziano e quindi a Roma, nel 1621, chiamato da papa Gregorio XV, suo estimatore. Avrebbe dovuto lavorare per la Fabbrica di S. Pietro, ma la morte improvvisa del papa, nel 1623, lo indusse a ritornare a Cento.

Nel frattempo, fra gli altri dipinti, realizzò, già nel 1621, per conto del cardinale Ludovico Ludovisi, gli affreschi del Casino Ludovisi, in particolare “La fama” sulla volta della sala del piano superiore. E’ un dipinto di rara bellezza e di fascino straordinario. Opera senz’altro decorativa, è un sontuoso preludio al Barocco: nessun fronzolo inutile, ogni gesto e sottolineatura funzionali all’espressione che si vuole sostenere. Il Guercino rifiutò l’invito di Luigi XIII di recarsi in Francia, così come poco più tardi un invito della Casa Reale inglese di recarsi in Inghilterra. Preferì rimanere a Cento, dove gli fu chiesto, tra l’altro, nel 1642, di completare un quadro raffigurante San Bruno interrotto da Guido Reni, morto nel frattempo.

Il Guercino rifiutò e propose un suo San Bruno, una pala di tormentato realismo mescolato con visioni mielose: di fatto, una cosa completamente diversa dalla pala del Reni. Inconsciamente il nostro pittore aveva tentato di imitare il Maestro, snaturando la propria personalità, personalità che si nota bene in questa “Sibilla persica”, olio su tela cm. 117x96, anno 1647, Pinacoteca Capitolina, Roma. Morto il fratello Paolo, cui era molto legato, e amareggiato per non essere apprezzato abbastanza, il Guercino cadde in depressione: gli giovò un periodo di riposo a Sassuolo, invitato dal duca di Modena Francesco I d’Este. Tornò quindi a Bologna, nella sua casa-studio, dove operò alacremente, soddisfacendo commesse manieristiche tradizionali e dando lezione ad allievi, sino alla morte. Pittore, dunque, discontinuo, certo per esigenze pittoriche del tempo, Il Guercino si fa ammirare per la forza e la grazie del colore e per la bellezza, a volte straordinaria, del disegno. Un grande artigiano che a tratti diventa artista sommo, specie quando il soggetto non è imprigionato da ferree regole religiose.


Guercino, La Fama

Guercino, La mietitura


Guercino, Sibilla persica


Guercino, Sepoltura di Santa Petronilla

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019